Abbozzare uno scorcio sulla teoria psicoanalitica freudiana, in particolare sui concetti di nevrosi e psicosi, alla luce dello sguardo filosofico di Georges Canguilhem e mediante le acute riflessioni dello psicoanalista André Green, è lo scopo di questo saggio. Infatti, una psicopatologia che tenga conto della riflessione canguilhemiana sulla normatività – intesa come “razionalità qualitativa”, e non come normatività normante del sapere-potere da cui mette in guardia Michel Foucault – spianerebbe la strada verso una concezione di salute in grado di evidenziare nuove vie di comprensione delle patologie psichiche contemporanee e dei cosiddetti stati-limite.
Gli stati-limite tra nevrosi e psicosi
L’ipotesi del saggio è che tra nevrosi e psicosi vi sia una sorta di spazio liminale, con echi sia sul piano strettamente clinico sia storico-epistemico. A mio avviso il concetto di limite è un segno ermeneutico distintivo, in grado di discernere il fenomeno della follia, il quale, secondo un’ottica di derivazione foucaultiana, occupa una posizione di bordo all’interno della landa della Sragione, “desolata” in quanto tagliata fuori dalla modernità occidentale. Possiamo immaginare tale bordo costellato di stati-limite, condizioni non totalmente ascrivibili né alla nevrosi né alla psicosi. La follia avrebbe dunque estrinsecazioni che mettono in discussione i presunti confini tra normalità e malattia, razionalità e sragionevolezza.
André Green, pur sottolineando che l’espressione “stati-limite” non fosse mai stata utilizzata da Sigmund Freud (Green 1991, 90), rileva la portata storica della genealogia foucaultiana (Green 1991, 124), riconoscendo il cambio di paradigma percettivo intorno alla follia avvenuto nel XVII secolo. Durante il Medioevo e la Renaissance la follia era ricoperta da un’aura di mistero, tra il demonico e il divino, inquietante e attraente insieme. Successivamente essa è entrata nell’orizzonte immanente della vita umana, della natura terrena, catalizzando su di sé sia un giudizio negativo di carattere morale sia la tendenza scientifico-naturalistica alla tassonomia. Tale tendenza culmina con il sorgere dello spirito scientifico che, nel XVIII secolo, prende il predominio sulla psichiatria (precedentemente una pratica per lo più moralizzante), orientandola in chiave nosografica. Green scrive che «lo stesso Freud non sfuggì a questa tentazione, almeno agli inizi» (Green 1991, 124), e sappiamo infatti del biologismo del primo Freud, legato segnatamente alla formulazione di una teoria degli istinti. Tale biologismo condusse anche alla patologizzazione delle passioni, le quali, come il non-razionale, costituirono il grande rimosso della modernità.
L’“errore” della psicoanalisi
Per Green «se il pensiero psicoanalitico non ha ritenuto opportuno dedicare un interesse particolare alle psicosi passionali, è senza dubbio perché esso considera implicito il fatto che ogni delirio […] è frutto di una passione rimossa» (Green 1991, 127-128). Per lo psicoanalista francese, Freud ha “scotomizzato”, cioè rimosso, la follia su due versanti: da un lato, sul piano storico, la sua esperienza clinica fu disseminata quasi esclusivamente di casi di nevrosi (in buona parte isterica). Dall’altro lato, sul piano teorico, «Freud ha affrontato la nevrosi in modo tale da depurarla contemporaneamente dalla passione e dalla follia, che essa continuava nondimeno a contenere» (Green 1991, 128).
L’unico caso clinico relativo a una psicosi che Freud ci ha lasciato è stato da lui condotto non adoperando il setting analitico, ma scavalcando persino lo spazio fisico della clinica dove si trovava il paziente in questione: si tratta del caso del presidente Schreber (Freud 1974, 1989), di cui egli svolse un’analisi disponendo come unico materiale l’autobiografia dell’uomo.
