Contro i sogni della scienza e della tecnica che oggi guidano le vite degli uomini, la filosofia non manca di ricordare che la conoscenza della natura e di ogni singolo fenomeno è legata in maniera imprescindibile alla conoscenza del tutto. Giordano Bruno è uno di quei pensatori che lo ha affermato nel modo più perentorio in quel luogo teoretico che concerne il rapporto tra l’uno e i molti, tra il particolare e l’universale. Tentare di ricostruire in poche righe la sua dottrina dell’individuo, e di quel particolarissimo individuo che è l’individuo umano, non è compito agevole: troppe le rielaborazioni simboliche, ontologiche, fisiche e metafisiche che si ritrovano nella sua filosofia, così come i rimandi polemici nei confronti di Aristotele, le cui dottrine Bruno padroneggia per denunciarne puntualmente limiti e aporie. Senza contare infine un metodo che, se spariglia e fa uso in maniera a volte spregiudicata di varie correnti filosofiche, ermetiche e religiose, è sempre finalizzato alla ricerca della verità. Nonostante questa congerie di elementi critici ci siamo tuttavia cimentati nel compito non solo per indicare alcuni tratti di un pensiero che rimane fecondo e denso di spunti ma anche per rendere il nostro dovuto omaggio al filosofo di cui abbiamo ricordato l’anniversario della morte avvenuta il 17 febbraio del 1600 a Campo de’ Fiori in Roma.
L’eredità del divino Cusano e la dottrina dell’individuo
Lo schema fondamentale per comprendere la dottrina dell’individuo di Bruno è quello cusaniano di complicazione/esplicazione, dove il primo termine fa riferimento all’individuo costituito all’interno dell’unica sostanza infinita, il secondo all’individuo in quanto immagine determinata della medesima sostanza. A questo binomio si aggiunga il termine di contrazione per il quale si deve intendere Dio nel suo manifestarsi: se Dio (cioè l’assoluto) è contratto nella pluralità degli esseri dell’universo, ciascun essere riassume a sua volta in sé Dio di cui è, propriamente, apparizione. Unito a ciò l’intuizione decisiva della coincidentia oppositorum, quella coincidenza dei contrari in un medesimo soggetto che è a fondamento della dialettica moderna, definita da Bruno “profonda magia”, consistente nel «saper trarre il contrario dopo aver trovato il punto dell’unione».
Molti sono gli elementi derivati da Cusano, divino sì ma paragonato da Bruno al nuotatore incostante che viene sollevato in alto e in basso dalle onde del mare tempestoso e che non riesce a raggiungere mai la riva a causa della sua incapacità a liberarsi di una falsa dottrina. Dottrina che il nolano corregge in più punti (che avremo modo di vedere in un’altra occasione) il principale dei quali è quello di sostituire Dio con l’universo infinito.
L’individuo è definito da Bruno in termini molto generali nel quarto dialogo del De la Causa quando, nel mezzo della disputa sull’essenza della materia, egli afferma che «più altamente individuo è quello che ha tutto l’essere naturale, più altamente lo che ha tutto lo essere intellettuale, altissimamente quello che ha tutto lo essere che può essere». Questo individuo come essere più alto è la sostanza unica ed assoluta (senza numero e senza misura) rispetto alla quale gli individui intesi come determinazioni si configurano come meri accidenti. In altre parole, si viene a dire che l’individuo è tale proprio perché contiene dentro di sé un molteplice: in questo senso è detto individuo anche l’universo, così come i mondi che lo compongono, tra cui la terra e la stessa anima del mondo. Il principium individuationis è così anche un principium moltiplicationis dove l’individuo è tutto ciò che è in relazione ad altro, da cui prende la sua forma. L’unico elemento irrelato (nella serie delle contrazioni o esplicazioni) che contiene tutte le sovradeterminazioni successive è l’atomo: nello Spaccio Bruno potrà affermare che in ciascun individuo si contempla un mondo e un universo in quanto in ogni atomo sono implicati tutti gli altri individui. In questa catena che corre dall’individuo-atomo fino all’individuo-universo infinito, l’individuo umano, nel quadro di un’ontologia che prevede una sostanza assoluta e molteplici accidenti, si colloca in una sorta di medietas simboleggiata dall’ombra.
