Uno spazio da salvare

L’articolo vuole fornire un contributo alla riflessione sul tema dello spazio alla luce della lectio come “circostanza” che viene fornita dal filosofo madrileno José Ortega y Gasset, uno dei massimi teorizzatori del rapporto indissolubile fra l’individuo e la propria dimensione spazio-temporale. Nonostante l’uomo possa servirsi della tecnica per umanizzarlo, Ortega ci porta a riconoscere che lo spazio resta un enigma molto arduo da risolvere. Comprendere che cosa esso sia autenticamente è una sfida che stimola a interrogarci con sempre maggiore complessità intellettuale e, al contempo, a interpretare la nostra stessa vita.

La circostanza
Sin da quando il suo pensiero filosofico, il razio-vitalismo o pensiero della ragion vitale, è in nuce, e dunque dalla pubblicazione della sua prima opera intitolata Meditazioni del Chisciotte (1924), Ortega si dimostra particolarmente interessato al rapporto fra l’uomo e ciò che lo circonda.

Lo spazio del mondo, assieme a tutto ciò che lo può comporre, poiché abbraccia e delimita la vita dell’uomo, viene interpretato dal pensatore madrileno sotto il profilo di una «circostanza», uno spazio circostante con il quale l’individuo, a partire dalla sua nascita, intrattiene un rapporto di reciprocità assoluta. Di qui, la celebre tesi orteghiana: «Io sono io e la mia circostanza, e se non salvo lei non salvo nemmeno me». (Ortega 2014, 15)

Ebbene, salvarla da che cosa? La risposta è presto detta. Dato che fra l’uomo e lo spazio in cui egli è collocato c’è un rapporto di vicendevole donazione di senso, salvare la circostanza significa osservarla, capirla, assimilarla, intervenire positivamente su di essa perché solo così sarà possibile condurre una vita retta, genuina, e pertanto, ci si potrà salvaguardare da una deriva che annichilisce tanto il proprio essere quanto il proprio pensiero e, con questi, lo spazio a cui si appartiene.

Il razio-vitalismo orteghiano indica che il primo passo in questa direzione è quello di “esistere”, di immedesimarsi e riflettere sull’essenzialità che ci connota. Questo è il momento fondamentale per poter “vivere”, per poter estrinsecare concretamente quell’interiorità a beneficio del nostro «paesaggio», connotato non solo da oggetti, ma anche da persone e da formazioni storico-culturali. 

Tutta l’intimità, però soprattutto l’intimità umana […] è immateriale, non occupa spazio. Da qui ne deriva che le è d’obbligo manifestarsi, coprire la materia, riversarsi o tradursi in figure di spazio. (Ortega 2021, 188)

Esternare ciò che si è nello spazio e nel tempo in cui si è. Questa è la «missione» dell’individuo collocato nel suo mondo spazio-temporale. Ma prima di dedicarci all’indagine del lato pratico della relazione fra l’individuo e la sua circostanza, soffermiamoci su quello teorico, a come l’uomo dovrebbe pensarla. Solo allora potremmo capire più distintamente a quale altezza il razio-vitalismo di Ortega, che si contrappone all’egida naturalistica del pensiero fisico-matematico, abbia rinnovato completamente il modo di intendere lo spazio.

Ritorno allo spazio-della-vita
Nella sua Quarta lezione di metafisica, intitolata La circostanza e pubblicata nel testo La ragione nel mare della vita (1966), Ortega presenta una descrizione puntuale circa il fenomeno di quella «inesorabile condizione dell’uomo secondo la quale non può scappare dalla circostanza, è rinchiuso nel mondo» (Ortega 2011, 74) in quanto suo accadimento originario.

Nelle prime battute della sua prolusione, il filosofo utilizza questo esempio: «Io sto in una stanza». Un’asserzione semplice ma dal significato affatto banale. La domanda che dobbiamo porci, in prima istanza, è la seguente: come dovremmo intendere quello “stare”, parola che indica la localizzazione spaziale? Di primo acchito, potremmo rispondere quello di fare parte di un tutto, al pari del «tavolo» collocato nella «stanza». Ma quantomeno sotto un profilo di carattere fenomenologico sarebbe fuorviante se paragonassimo la nostra condizione, in questo caso legata all’esperienza della spazialità, a quella di un mero oggetto. L’uomo, essendo un soggetto vivente, è dotato di corporeità propria (quella che Husserl definiva la Leiblichkeit) e di spiritualità; l’oggetto, nella sua a-vitalità, è additabile come Körper, come semplice corpo fisico privo di vita sovrasensibile o, nell’ottica della considerazione fenomenologico-husserliana, trascendentale di coscienza.