Green individua così l’errore cruciale della psicoanalisi, ereditato dall’attenzione esclusiva del suo fondatore sulla nevrosi, assurta a fondamento della sua speculazione metapsicologica. Invero, la nevrosi rappresenta per Freud il modello del funzionamento della psiche in generale. D’altronde, la trascuratezza freudiana sulla psicosi, a vantaggio della nevrosi, si evince anche da un punto di vista nominale, dal momento che Freud definiva “nevrosi narcisistiche” quelle forme che la psichiatria classica includeva nell’etichetta di “psicosi”. È dunque evidente che le riflessioni freudiane sulla psicosi furono prodotte in contro-relazione al paradigma nevrotico. Data l’estensione di quest’ultimo, Freud si trovò a «estendere simmetricamente il campo della psicosi, abusando di questo termine fino al punto di raccogliere sotto lo stesso vocabolo i malati ricoverati in ospedale psichiatrico e i pazienti che sono sui nostri divani» (Green 1991, 129). Lo psicoanalista francese, col suo rilievo, pone l’accento su un aspetto nodale. A differenza di Foucault, che registra una netta separazione tra le manifestazioni folli e le forme della razionalità, raccogliendo le prime in una certa compattezza, sotto un’unitaria etichetta (Sragione), Green, grazie alla sua esperienza clinica, rimarca il dato secondo cui tra follia e non-follia non vi sia una linea di demarcazione rigida, bensì porosa e plurivoca. Sottolineando l’eterogeneità e la pluralità delle voci della follia, Green solleva la problematicità insita nelle opzioni dicotomiche, come quella sistematizzata dalla nosologia freudiana con le due macrocategorie di nevrosi e psicosi, la quale evidentemente risulta insufficiente a incasellare ad esempio le pazienti isteriche.
Eros e follia
Queste ultime furono appunto considerate nevrotiche dal medico viennese, ma Green evidenzia che «è sufficiente aver assistito a una crisi isterica per essere coinvolti dal traboccamento di tutte le capacità dell’Io e per essere colpiti, attraverso l’agitazione che si impadronisce del soggetto, dal vento di follia che si esprime allora apertamente» (Green 1991, 130, corsivo mio). Altra figura border è il perverso, anch’essa non accostabile completamente alla psicosi. Tuttavia, ad accomunare, benché in termini diversi, l’isteria e la perversione, è la “follia erotica”. Con l’ultima teoria delle pulsioni Freud è pervenuto a riconoscere il ruolo della sessualità, ampliata e sussunta sotto l’etichetta di Eros, «nella strutturazione dello psichismo umano normale e patologico. In compenso ha minimizzato la loro sostanza intrinsecamente folle, che continuerà a sussistere sia nel soggetto normale che nel soggetto nevrotico o perverso» (Green 1991, 134). Dunque, una certa omogeneità tra manifestazioni sane e patologiche emerge dal cosiddetto oggetto proprio della psicoanalisi, la sessualità, e dall’irriducibile nocciolo di follia che contraddistingue qualsiasi varietà di forme psichiche.
A ben guardare, l’ultimo Freud, che teorizza il concetto di Eros, comprendente tutte le pulsioni di vita, supera l’originario biologismo di matrice positivistica. Inoltre, come mostrerò più avanti, nella misura in cui Eros è in un rapporto dialettico con Thanatos, spinta disgregante anche nei confronti dell’analisi stessa, risulta possibile un movimento verso la comprensione o, meglio, l’allusione della follia (nel senso etimologico di alludere come “girare intorno”).
