L’intimità terribile

Negli ultimi anni, soprattutto sulla scorta degli studi sulla contaminazione iniziati da Mary Douglas, l’antropologia si è molto occupata del disgusto, emozione di base già ampiamente studiata negli ambiti della psicologia per i suoi interessanti risvolti psico-sociali. In questo articolo riprenderemo alcuni di questi studi per offrire una riflessione filosofica sul ruolo di questa emozione tanto complessa, argomentando come il disgusto possa servire per comprendere meglio il modo in cui il soggetto interagisce con il mondo, co-costruendo se stesso e ciò che lo circonda attraverso sofisticate operazioni classificatorie successivamente incorporate e, iterativamente, messe di nuovo in gioco nell’incessante progetto che è il fare cultura. 


La sporcizia, quindi, non è mai un evento unico, isolato.
Dove c’è sporcizia c’è un sistema
Mary Douglas, 1966 

Guardatevi bene dal pulirvi il naso con le dita o con la manica,
[…], ma servitevi del fazzoletto, senza poi guardarci dentro dopo l’uso.
Se sei saggio, sputa fuori del catino quando ti lavi.
Esempi di buone maniere medioevali, in: Norbert Elias, 1936

 

In uno studio del 2009 gli psicologi sociali Jones e Fitness espongono due gruppi di soggetti a delle vignette che rappresentano rispettivamente persone che compiono atti moralmente trasgressivi e atti moralmente neutri. Al termine dell’esposizione gli sperimentatori offrono loro un regalo a scelta tra un prodotto di pulizia o un altro tipo di prodotto. I soggetti del gruppo sperimentale – cui erano state assegnate le vignette raffiguranti atti moralmente trasgressivi – scelgono il prodotto di pulizia in misura quasi tre volte maggiore rispetto al gruppo di controllo che ha visionato vignette dal contenuto morale neutro (Jones & Fitness, 2009).

Questo è solo uno dei molti studi che connettono quella che in psicologia viene considerata un’emozione base, il disgusto, con il dominio della morale (Cfr.: Horberg et. al. 2009; Landy et. al. 2017). Secondo una prospettiva evoluzionista, il disgusto si è sviluppato per aiutare gli uomini a evitare la contaminazione fisica con elementi dannosi. Si ipotizza quindi che, al complessificarsi della società e delle interazioni sociali, sia corrisposta un’estensione di questa portata protettiva fino ai domini morale e sociale (Cfr.: Haidt et al., 1997; Rozin et. al., 2000). In altre parole, la trasgressione sociale, rappresentando un pericolo per l’incolumità dei singoli, viene avvertita e sanzionata somaticamente attraverso il disgusto: ecco perché i partecipanti dell’esperimento che hanno osservato sulle vignette atti moralmente problematici scelgono più spesso il prodotto di pulizia. Il disgusto, infatti, nella sua viscerale sgradevolezza, richiede immediatamente la sua estinzione, e le persone disgustate, per trovare sollievo, spesso si lavano.

Ma perché? Quella che per gli studiosi è un’ulteriore prova della connessione causale tra i domini del disgusto e del giudizio morale è, antropologicamente e filosoficamente, una questione interessante di per sé: in che modo l’operazione di pulizia permette un sollievo dal disagio arrecato dall’osservazione di un’azione ingiusta? E come si dà tale sollievo, in che modo muta la condizione del soggetto?

Le operazioni di pulizia dalla contaminazione sono un’occorrenza fondamentale nelle società, tanto che Mary Douglas, nel suo ormai classico Purity and Danger (1966), rileva come siano strutturali rispetto ai diversi modi in cui le diverse società si organizzano differenziandosi tra loro, classificando, dividendo e separando quello che è proprio da quello che non lo è. Per classificare è necessario separare, e separare ciò che appartiene a un dominio e cosa no è un modo di pulire.

Se riflettiamo sull’atto di pulizia che succede al disgusto morale dei partecipanti, quindi, pensare il disgusto come semplice risposta somatica a qualcosa che nuoce sembra non dirci tutta la storia. Da una parte, perché cade nel noto problema dell’astoricità di certe spiegazioni evoluzionistiche. Dall’altra, perché parte dal presupposto, tipico dell’atteggiamento naturalistico, che si possa risalire a un “disgusto originario”, unicamente corporeo e totalmente altro rispetto al disgusto morale, che può esserne solo una derivazione. Tendenza tipica del modo di fare scienza occidentale, separare natura e cultura, corpo e mente e nella speranza di trovare fondamenti transculturali. Tuttavia, è evidente perché il disgusto si presti particolarmente bene a questa interpretazione. Tra le emozioni dette di base, è certamente quella che sembra meno mediata dalla cognizione: il disgusto erompe a partire dal corpo, è una sensazione viscerale, immediata. Viene facile, pertanto immaginarlo come una reazione difensiva originaria e primitiva. Il disgusto è tuttavia elicitato da cose molto diverse nelle culture, è percepito attraverso sensorium diversi (Geurts, 2002), e risponde ai diversi codici elicitando risposte adeguate in modo tutt’altro che primitivo (Cfr.: Bubandt, 1998). Sembra, in altre parole, molto più che una reazione al pericolo. Sembra includere una conoscenza e preparare a un’azione.