Nell’ombra dell’eterno
Se gli individui si costituiscono secondo un processo di misurabilità e numerabilità, cioè non sono sostanze ma accidenti, questo tuttavia non significa che essi siano niente. Anzi. Per affermare ciò, il Mercurio inviato dagli dei (come Bruno amava definirsi) fa ricorso alla metafora dell’ombra, di solito utilizzata per indicare lo stato di caducità e di negatività nel quale l’uomo è immerso. Contro l’interpretazione aristotelica che aveva equiparato ombra, tenebra ed errore, Bruno scrive nel De Umbris Idearum che «l’ombra non racchiude l’errore ma il celarsi del vero» e che essa dunque non allontana ma guida alla luce. «L’ombra non è tenebra, ma traccia della tenebra nella luce o traccia della luce nella tenebra, o partecipe di luce e tenebra, o composto di luce e tenebra o mistione di luce e tenebra, o elemento distinto da luce e tenebra, e separato da entrambe». Bruno fa ricorso alla Bibbia, in particolare al Cantico dei cantici e al Qoelet, per dare potenza evocativa a ciò che intende significare. Se l’uomo vivente è vanità, è sufficiente che egli si collochi accanto al vero ed unico bene per essere salvo, così come la Sulamita siede all’ombra del suo Signore. Ecco allora il primato dell’appulsus, ovvero del desiderio dell’uomo verso la verità, cibo dell’anima, grazie al quale egli acquista il suo autentico valore. A differenza del sistema platonico, l’ombra assume un significato positivo che conferisce all’uomo tutta la sua dignitas ed eccellenza: tema che Bruno riprenderà in maniera sistematica negli Eroici Furori, quasi una riscrittura del Cantico dei cantici, dove l’amore è il motivo dominante che conferisce pienezza ontologica all’essere umano e valore alla ricerca filosofica se è vero che «la filosofia e le leggi umane – come scrive all’inizio del terzo dialogo del De la Causa – non vanno in perdizione per penuria d’interpreti e di paroli, ma di quei che profondano nei sentimenti».
La materia vivente e l’universo uno, infinito e immobile
Da un punto di vista ontologico, l’ombra è simbolo della materia che costituisce il fondamento comune a tutti gli enti. Depositaria eterna delle forme, potenza fluida nella quale la lotta dei contrari genera movimenti, mondi e individui infiniti, la materia è atto e la sua eccellenza è testimoniata dal suo appetito insaziabile ad assumere tutte le forme possibili. Essendo a fondamento del sensibile e del soprasensibile, la materia finisce così per eliminare ogni struttura gerarchica di stampo aristotelico. Di più: grazie ad un’impostazione che procede dall’alto verso il basso, Bruno riabilita la materia, considerata da platonici e peripatetici di livello infimo, ponendola come potenza che ospita in sé la vita e capace di produrre in modo incessante individui e mondi innumerevoli. Ma la materia in sé ancora non basta in quanto la differenza tra l’uno e le cose singole risiede nell’universo infinito in quanto uno e indeterminato: in esso non vi è materia né forma, in quanto tutto materia e tutto forma, e in esso non vi è alcuna mutazione perché l’universo è tutto ciò che può essere. Riprendendo in modo esplicito la tesi dei pitagorici, Bruno afferma che la pluralità degli individui esiste solo ed esclusivamente in virtù dell’universo infinito. Facendo riferimento al De Rerum Natura di Lucrezio, il nolano insiste (vedi a questo proposito il nostro articolo in argomento) che solo l’infinito può riscattare il finito mostrando come nelle percezioni empiriche si rifletta la struttura di un universo senza limiti, colmo di mondi e individui.