La follia come concetto-limite tra salute e malattia
Canguilhem, nel contesto del suo studio documentato in Il normale e il patologico (1943, 1966), dimostra l’inconsistenza del cosiddetto principio di Broussais, un vero e proprio dogma positivista (culminato con le analisi espressamente biometriche di Claude Bernard), secondo cui il discriminante tra salute e malattia era la mera alterazione quantitativa di funzioni organiche e di proprietà istologiche e anatomiche. Secondo il medico e filosofo francese, vi è, al contrario, un criterio qualitativo che rende manifesto il carattere polare di salute e malattia, istanze legate all’attività normativa intrinseca al bios, alla sua normatività, ossia la capacità di produrre e definire norme vitali sempre nuove, il cui valore fisiologico o patologico è connesso alla capacità di far fronte o meno alle variazioni ambientali. La salute, in un orizzonte biologico, si manifesta tramite la tensione tra la capacità degli organismi di autoregolarsi e l’adattamento alla norma ambientale (cfr. de Boer, Aydin, 2023). L’individuo sano non è così colui il quale rientra, per un determinato funzionamento, in una definita media fisiologica in relazione alla popolazione statistica di appartenenza. Egli è invece colui il quale trascende la norma che definisce l’assetto “normale” provvisorio secondo un dato ambiente, mediante l’auto-produzione di norme inedite.
Come notano anche Bas de Boer e Ciano Aydin, per Freud è impossibile discernere nettamente il normale dal patologico in ambito psichico, tuttavia, la pratica psicoanalitica non può verificarsi senza una qualche distinzione di questo genere. Propongo così, coerentemente al già menzionato ascendente positivista delle riflessioni freudiane, che nella teoria psicoanalitica nevrosi e psicosi siano due poli di un medesimo rapporto di continuità, tuttavia disomogenei fra loro, in quanto invischiati appunto in una relazione polare. La continuità emerge poiché, secondo Freud, nell’ambito psichico il passaggio dalla normalità alla patologia è una questione di grado, di oscillazione in un certo senso quantitativa, legata all’intensità dei sintomi e delle pulsioni. A tal proposito è utile riportare la seguente considerazione freudiana sull’eziologia patologica, tratta da Analisi terminabile e interminabile (1937), che contiene peraltro molteplici riferimenti alla “normalità”:
Tutti i sintomi nevrotici hanno in verità un’etiologia mista: o si tratta di pulsioni troppo forti, che perciò stentano a essere imbrigliate dall’Io, o dell’effetto di traumi antichi, ossia precoci, che l’Io immaturo del malato non è riuscito a padroneggiare. Normalmente tutti e due i fattori, quello costituzionale e quello accidentale, agiscono congiuntamente. Quanto più forte è il primo, tanto più facilmente un trauma condurrà alla fissazione e avrà come conseguenza un disturbo evolutivo. Quanto più forte è il trauma, con tanta maggiore certezza i suoi effetti dannosi si esplicheranno anche in situazioni pulsionali normali (Freud 1977a, 25).
Riguardo invece al fattore forse più interessante, ossia la disomogeneità, l’attenzione è posta sulla differenza qualitativa tra le due esperienze, che comunque sussiste ed è rilevabile, talché quella psicotica non è sovrapponibile a quella nevrotica. In ogni caso, la cosiddetta follia per eccellenza, la psicosi, offre la possibilità, in quanto concetto psicoanalitico clinicamente mancato, di individuare una sorta di scala di gradazione dell’“alterazione dell’Io”. Si può dire che la condizione psicotica è riconosciuta da Freud come stato-limite della malattia e a mio avviso svolge anche il ruolo di concetto-limite, risultando funzionale alla concettualizzazione psicoanalitica in virtù della sua posizione peculiare, “sul bordo”.
La psicosi rappresenta difatti sia «l’Io anomalo, inutilizzabile per i nostri scopi» (Freud 1977a, 46), ovvero gli scopi terapeutici della psicoanalisi, sia il termine di riferimento di una certa normalità psichica che il pensatore viennese non esita a definire “finzione”, la quale, tutt’altro che una specie, si può avanzare sia uno “spettro”. Dal punto di vista terapeutico, invero, la condizione di normalità (illusoria) del paziente è ciò che risulta indispensabile all’assolvimento del compito analitico, consistente nell’«assoggettare – e cioè includere nella sintesi del suo Io – porzioni incontrollate del suo Es» (Freud 1977a, 45), tramite l’alleanza dello psicoanalista con detto Io dell’analizzato. Freud conclude che l’espletamento di tale finalità dell’analisi può compiersi soltanto con un “Io normale”, per «il fatto che questa collaborazione fallisca regolarmente quando si tratta di psicotici» (Ibidem). La psicosi rappresenta così il punto d’arresto della possibilità terapeutica. Il rilievo freudiano è dunque come sempre empirico, cioè derivato dall’esperienza del fallimento clinico. Ciò corrobora altresì la prospettiva canguilhemiana che assimila l’ostacolo a livello scientifico-sperimentale all’errore sul piano epistemologico, entrambi considerati come strutturanti il movimento stesso della razionalità scientifica (Canguilhem 1992).
