Unità, unificazione e rivelazione (IV)

Quanto abbiamo detto nei precedenti articoli, può venire riassunto in questo modo: se l’unificazione è una relazione, di contro l’unità è una ablatio omnis alteritatis e il valore dell’unità viene più volte sottolineato anche da Paolo di Tarso (cfr. Scilironi, 2022) nelle sue lettere.

Scrive Paolo: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28).

Nella Prima Lettera ai Corinzi, inoltre, Paolo distingue la pluralità delle manifestazioni dall’unicità dello Spirito: «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune […]. Ma tutte queste cose è l’unico e medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole» (1 Cor 12, 4-11).

Lo Spirito, che è «unico e medesimo», traduce in forma di immagine l’atto che restituisce l’unità originaria al di là della pluralità delle manifestazioni.

A conferma di ciò, potremmo citare un passo di Jürgen Moltmann in cui addirittura si distinguono due tipi di unità in Dio stesso: «Se l’articolo della teologia naturale De Deo Uno precede l’articolo del De Deo Trino, ciò che si insegna, in definitiva, è una duplice unità di Dio: un’unità [corsivo nostro] dell’essenza divina ed una unificazione [corsivo nostro] del Dio Tri-Uno» (Moltmann, trad. it. p. 27).

La «duplice unità» di Dio, di cui parla Moltmann, è la necessità, che ribadiamo anche qui, di distinguere due punti di vista: il primo (innegabile), che idealmente coincide con il punto di vista di Dio stesso, coglie Dio come assoluto essere, che, in quanto tale, esclude ogni relazione; dunque, anche la relazione per la quale egli si fa altro a sé stesso, manifestandosi.

Il secondo (inevitabile), che è il punto di vista del finito, cioè della relazione, è quello per il quale le figure (personae) sono tre, proprio perché Dio appare all’uomo, così che si pone la distinzione tra il suo essere e il suo apparire, fermo restando che il secondo si subordina al primo, ma si relaziona anche al primo nonché all’uomo a cui appare.

Ciò che deve venire sottolineato con forza è che solo il Dio che è colto dal punto di vista del finito può costituire oggetto del discorso, così che il Dio oggettivato non può venire confuso con il Dio che è soggettività pura e che è condizione oggettivante e inoggettivabile.

Agostino ha piena consapevolezza della pretesa del linguaggio di includere ciò che non può non emergere oltre di esso e così si esprime: «Altrettanto si deve dire della bontà, dell’eternità, dell’onnipotenza, di tutti i predicati che si possono applicare a Dio e che abbiano significato assoluto e si applichino in senso proprio, non figurato o metaforico; ammettendo però che la bocca dell’uomo possa dire di Lui qualcosa in senso proprio» (De Trinitate, trad. it. p. 251).

In effetti, «la bocca dell’uomo» non può dire nulla di Dio «in senso proprio», poiché dire significa riferire ciò a cui ci si volge al proprio sistema di riferimento, oggettivando l’inoggettivabile, ossia l’assoluto.

Ciò nonostante, non si può rinunciare a volgersi a Dio (alla verità assoluta), poiché l’intenzione del dire è quella di dire la verità affinché possa essere vero dire.

Di qui la riduzione inevitabile del Dio intenzionato, che è assoluto e, pertanto, inoggettivabile, al Dio di cui di fatto si parla: il Dio persona.

E così, se gli attributi riferiti al Dio che vale per la sua assolutezza sono un non senso, «invece le attribuzioni fatte in senso proprio ad ogni singola persona della Trinità non riguardano aspetti assoluti, ma concernono le relazioni delle Persone tra loro o con le creature» (ibidem).

L’oggetto del discorso è il Dio che è persona, così che anch’egli, in quanto tale, subirà lo stesso destino della persona del Figlio: «Quando tutte le cose gli saranno state sottomesse, allora il Figlio stesso si sottometterà a colui il quale ogni cosa gli sottomise» (1 Cor 15, 28).

In questo passo di Paolo, che giudichiamo capitale, si esprime con chiarezza la necessità di intendere il senso della rivelazione. Il Verbo è bensì rivelazione del Padre, ma è il concetto stesso di rivelazione che ripropone in sé quella distinzione che l’assolutezza di Dio non può non togliere (trascendere).

Rivelazione è, infatti, il rapporto che si instaura con altro da sé, con ciò a cui ci si rivela. Se, per usare le espressioni proprie della filosofia greca, Dio è l’assoluto κατά φύσιν (secondo natura, cioè in sé) e, pertanto, non si rivela – giacché, rivelandosi, costruirebbe un’alterità che varrebbe come la propria negazione –, di contro πρός ἡμᾶς, per noi e cioè come oggetto del discorso, egli è parola originaria.

È la parola che si intende traduca, nel modo più adeguato, quel fondamento che pure permane, in effetti, intraducibile.

 

Riferimenti bibliografici

  • Agostino. 1973. De Trinitate (trad. it. di G. Beschin, La Trinità). Roma: Città Nuova Editrice.
  • Moltmann, Jurgen. 1980. Trinität und Reich Gottes. Zur Gotteslehre. München: C. Kaiser(trad. it. di D. Pezzetta. 1983. Trinità e Regno di Dio. La dottrina su Dio. Brescia: Queriniana.
  • Scilironi, Paolo. 2022. San Paolo filosofo. Brescia: Queriniana.

 

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Foto di Ugur Akdemir su Unsplash

 

Università per Stranieri di Perugia e Università degli Studi di Perugia · Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Filosofia teoretica - Filosofia della mente - Scienze cognitive

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