Nell’immaginario collettivo Giordano Bruno rappresenta, a ragione, il martire per il libero pensiero per eccellenza. Un uomo arso vivo a causa delle sue idee è ovviamente il simbolo più rappresentativo della lotta per la libertà di pensiero. La figura di Bruno, simboleggiata dall’enorme statua che lo ritrae col capo chino e coperto da un cappuccio in Campo de’ Fiori a Roma, ci ricorda uno degli angoli più bui della storia dell’Occidente.
Leggendo Il sapiente furore. Vita di Giordano Bruno, il libro di Michele Ciliberto originariamente uscito nel 2007, e ripubblicato, ampliato e rivisto, quest’anno da Adelphi, non si esce con una convinzione diversa, tuttavia alcuni parametri vengono riposizionati. Ciliberto, infatti, lontano da chi, ancora nel Novecento, ha interpretato la vicenda bruniana come una pagina di continuità e normalità con quanto accadeva all’epoca (vedi Angelo Mercati con il testo del 1942 Il sommario del processo di Giordano Bruno), si pone in una posizione più intermedia rispetto al diffuso «mito idealistico ottocentesco» che ha visto in Bruno il «filosofo indomito martire del libero pensiero» (p. 767).
Biografia e filosofia
Sulla scorta del lavoro del citatissimo Luigi Firpo (Il processo di Giordano Bruno, Salerno editrice, Roma, 1993), Ciliberto intende mostrare il nesso ineludibile tra filosofia e autobiografia, necessario soprattutto in una vicenda – umana e intellettuale – come quella di Bruno. Studiare la vita di Bruno, e in generale di tutti gli autori, ci garantisce una via d’accesso al processo di elaborazione delle idee. Non si tratta – spiega Ciliberto – di relativizzare le idee rispetto al contesto e alla biografia, ma nemmeno di pensarle come completamente avulse dalle vicende che hanno assistito alla loro nascita. Il carattere rivoluzionario, inedito, impetuoso, a tratti apparentemente fuori controllo, dei testi e delle idee di Bruno, si rispecchiano nel suo stile di vita e nelle esperienze vissute dal Nolano in giro per l’Europa.
Bruno, partito da Nola, in Campania, e dal Convento di San Domenico Maggiore a Napoli, ha attraversato molte delle più grandi e vivaci città europee alla ricerca di una consacrazione intellettuale e con lo scopo di diffondere e affinare la sua «nova filosofia». Roma, Torino, Venezia, Ginevra, Tolosa, Parigi, Oxford, Londra, Praga, Magonza, Marburgo, Wittemberg e Francoforte, per poi tornare a Venezia e infine incarcerato a Roma. In tutte queste città Bruno si è scontrato col potere e l’autorità costituita, fosse essa politica, amministrativa o universitaria; questa ha sempre contrattaccato Bruno nel tentativo di arginarlo. Il Nolano, infatti, si è sempre pensato portatore, con la propria vita, di un destino manifestantesi nella sua individualità e nella sua filosofia. Scrive Ciliberto: «La consapevolezza di avere avuto in sorte un destino straordinario, di essere un predestinato, un prediletto degli dèi, un Mercurio è un tratto costitutivo di tutta l’esperienza umana e intellettuale di Giordano Bruno» (p. 25). Le vicende biografiche dunque, nel ricco e approfondito testo di Ciliberto, illuminano angoli oscuri del processo di disvelamento della Sapienza che Bruno ha condotto durante la propria esistenza, attraverso un numero esagerato di testi.
Ma quali sono le idee più radicali della «nova filosofia» bruniana, tanto da renderla incompatibile con la dottrina cristiana? Quali principi furono scardinati da Bruno, provocandogli le ire della maggior parte dei contesti culturali nei quali si è trovato a operare? E soprattutto, perché Bruno si è ostinato a diffondere e approfondire le sue geniali intuizioni, fino alla fine dei suoi giorni, anche in carcere nei colloqui con gli altri detenuti e nelle missive, a volte disperate, indirizzate a Clemente VIII, il papa «amico dei filosofi»?