Per fornire un’idea più precisa dell’idealità del normale e del suo statuto progressivo, così come concepita dal padre della psicoanalisi, appare esplicativo il seguente passo:
tale Io normale è, come la normalità in genere, una finzione ideale. (…) Ogni persona normale è appunto solo mediamente normale, il suo Io si avvicina a quello dello psicotico per una componente o per l’altra, in misura maggiore o minore, e l’entità della lontananza da uno e della vicinanza all’altro degli estremi della serie sarà assunto provvisoriamente a misura di ciò che abbiamo così approssimativamente definito “alterazione dell’Io” (Freud 1977a, 46).
Lo psicotico sembra dunque percorrere il limes che separa da un lato la dimensione sfaccettata di una presunta normalità (quella della nevrosi, dalle sue forme più acute e invalidanti a quella media, sufficientemente sana, possibile nella società contemporanea), e dall’altro l’abisso dell’anomalia insondabile, la roccia massimamente resistente al trattamento analitico. L’anomalia dell’Io non definisce dunque l’anormalità assoluta, la patologia. Pertanto, sebbene si tratti di ciò che di più refrattario sussista all’analizzabilità, la condizione psicotica non coincide necessariamente con la malattia, coincidenza che al contrario è stata storicamente affermata con la medicalizzazione delle forme di follia a opera delle discipline psicologiche e psichiatriche. È dunque evidente di rimando che, secondo l’ottica freudiana nell’ambito psichico, così come per Georges Canguilhem nell’ambito organico, non esiste un’idea di salute ontologicamente fondata. Al contrario, è contemplabile e auspicabile uno stato di sufficiente sanità, nel senso della fluttuazione possibile da un grado all’altro della quota patologica, del disagio conseguente alla rinuncia pulsionale introdotta per realizzare la permanenza nella civiltà.
Bisogna aggiungere che l’alterazione dell’Io è definita da Freud come «l’effetto che le difese provocano nell’Io» (Freud 1977a, 52), ove tali difese sono procedimenti messi in atto dall’Io – intento a «fungere da mediatore tra l’Es e il mondo esterno al servizio del principio di piacere, e proteggere l’Es dai pericoli del mondo esterno» (Freud 1977a, 46) – e volti ad arginare pericoli, angoscia e dispiacere. Su questo punto riecheggia d’altronde il ruolo della funzione fisiologica e normativa dell’organismo definita da Canguilhem, dal momento che essa rappresenta «un margine di tolleranza nei confronti delle infedeltà dell’ambiente» (Canguilhem 1998, 161). Tuttavia, tali meccanismi di difesa sono vere e proprie resistenze non solo ai pericoli, ma anche alla finalità dell’analisi, ossia alla guarigione, avvertita dunque essa stessa come pericolo.
Inoltre, la radicale opacità della psicosi, in eterogeneità rispetto alla nevrosi, sembra tuttavia (e forse proprio per questo) nascondere un’ambivalenza significativa: sebbene Freud non la assuma esperienzialmente come campo d’indagine pratico della sua clinica, essa risulta avere concettualmente dei legami con l’istanza di guarigione che sembra di primo acchito esserle così estranea.
Peraltro, nell’ambito della ricerca effettuata sugli scritti autobiografici del presidente Schreber, Freud afferma: «la formazione delirante che noi consideriamo il prodotto della malattia costituisce in verità il tentativo di guarigione, la ricostruzione» (Freud 1977b, 88, corsivo mio). Da questa formulazione risulta chiaro che non sussiste alcuna cogenza di assimilazione tra delirio e malattia, nessuna necessità di sovrapposizione tra follia e patologia. Oltretutto, Freud giunge infine a concepire il delirio come un sintomo tutt’altro che patologico; il suo opposto: come un’istanza di salute, iscrivibile nell’orizzonte della guarigione.
