Giusto un’idea: questa. Il fatto che viviamo in un ambiente, inteso come guardarsi intorno e modellare ciò in cui siamo immersi, può essere fuorviante. Certo, ci serve per pensare in prima istanza di essere separati da quell’ambiente, quasi immaginando di viverlo dall’esterno. Questo ci consente di poter giudicare e, in qualche modo, ci illude di poterci appropriare del territorio in cui viviamo. Ma ripartiamo dalla domanda iniziale di questa serie di articoli: se fossimo un giglio? Come vedremmo l’ambiente che abbiamo intorno? Sicuramente in maniera diversa. Quella maniera diversa è così distante però dal modo in cui anche noi siamo calati nell’ambiente? Non sto parlando dell’illusione che abbiamo, che ci siamo costruiti grazie alla nostra coscienza. Sto parlando di come siamo noi, come animali, all’interno dell’ambiente che viviamo. Siamo realmente così diversi dal giglio? Siamo così differenti dal rizoma o da una vespa che sta tentando di pungerci?
La distanza che ci separa da tutto questo è solo un’illusione e una barriera che ci dà sicurezza. La realtà è che siamo molto più connessi con l’ambiente di quanto pensiamo e di quanto vorremmo. Se Spinoza ci ha insegnato che non siamo i prìncipi della creazione, ci dice anche che la nostra limitatezza è così grande che non ce ne rendiamo conto di essere soltanto un semplice modo della Sostanza. Ora, questo semplice modo pretende di capire tutto, partendo dal proprio limite. Ma dimenticandosi del proprio limite. Il monopolio dell’intelligenza in realtà non è nostro appannaggio esclusivo. Ci riteniamo gli unici esseri intelligenti, o i più intelligenti del pianeta, ma il problema è che non capiamo che la nostra impressione di superiorità si basa esclusivamente su un confronto che non tiene conto di tantissime variabili. Ad esempio, pensiamo che le piante o i fiori siano il punto più basso della scala evolutiva, pensiamo che le piante non siano intelligenti perché paragoniamo il nostro tipo di intelligenza alla loro. Aristotele scrisse che l’anima vegetativa era quella più semplice e non in grado di muoversi. Da qui pensiamo che le piante siano fondamentalmente stupide e non in grado di sentire. Dire a qualcuno che è un vegetale non è propriamente un complimento. La realtà straordinaria è che le piante sentono, hanno sensi diversi dai nostri che permettono loro di vedere, ascoltare, toccare, gustare. A differenza nostra, che abbiamo concentrato le nostre capacità sensibili in un unico strumento o in poche zone nevralgiche, le piante, nella loro evoluzione, hanno diluito i sensi in tutto il corpo per una ragione di sopravvivenza, hanno cioè evitato di raggruppare le loro capacità in poche zone. Per un motivo semplice: mentre un animale può scappare e muoversi, le piante, essendo immobili e preda di animali erbivori, non possono permettersi di concentrare in un unico organo i loro sensi, così ogni loro parte è destinata a svolgere la funzione sensibile. Detto brutalmente, è come se avessero la capacità di respirare senza i polmoni e per noi uomini questo è qualcosa di inconcepibile. Anche sulla questione dell’immobilità delle piante ci sarebbe molto da dire: non sono così immobili come immaginiamo.
Quello che possiamo dire con certezza è che la pianta non è un individuo ma una sorta di comunità in cui ogni parte è fondamentale ma non indispensabile. Se un animale, uomo compreso, perde un occhio, la sua capacità di vedere sarà notevolmente ridimensionata; al contrario se una pianta perde la gran parte del suo corpo, non saranno per nulla compromesse le sue capacità. Potremmo immaginare una pianta come uno sciame. A farla da padrone è la connessione gruppale in cui si sviluppano proprietà emergenti nelle quali nessuno dei singoli componenti è dotato peculiarmente di tutte le qualità ma le sviluppa solo in quanto membro attivo del gruppo.
Se osserviamo la Terra dall’esterno inoltre saltano agli occhi due colori: il blu del mare e degli oceani e il verde delle piante. Dell’intera biomassa del nostro pianeta la percentuale degli animali è solo lo 0,5%, quella dell’essere umano è lo 0.1%, mentre le piante rappresentano il 99,5%. Allora la domanda da porsi sarebbe: chi è che domina realmente il pianeta? Se domani dovesse scomparire l’essere umano, per le piante poco cambierebbe se non in meglio; se al contrario domani dovessero scomparire le piante, la vita dell’uomo avrebbe una durata di poche settimane.