All’ultima domanda, Ciliberto risponde con la presa d’atto che la vita di Giordano Bruno da Nola, secondo lui stesso, avesse una natura mercuriale, a tratti profetica. Alle altre due questioni il testo dà conto con una lunga, appassionata e intensa analisi di tutti i testi bruniani, esaminati, come detto, in rapporto al contesto nel quale furono composti, diffusi e discussi. Nelle prossime righe ne riassumerò alcuni, alla luce di un presupposto innegabile: la filosofia di Giordano Bruno è stata una rivoluzione per l’Umanesimo e il Rinascimento, uno di quei momenti nella storia in cui la bilancia comincia a vacillare e il passato non rappresenta più un’istituzione sulla quale fare affidamento.
Finito e infinito
«Il nodo filosoficamente decisivo che, attraverso Ario, Bruno mise a fuoco fin dagli anni giovanili è la sproporzione radicale e incommensurabile tra finito e infinito, tra ente ed accidente» (p. 58). Questo è l’assunto base che muove tutta la riflessione bruniana e su cui il Nolano non scese mai a compromessi, nemmeno davanti al Tribunale dell’Inquisizione prima a Venezia e poi a Roma.
Per Bruno, le vie di connessione fra le «cose superiori» e le «cose inferiori» vanno interamente ridefinite, poiché l’infinito – concetto sul quale si impernia tutta la cosmologia e l’ontologia bruniana – non può porsi sul medesimo piano del finito. L’idea di infinito, che si inserisce a pieno nel contesto della rivoluzione operata da Copernico, è radicale e conduce il Nolano alla visione dell’universo illimitato e dei mondi innumerabili. Nel trittico di opere londinesi, scritte e pubblicate fra il 1583 e il 1584, La cena delle ceneri, De la causa, principio et uno e De l’infinito, Bruno sistematizza il palcoscenico della propria filosofia, interamente debito all’idea di infinito. La Terra, in contrasto con quanto professato dalla tradizione aristotelico-cristiana, non è che uno dei pianeti di questo infinito universo nel quale la vita si è manifestata.
Bruno mina dall’interno il «nucleo fondativo di tutto il cristianesimo occidentale» (p. 59), compresa l’idea che Cristo sia, al contempo, vero uomo e vero Dio. Il dogma dell’Incarnazione, insieme al geocentrismo e alla centralità dell’uomo nell’universo, si sgretola sotto i colpi dell’assunto bruniano della sproporzione, così come tutta una serie di convincimenti che il senso comune, con la religione, adotta e difende. In questo senso, è biograficamente significativo, che Bruno abbia operato un rifiuto nei confronti del dogma dell’Incarnazione già quando si trovava in convento, come dichiara ai giudici. L’immagine di Cristo in quanto vero uomo e vero Dio, quindi, si allontanò presto dallo sguardo di Bruno, per prendere sempre di più le sembianze di un «uomo come tutti gli uomini; Cristo nel quale furono “tutti li accidenti dell’huomo”» (p. 65) come si legge nelle carte del processo.
Ontologia e gnoseologia
All’aspetto dell’infinità dei mondi e dell’universo, è strettamente collegato il fatto che, in Bruno, la materia è il principio unico della realtà; una materia completamente cambiata rispetto a quella aristotelica. Bruno sostiene infatti che la materia non sia il prope nihil di cui ha scritto Aristotele, bensì un elemento unitario all’interno del quale sopravvivono forma e materia, atto e potenza, anima e corpo. La «materia primiera del tutto», come la definisce ne De l’infinito, è l’Unità infinita dalla quale tutto sgorga e si muove. Come sottolinea Ciliberto, però, con «questo non significa che Bruno cancellasse la differenza tra Dio e universo, tra materia corporea e materia incorporea […]. Anzi, è nella assunzione sistematica di questa differenza che si esprime il carattere specifico della “nova filosofia”, distinguendola in modo netto da altre posizioni che insistevano sul motivo dell’unità del tutto» (p. 301). L’ontologia bruniana, infatti, è «di carattere binario»: la materia è l’unità della differenza e in sé congiunge tutte le coppie concettuali oppositorie che permettono, l’una all’altra, di sopravvivere: notte/giorno, buio/luce, finito/infinito, implicito/esplicito… Grazie a un moto inesauribile e alla connessione integrata del tutto infinito, dalle «cose superiori» si può discendere alle «cose inferiori» e viceversa. Così l’uomo ha la possibilità di salire e discendere, di avvicinarsi a Dio o di comprendere tutto ciò che avviene nella vita delle «cose inferiori».