Tale citazione trova un’eco rilevante in un altro passo di Freud, tratto da uno degli ultimi scritti, Costruzioni nell’analisi (1937): «le formazioni deliranti del malato mi sembrano l’equivalente delle costruzioni che noi erigiamo durante i trattamenti analitici, tentativi di chiarificazione e di guarigione che invero, date le condizioni della psicosi, non possono portare ad altro che a sostituire la parte di realtà che in un passato lontanissimo è stata parimenti disconosciuta» (Freud 1977a, 86). Questo passaggio ci consente, attraverso vari elementi, di espandere il rilievo teorico precedentemente enunciato. Anzitutto si presenta evidente la comparazione tra la manifestazione delirante e la ricostruzione ipotizzata dall’analista, che ricoprirebbero la medesima funzione terapeutica. Quindi, non solo la formazione delirante si manifesta sul solco di un’istanza riabilitativa interna, ma essa permette di individuare un corrispettivo, in senso operativo, nella tecnica ricostruttiva dell’analista. Inoltre, rispetto alla condizione psicotica, emerge in maniera esemplificativa la metodologia ricostitutiva della psicoanalisi freudiana – nella stessa sede paragonata non a caso a una peculiare tecnica archeologica – poggiante su una concezione teorica evolutiva dei processi psichici.
Resistenze
In merito all’efficacia della psicoanalisi, Freud scrive che «l’effetto terapeutico è legato al farsi cosciente di ciò che nell’Es è rimosso, nel senso più ampio del termine; noi prepariamo la strada a questo farsi cosciente mediante interpretazioni e costruzioni» (Freud 1977a, 51). La rimozione è infatti il più peculiare tra i meccanismi difensivi dell’Io. Il lavoro dell’analista consiste nello stimolare l’emersione delle appendici del rimosso, producendo ricostruzioni di brani presumibilmente appartenenti alla vita psichica passata dell’analizzato. Tuttavia, i meccanismi di difesa, pur essendo di pertinenza dell’Io, costituiscono resistenze inconsce, celate quasi al pari del materiale dell’Es: il trattamento si giostra costantemente tra «un frammento di analisi dell’Es» e «un frammento di analisi dell’Io» (Ibidem). E «durante il lavoro sulle resistenze l’Io si sottrae – più o meno caparbiamente – all’accordo su cui è fondata la situazione analitica» (Ibidem), tra analista e Io del paziente, così che «i meccanismi di difesa contro i pericoli del passato ritornano nella cura sotto forma di resistenze contro la guarigione» (Ibidem). Il lavoro dell’analista è teso inoltre ad attenuare l’interferenza, operata dall’alterazione dell’Io con lo sforzo terapeutico, attraverso gli effetti di un transfert positivo, che risulta quindi cruciale al buon esito della cura, ma limitato di fronte alla “quantità” di radicamento dei meccanismi di difesa. Questi ultimi, in virtù del loro carattere inconscio, rappresentano una vera e propria «resistenza che si oppone al palesamento delle resistenze» (Freud 1977a, 52); sono «resistenze che si ergono non solo contro il farsi cosciente dei contenuti dell’Es, ma anche contro l’analisi in genere, e dunque contro la guarigione» (Ibidem). Freud, all’interno dello scritto non esita così ad ammettere un limite dell’analisi e a enfatizzarlo, affermando che «l’analisi può disporre di un importo energetico ben preciso e limitato che deve misurarsi con le forze che ad essa sono ostili. E sembra che perlopiù la vittoria arrida effettivamente ai battaglioni più forti» (Freud 1977a, 53).