Siamo quindi molto più dipendenti dalle piante di quanto pensiamo. Così come siamo molto più dipendenti di quanto pensiamo da ciò che abbiamo intorno. Il problema è che noi ci vediamo come individui e quasi mai come parte di qualcosa. Esseri unici staccati dal resto che hanno poco o niente a che fare con tutto quello che hanno intorno se non in termini utilitaristici. In realtà siamo carne della stessa carne, tessuto dello stesso tessuto. L’aria che respiriamo proviene dalle piante e da questa aria assorbiamo anche una parte di queste piante. Quando mangiamo verdure o carne immettiamo nel nostro corpo il DNA di altri esseri e lo facciamo nostro, facendolo diventare parte di noi. Quando moriamo e veniamo seppelliti, il nostro corpo si decompone, tornando a essere parte del tutto, trasformandosi in azoto che le piante utilizzano come energia per procedere alla fotosintesi che produce ossigeno. Se quelle che ho scritto possono sembrare delle banalità, in realtà spesso dimentichiamo quanto noi dipendiamo dalla comunità naturale da cui siamo circondati, quanto ne facciamo parte integrante, senza esserne dominus, ma semplice modo.
Viviamo insomma in un mondo in continua trasformazione, abitiamo un pianeta soggetto a continue metamorfosi, in cui tutto entra in tutto e si trasforma in qualcosa di diverso, ogni giorno. Non siamo individui, inseparabili e sempre uguali a se stessi, ma anche noi siamo soggetti a questi continui cambiamenti. Ne facciamo parte e dentro di noi continuano ad esistere e siamo partecipi tutti del medesimo corpo mutevole. È solo attraverso questa metamorfosi continua che siamo ciò che siamo e se nasciamo lo facciamo come trasformazione di un altro corpo che non esiste più. Scrive Emanuele Coccia in Metamorfosi: «ciò che vi è di più intimo e di più profondo in noi, la nostra identità genetica, viene da altri, è stato preparato da altri» (Coccia 2022, 42). E questa condizione metamorfica ci dovrebbe suggerire di accettare l’altro che è in noi. Perché non c’è individualità, perfezione, inscalfibilità ma ognuno di noi è frutto di una serie di trasformazioni che si confondono costantemente.
Anche la stabilità che pensiamo di trovare sulla Terra è questa pure frutto della nostra illusione. Ci illudiamo che la terra sia un punto fermo, il nostro fondamento ma in realtà non è assolutamente così. Il mondo, la Terra sono concetti che rispondono al nostro desiderio di certezza, di fondamento, di rassicurazione. Sono concetti che ci permettono di misurare razionalmente quella che riteniamo terra ferma e di esprimere quindi quello che altro non è che un bisogno di difendersi da ciò che non conosciamo. Come scrive Simone Regazzoni in Oceano, «che cosa sono in fondo il mondo e il pianeta Terra se non idee ristrette, antropocentriche, rassicuranti, modi escogitati per difenderci» (Regazzoni 2022, 27) dalla presunta insicurezza che ci incute il divenire del mondo, la metamorfosi costante delle cose, l’essere tutto in tutto, la presenza del nostro elemento originario che è l’acqua? Se dobbiamo ripensare al nostro mondo, e vista la crisi climatica che si fa sentire sempre più forte sarebbe proprio il caso di farlo, dobbiamo staccarci dalla terra come punto di sicurezza. La Terra vista dall’esterno è un pianeta acquoso, anzi il 99% del suo spazio abitabile è rappresentato dall’acqua, è nell’acqua che è nata la vita ed è dall’acqua che proveniamo anche se facciamo di tutto per dimenticarlo. E l’acqua, il mare, l’oceano sono l’altro per eccellenza, un altro che è in me, ma sconosciuto, che mi travolge in questa sua smisurata prossimità e mi abbraccia nella sua incomprensibilità.