Ortega, che è husserliano di formazione, esplicita in modo puntuale questo punto nel saggio Sull’espressione, fenomeno cosmico (1925):

Quando vediamo il corpo di un uomo, vediamo un corpo o vediamo un uomo? Perché l’uomo non è solo un corpo, ma è anche anima, coscienza, spirito, psiche, io, persona, o come si preferisce chiamare questa parte dell’uomo che non è spaziale, ma è idea, sentimento, volizione, memoria, immagine, sensazione, istinto. […] Ci rendiamo conto rapidamente che se la forma umana appartiene come il minerale al genere “corpo” e come quest’ultimo occupa spazio, ha una figura e un colore – e dunque è visibile -, si differenzia da esso come una specie dall’altra. Vi sono, in effetti, due specie di corpo: il minerale e la carne […]. (Ortega 2021, 186)

«Io non sono un pezzo di materia […]» commenta Ortega nella sua delucidazione. E continua: 

Ciò che fa che io non sia un pezzo di materia non è semplicemente che il pezzo di materia sia un pezzo di materia e io, invece, immateriale, ma qualcosa di più fondamentale e decisivo, ossia: che io non sono nient’altro che io, che sono unico e tutto il resto, sia materia o sia un altro spirito – è qualcos’altro da me (Ortega 2011, 76)

Poiché il soggetto è unico e irripetibile, il suo “stare” nella stanza è tutt’altra cosa rispetto all’ambiente spaziale, la stanza, appunto. Data l’eterogeneità costitutiva del soggetto, il suo “stare nella stanza” non significa formare parte di essa. “Stare nella stanza”, stare nello spazio, significa «che io esisto in qualcos’altro da me, pertanto, è un esistere al di fuori di me, in terra estranea, è essere costitutivamente forestiero, dato che non faccio parte di quel qualcosa in cui mi trovo, non ho niente a che fare con esso». (Ortega 2021, 77). 

“Stare” in una stanza significherebbe “essere” in un regno totalmente sconosciuto al proprio sé, sussistere – al di fuori – di se stessi. In tal modo, viene posto in evidenza il proprio rapporto con il mondo-ambiente, la “stanza”, mediante una terminologia di carattere spaziale. Tuttavia, in consonanza con quanto stabilito da Ortega, occorre considerare ciò in un’accezione puramente traslata e questo perché:

[…] soltanto un punto nello spazio e la materia ad esso ascritta possono essere al di fuori di qualcos’altro. […] Lo spazio consiste precisamente nella possibilità che alcune cose siano al di fuori di altre. Lo spazio è la coesistenza di punti, gli uni assieme e fuori dagli altri. Orbene: 1. io non sono un punto nello spazio – pertanto, non posso essere al di fuori degli altri punti dello spazio; 2. l’espressione non diceva che io fossi al di fuori delle altre cose – ma che lo stare io nella stanza equivaleva all’essere io al di fuori di me. Il punto dello spazio non sta né può essere al di fuori di sé – precisamente perché ognuno che è in sé riesce ad essere al di fuori degli altri (Ortega 2011, 81).

Il pensiero della ragione vitale non può intendere la “stanza” come mero corpo fisico, uno spazio ricolmo di materia composta da atomi in vibrazione, così come lo spiegherebbe la scienza naturale. Dato che il razio-vitalismo stimola il pensiero a vitalizzare i concetti tradizionali del pensiero occidentale, declinando il ruolo del pensiero alle dinamiche concrete della vita, esso muta radicalmente il modo di considerare anche lo spazio. Il razio-vitalismo si discosta dall’interpretare la “stanza” come un semplice spazio materiale. Quello che il pensiero della ragione vitale rintraccia e descrive è unicamente lo «spazio vitale», ovverosia, il mondo-circostante-della-propria-vita, pertanto, ciò che lo spazio «è ed è stato prima della nostra teoria, e continuerà ad essere con essa e dopo di essa» (Ortega 2011, 82). Per riflettere sullo spazio occorre, prima di tutto, vivere. Ortega precisa molto bene anche questo aspetto e nella Quinta lezione, Sul pensiero e l’essere delle cose, asserisce: «tutto che pensiamo sulla nostra vita e le sue componenti è qualcosa che facciamo essendo già nella nostra vita; che essa, dunque, con tutte le sue componenti era già prima che noi ci mettessimo a pensare su di essa e su di essi» (Ortega 2011, 84).