Jacques Derrida esplica bene che «l’accettazione intellettuale, teorica […] dell’interpretazione analitica non basta a eliminare la rimozione, cioè, secondo Freud, la fonte ultima della resistenza. Ciò che resta ancora da vincere è la compulsione di ripetizione» (Derrida 2014, 79-80). Come emerge in Al di là del principio di piacere (1920), la coazione a ripetere, infatti, rappresenta una forma di violenza interna all’apparato psichico dell’individuo, è l’espressione di una resistenza molto radicata, proveniente dall’Es, e proprio per questo essa sfugge a qualsiasi intellettualizzazione, resiste all’analisi. Essa è la conseguenza di quella pulsione di morte, esprimente il nodo inoggettivabile, la regione oscura e intrinsecamente aporetica dove tutto tende all’abisso, anche lo stesso senso. Si tratta di quel nucleo di resistenza al senso, di quel nocciolo di Sragione che può rendere la psicoanalisi una pratica effettiva di libertà, in grado di liberare dal dominio della Ragione. Il limite della resistenza all’analisi è stato messo in risalto da Derrida, segnatamente in una conferenza del ’91 intitolata Resistenze (Derrida 2014), in cui giunge a mostrare come il concetto di resistenza fondi l’intero movimento della psicoanalisi, perfino la sua istituzione, dal momento che, allo stesso modo dell’analizzando, la psicoanalisi medesima resiste alla propria analisi. La ragione psicoanalitica intesa come ragione ermeneutica, aderendo a una originaria tendenza freudiana, risulta comunque in una certa misura positivistica, dal momento che non contempla la possibilità di coni d’ombra sul territorio – totalizzante – del senso. Purtuttavia, anche nella riflessione freudiana è possibile rilevare un movimento oscillante, una resistenza alla sua stessa tendenza teoretico-epistemologica progressiva, volta alla ricerca escatologica di una presunta verità di senso, quasi dal sapore soteriologico. Il punto d’arresto della clinica analitica freudiana, la psicosi, rappresenta quindi il limite più lampante di qualsiasi ispirazione positivistica; essa risulta essere il campo d’indagine presentito dalla psicoanalisi freudiana come oggetto al confine con le oggettivazioni possibili scientificamente, e al contempo aggirato. A questo proposito asserisce Foucault:
Ecco perché la psicanalisi trova in quella follia per eccellenza – che gli psichiatri chiamano schizofrenia – il proprio tormento intimo più invincibile: in questa follia si danno infatti, in una forma interamente manifesta e interamente sottratta, le forme della finitudine verso cui di solito la psicanalisi avanza illimitatamente (e nell’interminabile) a partire da ciò che è volontariamente-involontariamente offerto a essa nel linguaggio del paziente. Di modo che la psicanalisi “vi si riconosce”, una volta posta di fronte a quelle stesse psicosi cui pure (o piuttosto per questa stessa ragione) non ha accesso: come se la psicosi ostentasse in una illuminazione crudele e offrisse in una forma non già troppo lontana ma al contrario troppo vicina, ciò verso cui l’analisi deve lentamente procedere (Foucault 2016, 401).
La condizione psicotica appare come una fenditura nella compattezza positiva di una psicologia della coscienza. Tale fenditura lascia filtrare così la possibilità, necessaria, dell’inanalizzabile. Dunque, la capacità della psicoanalisi di girare intorno alla psicosi rappresenterebbe la sua possibilità di “sfiorare” quella follia che è stata silenziata dal logocentrismo occidentale, di scavallare la prevaricazione della Ragione rispetto alla Sragione e riattivare un dialogo fra le due istanze.
La psicoanalisi come sapere al limite
Nella stessa episteme prodotta dalla modernità, infatti, la psicoanalisi risulta essere un evento importantissimo, che introduce una frattura nella roccaforte del razionalismo eretta a partire dal cartesianesimo. Pur riconoscendo e affermando il cogito cartesiano, invero, la psicoanalisi avanza il proprio passo su un bordo, ponendo sul confine tra un dentro e un fuori l’atteggiamento reificante dell’episteme, include ed esclude insieme l’esperienza della follia come oggetto epistemologico. Foucault, nell’ultimo capitolo di Le parole e le cose (1966), definisce la psicoanalisi, così come l’etnologia, una “contro-scienza”, ossia una scienza al margine rispetto alle altre scienze umane. La postura teorica della contro-scienza è sintetizzata da una sorta di criterio problematizzante, riassumibile nel costante rimettere in questione e in discussione ciò che è stato preso per “vero”, ciò che è stato rilevato come “risultato”.