Non possiamo pensare di salvare il pianeta, di ridurre gli effetti del global warming, di riportare i livelli di anidride carbonica sotto la soglia di tolleranza se non ripensiamo anche il modo di porci di fronte al mondo, al tempo, abbandonando la centralità del suolo, della Terra e iniziamo a pensare alla cosmologia come una acquologia, per la precisione una acquologia metamorfica e in divenire, che abbandoni la stabilità fittizia del mondo e si ponga alla fine del mondo come inizio di un nuovo mondo, un mondo visto nella sua interezza, senza dualismi di sorta. Il tentativo che compiono sia Emanuele Coccia sia Simone Regazzoni nelle loro opere più recenti è quello di tornare a vedere il mondo da una prospettiva che riesca a coglierlo nel suo reale essere. Un tentativo che ci riporti indietro, all’inizio della filosofia, quando parole come panteismo erano dense di significato. Scrive Empedocle in uno dei suoi frammenti: «nascita non c’è per nessuna di tutte quante le mortali cose, né di funesta morte termine alcuno, ma solo mescolanza e scambio degli elementi mescolati c’è» (AA.VV. 2016, 359). Niente ha mai fine e tutto ritorna verso il tutto.
E allora assume un senso diverso la parola oceano che deriva da okeanos che sta per massa d’acqua che erompe e travolge; la parola “mare” che ha una derivazione incerta, oscillante tra morto e infecondo e scintillante e splendente. Infine, la parola “acqua” che trova il suo significato come umore che corre serpeggiando. Noi siamo tutt’uno con ciò che ci sta intorno erompendo e travolgendo, che muore e rinasce scintillando, che corre in noi serpeggiando e cambiando, rendendoci metaformici.
In conclusione, il problema molto probabilmente è il tempo. Noi esseri umani parifichiamo tutto alla nostra unità di misura temporale e tutto quello che non rientra in questa misurazione viene giudicato immobile, statico o labile, effimero. Per questo vediamo gli alberi immobili e sempre uguali: hanno unità temporali differenti dalle nostre; per questo pensiamo alla terra come fondamento e punto fermo: la vediamo eterna e sempre esistente anche se sappiamo che così non è; per questo pensiamo alla vita di una farfalla come a qualcosa di effimero: il suo tempo ci appare così limitato da apparirci inutile. Anzi con la conquista imperialistica delle nuove tecnologie il nostro tempo si velocizza, si contrae, non lasciandoci momenti di riflessione o, per dirla con Gilles Deleuze, «interstizi di solitudine», impegnati come siamo a fare cose sul nostro telefono.
La nostra visione “suolocentrica” e antropocentrica nasce dall’essere nel tempo, dall’essere gravati dall’aspettativa delle cose che caratterizzano la nostra individualità. Afflitti e affetti dallo scorrere cronologico delle cose. In questo tempo le cose avvengono soggettivamente, ci aspettiamo che occorrano per dare senso al nostro esistere e questo ci crea distanza dal mondo e vicinanza alla sola nostra individualità desiderante. Dovremmo al contrario vivere heideggerianamente un tempo dell’essere, un tempo dove gli eventi non avvengono o accadono indifferentemente, un tempo dove riusciamo a scorgere la nostra connessione con tutto ciò che è perché anche noi siamo in questo momento. Un tempo in cui siamo davvero ora e la parola “io” si prosciuga di significato. Un tempo in cui, proprio come il giglio e come qualsiasi altro essere vegetale o animale, viviamo solo un giorno, un solo lunghissimo giorno privo di calendari, aspettative, progetti, speranze, ma in cui siamo in grado di scorgere il tempo che accade e basta nel suo totale dispiegarsi, come se vivessimo sempre in quel senso di completezza che abbiamo provato sentendo per la prima volta l’aria sbatterci contro dopo aver imparato ad andare in bicicletta o la volta in cui abbiamo corso a perdifiato solo per gusto di farlo, quando insomma eravamo davvero adesso.
Riferimenti bibliografici:
- AA.VV. 2016. I Presocratici. Milano: Rizzoli.
- Coccia, Emanuele. 2022. Metamorfosi. Torino: Einaudi.
- Mancuso, Stefano – Viola, Alessandra. 2015. Verde brillante. Firenze: Giunti.
- Regazzoni, Simone. 2022. Oceano. Filosofia del pianeta. Milano: Ponte alle Grazie.
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