Come il pensatore aggiunge nell’Ottava lezione, Cultura e tradizione. L’io sociale, “stare nella stanza” non significa altro se non vivere. Ne consegue che «lo spazio è una teoria, un’idea» (Ortega 2011, 118) resa possibile dalla «prima evidenza», quella realtà primaria che è, appunto, la vita. All’interno del quadro orteghiano, vivere vuol dire anche “avere a che fare”, servirsi di qualcosa, di una stanza, per esempio, la quale «non è nemmeno una “cosa”» (Ib.) ma è ciò di cui ci serviamo per svolgere una certa attività; essa viene usata e vissuta come una tale stanza, che «non aspetta per poter essere lì o noi in essa che noi pensiamo su di essa o la interpretiamo» (Ortega 2011, 119). 

Quello che noi designiamo comunemente con la parola “spazio” sembrerebbe essere una sostruzione allo spazio-della-vita, alla circostanza, al fondamento vitale o piano originario di quel mondo che si impone all’uomo e che il razio-vitalismo intuisce ed evidenzia. Soltanto se poniamo questa premessa possiamo asserire che, essendone l’ossatura portante, “l’enigma circostanza” venga a coincidere, in ultima istanza, con “l’enigma spazio” inteso come mondo, in cui l’uomo è costretto, sin dalla sua nascita, a dover vivere. Ma egli abita “davvero” il suo spazio-mondo? La conclusione dell’articolo darà risposta a questo quesito e, simultaneamente, descriverà il lato pratico del rapporto fra l’individuo e quanto lo circonda.

L’umanizzazione dello spazio
Nel 1951, Ortega e Heidegger si trovano a Darmstadt perché sono relatori a un medesimo convegno avente come tema L’uomo e lo spazio. L’intervento di Ortega si intitola Il mito dell’uomo oltre la tecnica; quello di Heidegger, Costruire, abitare, pensare

Nel libro Pasando y porvenir para el hombre actual, pubblicato a Madrid nel 1962, è stato inserito un breve articolo del filosofo spagnolo in cui troviamo delle osservazioni alquanto incisive all’intervento del pensatore di Meßkirch per il quale:

«costruire» – bauen – è «abitare» – wohnen. Si costruisce per abitare, come un mezzo per un fine, ma quel fine – abitare – preesiste al costruire. Perché l’uomo abita già, vale a dire, sta nell’universo, sulla terra, davanti al cielo, tra i mortali e verso gli dei, costruisce, con il fine che il suo abitare arrivi ad essere un contemplare – schönen – un prendersi cura di quell’universo […] tutto questo lavoro dedicato all’universo è, in ultima istanza, «pensare», meditare – dichten. (Ortega 2011, 124)

La critica orteghiana comincia proprio da questo punto e può essere espressa nei termini seguenti. Anzitutto, è innegabile che l’uomo si trovi in quello spazio che chiama Terra ma, a differenza di ogni specie zoologica che trova «uno spazio con delle condizioni determinate dove può senz’altro abitare», egli non la abita – wohnt – propriamente. Infatti, poiché l’uomo può abitare in qualsiasi spazio da lui desiderato, condizione che viene definita «planetaria ubiquità», egli «manca propriamente di «habitat», di uno spazio, dove, senz’altro, possa abitare». (Ortega 2011, 125)

Così, non solo per poter sopravvivere ma anche e soprattutto per poter essere se stesso, l’uomo, a livello storico-concreto e in rapporto al mondo quale «enorme circostanza» in cui egli si trova ma con cui confligge, esercita ciò che lo rende un essere tecnico: la tecnica, la quale consiste in un «adattamento dell’ambiente al soggetto» come Ortega precisa nella Meditazione sulla tecnica (1933). 

