In questa serie di articoli cercheremo di riflettere sul rapporto che può intercorrere tra fede e libertà. Abbiamo scelto il tema della fede perché essa costituisce l’essenza spirituale della religione, di ogni religione positiva. Si tratta dunque di spiegare, in primo luogo, il senso di questa affermazione e, in secondo luogo, la ragione per la quale, a nostro giudizio, la fede autentica, e solo la fede autentica, costituisce il fondamento dell’autentica libertà.
Credere “in” e credere “che”
Per riflettere sul concetto di “fede”, poniamo una prima distinzione, che può venire rintracciata tra il “credere in” e il “credere che”. Quando affermiamo di credere “in” qualcosa o “in” qualcuno intendiamo sottolineare che la nostra adesione a ciò in cui crediamo è totale e incondizionata. Nel momento in cui attuiamo questa adesione, quindi, sospendiamo il dubbio. Non dubitiamo in alcun modo di ciò in cui crediamo, perché la nostra fede in esso ha reso ingiustificato ogni dubbio. Aderiamo, cioè, ad esso senza alcuna esitazione.
Di contro, quando affermiamo di credere “che” qualcosa (qualcuno) sia (o non sia), intendiamo indicare uno stato diverso dalla certezza, che caratterizza il credere precedente. Infatti, ipotizziamo che qualcosa sia, ma nel dire “credo” manteniamo ancora in vita il dubbio: in questo caso non aderiamo incondizionatamente al creduto, ma manteniamo la possibilità che esso non sia così come lo crediamo.
Il punto consiste nello stabilire a quali condizioni potremo credere in qualcosa oltre ogni ragionevole dubbio, ossia quando la nostra fede sarà perfettamente legittimata e il “credere” potrà venire inteso in senso forte, appunto come un aderire senza esitare.
In genere, la forza legittimante è rappresentata dalla ragione, nel senso che ciò che ci consente di superare il dubbio è l’argomento razionale, cioè quell’argomento che dirada le nebbie dell’incertezza in virtù della luce offerta dalla ragione.
Se non che, nel caso della fede che si esprime come credere in Dio, allora ci si viene a trovare nel seguente status: se “credo in Dio” perché “so che Dio (è vero)”, allora è il sapere che fonda la fede, nel senso che, solo in ragione del fatto che preliminarmente so la verità di Dio, posso successivamente credere in lui.
In questo caso, però, la questione diventa la seguente: se già “so che Dio (è vero)”, quale bisogno ho di fare ricorso alla fede? Il sapere, insomma, rende la fede superflua.
Di contro, se “non so che Dio (è vero)”, e non lo so perché nessun argomento offerto dalla ragione è in grado di darmi questa certezza, allora, nel momento in cui “credo in Dio” e lo considero indubitabilmente vero, Dio è totalmente dipendente dalla mia fede. Non è la verità di Dio a costituire il fondamento, ma il fondamento diventa la mia fede, cioè la fede dell’uomo.
Allorché Feuerbach (cfr. L’essenza del cristianesimo) afferma che Dio è un prodotto dei bisogni dell’uomo, precisamente questo intende dire: Dio è figlio della speranza umana di poter trovare una fonte che soddisfi quei bisogni, che riempia quelle mancanze. Da questo punto di vista, pertanto, Dio è una mera proiezione umana.
Se non che, Feuerbach dimentica un elemento decisivo e cioè che l’intenzione del credente non è quella di produrre la verità del proprio creduto, bensì quella di fondare la propria fede sulla verità intrinseca di ciò in cui crede.
Non per niente, la fede in Dio postula la verità di Dio e, dunque, si subordina alla verità di Dio stesso.
La domanda che si impone per la sua radicalità è, dunque, la seguente: se è la ragione che perviene alla incontrovertibile verità di Dio, che bisogno abbiamo della fede?
Riferimenti bibliografici
Feuerbach, Ludwing. 1841. Das Wesen des Christentums, Leipzig: Verlag von Otto Wigand, (trad. it. a cura di F. Tomasoni, L’essenza del cristianesimo, Laterza, Roma-Bari 2006³)
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