La struttura ontologica bruniana ci permette allora di definire il processo di emancipazione dell’uomo dall’ignoranza – che altro non è che la rinuncia alla conoscenza della verità –: essere parte integrante del tutto, in connessione con tutto, ci garantisce una via d’accesso ordinaria alla conoscenza. Come scrive Ciliberto: «ombra tra ombre, in un universo che, a sua volta, è ombra del primo principio, l’uomo riscatta il suo destino accidentale proiettandosi, sul piano gnoseologico, verso le idee; sul piano ontologico, verso la divinità» (p. 302).
Per entrare nel meccanismo bruniano e goderne fino in fondo occorre abbandonare totalmente ogni prospettiva antropocentrica. Questo tema, particolarmente caro a Bruno, torna molteplici volte nelle sue opere e in maniera sempre più complessa. Il rapporto dell’uomo con la luce (con Dio, in altri termini), nel quadro di un universo infinito, rappresenta la vera sfida del Nolano. Da un lato Bruno sapeva della necessità di sistematizzare la relazione gnoseologica fra i due termini estremi della materia, dall’altro lato percepiva la connessione, la esperiva col corpo. Con questo, infatti, per Bruno «occorre sempre fare i conti […]. Rivendicato, come massima energia, nel suo valore di “grado zero” della realtà; […] individuato come “leva” e, al tempo stesso, come “limite” da superare ad ogni costo […], il corpo del filosofo è, sempre e in ogni caso, momento centrale – inevitabile pietra d’inciampo, verrebbe da dire –, sia sul piano dell’esperienza autobiografica che su quello della ricerca della verità, strettamente connessi l’uno all’altro, proprio tramite l’esperienza mai esaurita e mai esauribile della corporeità» (p. 135).
Conclusioni
I motivi etici, politici e religiosi che derivano da una tale concezione del mondo e dell’universo – brevemente riassunto qui sopra – avrebbero bisogno di molto più spazio. Una cosa è però evidente e facilmente intuibile: il mondo disegnato da Bruno rompe gli schemi tradizionali all’interno dei quali la civiltà occidentale ha costruito la sua predominanza storica e culturale. Sebbene la fede cristiana, per Bruno vero e proprio brodo di cultura per la nascita e lo sviluppo di conflitti, andava ridotta ai semplici fundamentalia; la «religione civile» rappresentava per il Nolano un compromesso necessario alla stabilità della pace, sia politica che delle anime. «Ma – sottolinea Ciliberto, che di Machiavelli è studioso attento –, con maggiore intensità di Machiavelli, [Bruno] era anche cosciente che la “religione civile”, per essere efficace, deve essere filosoficamente fondata» (p. 377), ovvero aver fatto i conti con la Sapienza e la verità.
La vita di Bruno è una testimonianza lucida di come la ricerca della verità fosse, per Bruno stesso, una fonte inesauribile dalla quale abbeverarsi. Ma la sua esistenza è anche una delle più evidenti dimostrazioni di come pensiero e vita possano proseguire sui medesimi binari. Questo è l’intento sicuramente più riuscito del libro di Ciliberto che, grazie a un andamento non sempre lineare e a volte non completamente esaustivo su alcuni temi – che vengono, però, di volta in volta approfonditi più avanti –, conduce il lettore all’interno di una vita che è essa stessa filosofia e rappresentazione teatrale.
Il teatro è, infatti, un genere di cui Bruno si è spesso servito e che ha vissuto direttamente, come alla fine della sua vita, quando – dopo lunghi anni di prigionia e numerosi tentativi di risolvere la sua questione con il Tribunale dell’Inquisizione –, il 21 dicembre 1599 dichiarò che «non aveva niente di cui pentirsi, uscendo finalmente dall’angolo in cui era stato troppo a lungo costretto, riprendendo in mano la partita e decidendo come e quando morire» (p. 682). Al termine della lettura della sentenza, l’8 febbraio 1600, come riporta Schoppe, pronunciò la famosa frase: «Certamente voi proferite questa sentenza contro di me con più timore di quello che io provo nell’accoglierla» e da lì a qualche giorno, il 17 febbraio, venne bruciato vivo in Campo de’ Fiori, «ergendosi al centro della scena […], dimostrando con la sua vita, e anche con la sua morte, di essere, lungo la vicissitudine universale delle sorti e dei destini, il vero Mercurio, il messaggero inviato dagli dèi» (p. 687).
Molto interessante, specie nel passaggio sulla figura di Cristo e sul tema della religione civile.