La psicoanalisi come sapere del limite
La psicoanalisi è dunque un sapere-limite, cioè in grado di fuoriuscire dalla logica epistemica dell’acquisizione teorica positiva, quale può essere quella della coscienza, e di sopravanzare la rappresentazione. Essa è quindi anche un sapere del limite, dal momento che, «assumendosi il compito di far parlare, attraverso la coscienza, il discorso dell’inconscio, la psicanalisi procede nella direzione della regione fondamentale in cui agiscono i rapporti fra rappresentazione e finitudine» (Foucault 2016, 399, corsivo mio). Foucault scrive icasticamente che «laddove tutte le scienze umane avanzano verso l’inconscio solo volgendo a questo le spalle, attendendo che esso si sveli a mano a mano che, come a ritroso, si produce l’analisi della coscienza, la psicanalisi invece punta verso l’inconscio direttamente e deliberatamente (…) verso ciò che è là e sfugge» (Ibidem).
Un’analisi al di là dell’analisi
La psicoanalisi calpesta lo stesso sentiero delle scienze umane, ma rivolge il suo sguardo nella direzione opposta, «va verso il momento – inaccessibile per definizione a ogni conoscenza teorica dell’uomo, a ogni possesso continuo in termini di significato, di conflitto o di funzione – in cui i contenuti della coscienza si articolano o piuttosto restano spalancati sulla finitudine dell’uomo» (Foucault 2016, 400).
La psicoanalisi sarebbe di conseguenza da pensare come sapere del limite, ove quest’ultimo è inteso come oggetto (che essa non arriva mai a sapere fino in fondo) e come metodo. Il limite, come già accennato, è quello che Freud incontra nella sua clinica, l’ostacolo, la barriera che però gli permette di sistematizzare una teoria, la quale trova poi riscontro nuovamente nella clinica. Il limite è anche quello delle resistenze che i pazienti oppongono all’analisi, le quali, come argomenta Derrida, possono trasporsi oltre l’ambito clinico e strutturare il discorso di metodo psicoanalitico.
Ergo, come scrive Michele Di Bartolo, «né necessario né contingente, il limite che impedisce di andare al di là sospende la logica dell’analisi come analisi del logos e la apre alla possibilità impossibile di un’analisi pratica, di un’analisi al di là dell’analisi» (Derrida 2014, 27). È così che quel nocciolo di aporeticità, intrinseco alla psicoanalisi, riesce a consentire il salto dal dominio epistemologico a quello etico-politico, prefigurando la potenzialità di una psicoanalisi che sia intesa come pratica, esperienza di costituzione del sé, consapevole dei propri limiti epistemici e clinici e, in virtù di ciò, capace di modificare il proprio assetto concettuale, evitando eternizzazioni inadeguate ad affrontare le esigenze sociali del presente. Per concludere, rivalorizzare la psicoanalisi, mostrare la fecondità del suo movimento allusivo intorno alla follia, potrebbe ricucire la foucaultiana cesura tra Ragione e Sragione, rendendo possibile in ambito clinico una nuova diagnostica che tenga conto degli aspetti olistici, esistenziali e dimensionali della sofferenza psichica; in ambito pratico dispiegare nuovi processi autopoietici di soggettivazione verso la costituzione di un homo non psychologicus.
Nel quadro contemporaneo tale sapere-limite può porsi come una pratica di cura che possa approssimarsi alla natura delle forme di delirio, ascoltare autenticamente le voci della follia e rendere conto delle potenzialità vitali, addirittura costruttive, di essa. Del resto, come insegna Canguilhem: la malattia stessa – o almeno la condizione che con essa si designa – non è che un’altra norma di vita.
Riferimenti blibliografici
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