Il nesso fra la tecnica e lo spazio è chiaro: «Soltanto la tecnica, soltanto il costruire – bauen – assimila lo spazio all’uomo, lo umanizza» (Ortega 2011, 125). L’abitare, quindi, non è precedente al costruire: è il costruire, la capacità tecnica connaturata nell’uomo, a consentire, a posteriori, di abitare. Ma nonostante le prodezze dell’applicazione tecnica non si può riconoscere che l’uomo abiti – wohnet – nel senso effettivo della parola. Poiché l’uomo sa di nascere in uno spazio originariamente a lui sconosciuto, egli è consapevole che abitarlo “davvero” sia un obiettivo alquanto difficile da realizzare. Ecco perché l’uomo costruisce, mediante il fare tecnico, quella che Ortega chiama una «sovranatura» (sobrenaturaleza), uno spazio artificiale in cui «i bisogni possano venire possibilmente annullati, in modo che la loro soddisfazione smetta di essere un problema» (Ortega 2011, 48), come quando «non sentiamo il bisogno di respirare, ma piuttosto ci limitiamo a farlo senza che ciò sia per noi un problema» (Ortega 2011, 49). Allora, poiché la tecnica costituisce la possibilità di riforma dello spazio, è solo mediante essa che l’uomo potrà placare quei sentimenti di inquietudine e di insofferenza dovuti alla sua collocazione in uno spazio che gli è immediatamente ostile. 

Ortega, che considera la vita come un miscellaneo di «campi pragmatici», un insieme di faciendum a cui corrispondono altrettanti «campi linguistici», non solo sostiene che Heidegger abbia esaminato soltanto bauen e wohnen ma individua che entrambe le parole si uniscono nel vocabolo buan ich bin (io sono). Ciò vorrebbe dire che «l’essere dell’uomo sulla Terra è abitare semplicemente – wohnen. Non tanto costruisce per abitare quanto abita per costruire» (Ortega 2011, 128). Ma quando comprendiamo, come delinea Ortega, che, allargato l’orizzonte verbale, bauen, wohnen e buan non stanno isolatamente ma che la medesima radice unisce le parole gewinnen – sforzarsi per qualcosa -, wunsch – aspirare a qualcosa che non abbiamo ancora-, e wahn, vale a dire, – speranza e sforzo – come gewinnen, si concluderà che wohnen, – abitare -, e Sein – essere -, e dunque, buan, indichino quello che è l’effettivo essere dell’uomo: sforzo, timore, desiderio di ottenere qualcosa che sembra manchevole. «Ognuno esiste naufrago nella sua circostanza. In essa deve, che lo voglia o no, nuotare per mantenersi a galla» (Ortega 1985, 54) precisa Ortega ne Il tema del nostro tempo. E siccome l’uomo non è, da un punto di vista essenziale, res cogitans, ma, come sottolinea lo stesso razio-vitalismo, res dramatica, tale drammaticità, che connota e tormenta il rapporto fra l’individuo e il suo spazio circostante, è una condizione irreversibile. Tuttavia, questa scoperta non deve scoraggiare l’uomo a migliorarsi e ad alimentare il rapporto con la propria spazialità in modo costante e propositivo. Anche se l’uomo non lo abita propriamente, egli resta il custode dello spazio, ne è responsabile: salvarlo vuol dire tutelare la propria vita, salvaguardare se stessi, e quindi, ciò che ci rende esseri umani.

 

Riferimenti bibliografici

  • Ortega y Gasset, José. 2014. Meditazioni del Chisciotte, (ed. it. a cura di Armando Savignano). Milano-Udine: Mimesis.
  • Ortega y Gasset, José. 2011. La ragione nel mare della vita, (ed.it. a cura di Estefania Gadea Aliaga,). Roma: Armando.
  • Ortega y Gasset, José, 2021. Sull’espressione, fenomeno cosmico, (ed. it. a cura di Giulia Gobbi). Milano-Udine: Mimesis.
  • Ortega y Gasset, José, 2011. Meditazione sulla tecnica e altri saggi su scienza e filosofia, (ed. it. a cura di Luca Taddio). Milano-Udine: Mimesis.
  • Ortega y Gasset, José, 1985. Il tema del nostro tempo, (ed. it. a cura di Claudio Rocco e Amparo Lozano Maneiro). Milano: SugarCo.

Foto di Justin Luebke su Unsplash

Laureata in Ermeneutica Filosofica, è dottoranda in Filosofia all'Università degli Studi di Trieste con un progetto di confronto fra la riflessione filosofica di Husserl e quella di Nietzsche sul tema del nichilismo. Si occupa principalmente di fenomenologia classica e post-husserliana.

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