Si domanderà: ma se nell’Uno sono tutti in tutto, allora in che modo è possibile ricercare un principio d’individuazione? Se cioè l’Uno non permette il differenziarsi, se «l’individuo non è differente dal dividuo, il simplicissimo da l’infinito, il centro da la circonferenza», che cosa rende possibile l’individuo sia dal punto di vista logico e naturale? Bruno affronta questo aspetto in maniera sistematica dandone anche una dimostrazione geometrica. Ma gli elementi fondamentali di cui tenere conto sono due. Prima di tutto la sproporzione tra finito ed infinito che rende impossibile la loro identificazione: la sostanza è in tutti gli individui mentre gli individui sono modi di essere di quell’unica sostanza.
Un viaggio andata e ritorno in compagnia di Merlino
Da un punto di vista naturale, l’individuazione è permessa dal vuoto. Contro la tradizione aristotelica che ne aveva negato l’esistenza, Bruno ne afferma la natura di continuum infinito che, penetrando i corpi, è causa della loro successiva distinzione e separazione. La tesi è contenuta nella Lampada delle Trenta Statue, opera scritta in latino tra il 1587 e il 1591 nel periodo della piena maturità del filosofo. Uno dei maggiori studiosi di Bruno come Emanuele Ciliberto scrive, nell’introduzione al volume delle Opere magiche in cui essa è inclusa, che «la Lampas triginta statuarum è una delle opere più importanti di Bruno, un autentico capolavoro, una sorta di “enciclopedia delle scienze filosofiche”, tale è la ricchezza che il Nolano fa risuonare in questo testo veramente capitale». Nell’ambito dei tre principi infigurabili (Vuoto, Abisso e Notte) il vuoto è simboleggiato dal Caos il quale, non avendo una propria figura e quindi non essendo rappresentabile, è concepibile soltanto dalla ragione. Come indizio della sua presenza, Bruno pone la successione dei corpi nel medesimo luogo separati e separabili da uno spazio capace di recepirne una quantità infinita tale che esso «non è né ente, né non ente, ma è vero ricettacolo delle cose che sono» (18, 1). In trenta brevi argomenti sul tema, Bruno contraddice sistematicamente la sapienza aristotelica entrata a far parte del senso comune. Il vuoto si configura così come potenza passiva che «si pone prima di ogni corpo e prima di ogni materia, e dunque non deve dipendere né dall’uno né dall’altra» (10, 2-4). Il vuoto non è più un corpo contenente ma spazio che si fa ricettacolo di una potenza che, traducendosi in atto continuamente, assume di volta in volta le diverse forme determinate (aria, acqua, terra, ecc.). Da ciò segue che il vuoto non è da intendersi come spazio fisico ma come infinito in atto che tuttavia non è atto «poiché non è né la luce, né un composto nato dalla luce e dalla Notte né in potenza – per così dire – possibile; è invece il più vero tra gli enti: qualora non esista, non vi sarà nessun luogo né potrà esservi alcun locato. (…) il vuoto è spazio capace di recepire una quantità estensiva infinita, ricettacolo di ogni grandezza estesa, la realtà indivisibile nella quale si esplica l’infinito» (12, 2-12). Non essendo riuscito a cogliere questo aspetto determinante per la comprensione dell’universo, Aristotele non ha colto nemmeno il singolo ente (e ancora meno l’essere umano) rendendosi, come scrive nel De minimo, il più “stupido” tra i filosofi.
Vogliamo sperare che Elon Musk, il visionario imprenditore che il 6 febbraio 2018 ha spedito un’autovettura nello spazio in attesa di colonizzare Marte, sia in grado di forgiare un pilota all’altezza del compito. L’inizio è stato promettente se ha chiamato “Merlino” il motore del suo razzo, così come Bruno amava fregiarsi del nome del celebre mago per sottolineare la dimensione eccentrica della verità che pretende, sempre e comunque, il coinvolgimento di tutte le forze cognitive dell’individuo umano.
(Questo articolo è stato pubblicato la prima volta su Ritiri Filosofici il 18 febbraio 2018)