 Il progetto ontopoietico del disgusto
Secondo il fenomenologo tedesco Kolnai (2004), che ha scritto uno dei primi saggi interamente dedicati all’argomento, il disgusto va inteso come un sentimento complesso che contiene una componente di esperienza somatica, una forza emotiva e una valutazione morale. Questo significherebbe che le valutazioni morali, le sensazioni fisiche e le emozioni sono già comprese nel modo in cui gli uomini esperiscono. Il disgusto, in altre parole, potrebbe indicare che esiste un “sentire morale” che in modo iterativo si struttura – e struttura – a partire dai codici delle culture di appartenenza.

È chiaro come tale concettualizzazione richieda adottare una certa concezione dell’uomo e della sua relazione con il mondo, una concezione per cui la percezione non è mai esclusivamente un’operazione di passiva ricezione di dati sensibili, bensì già partecipe del fare cultura proprio dell’uomo.

Il concetto demartiniano di ethos del trascendimento permette di inquadrare meglio questa posizione. Il soggetto, per De Martino, è situazione sempre in fieri, che supplisce alla propria mancanza di senso originari perimetrando progressivamente i propri confini identitari nello stesso momento in cui edifica mondi abitabili per questi sé precari. Tale lavoro di confinazione e vivificazione è, appunto, opera dell’ethos del trascendimento, che potremmo metaforizzare come uno sguardo che vivifica e scalda gli oggetti e i luoghi per far sì che il soggetto abbia una cornice sicura nel quale sentirsi esistere. Questo sentire è già culturalizzato e culturalizzante, passione del mondo intrisa di azione. Appropriazione metafisica di porzioni di mondo prima estranee da poter abitare: “Fino a qui sono al sicuro”.

Seguendo Douglas, il disgusto emerge in seguito alla percezione della violazione di questi limiti: è la paura della contaminazione con ciò che è stato classificato come non sicuro che elicita immediata avversione. Lo sporco quindi altro non è che “materia fuori posto”, non esiste uno sporco in sé, esiste una costruzione sociale dello sporco.

Il disgusto si configura quindi come parte di questo ampio e sempre attivo progetto ontopoietico, fondamentale guardiano di frontiera del pulito e del sacro. Diventa quindi anche – tuttavia mai esclusivamente – dispositivo di potere, perfettamente efficace per la legittimazione di una cultura dominante, che si esprime attraverso gusti e disgusti precisi: i devianti sono sporchi, quindi pericolosi, e vanno mantenuti lontani dal territorio sacralizzato della società buona. Martha Nussbaum ha studiato ampiamente come il disgusto opera nei dibattiti legali sulle sessualità devianti negli Stati Uniti, chiamandolo «una forza che maschera molte forme di stigma e gerarchia» (2010). Mascheramento che avviene nel modo tipico della società occidentale, la naturalizzazione delle classificazioni. Lawler (2005) nota, ad esempio, come la descrizione della classe lavoratrice inglese includa spesso immagini di corpi sporchi e non attraenti, vestiti senza gusto e capelli disordinati, per mettere sullo stesso piano disgusto e differenza di classe. Ancorando la repulsione ai corpi degli altri si naturalizza il perimetro dei noi e dei loro, che viene poi esplicitamente codificato attraverso il gusto e l’estetica della classe dominante (Cfr.: Bourdieau, 1984).

Il disgusto è quindi fondamentale per i processi che stabiliscono e rinnovano i confini di un ethos, ma secondo Miller (Miller, 1997) ricopre anche un’analoga funzione individuale, perché distingue il sé dall’alterità, mantenendone i confini e stimolando la necessità di trasgressione. Dal macrocosmo al microcosmo, il disgusto sembra segnalare – al corpo dell’individuo come al corpo sociale – il travalicamento di un limite, quindi l’incombere del pericolo. Un marcatore somatico nel senso che Damasio (Damasio, 1994) attribuisce alle emozioni quando gli riconosce il rango di cognizioni, ma anche qualcosa di più, perché suo carattere operativo è tale da legare l’esperienza del soggetto alle cose, fornendo una guida ai processi di separazione che sono alla base del complesso progetto che è l’antropopoiesi.

L’intimità possibile
Per elicitare il disgusto, la vicinanza deve paventare la possibilità di un’intimità, di una con-fusione con l’oggetto (Cfr.: Duhram, 2011). L’intimità è un tipo di relazione multiforme, che ha molto a che fare con la possibilità dell’incorporazione. Quando c’è vicinanza ma manca intimità, questa assume i contorni temibili della contaminazione. Eppure, ci sono particolari forme di intimità che necessitano di una componente trasgressiva, perfino disgustosa: il desiderio è una di quelle passioni che sopporta e necessita di questa basilare ambivalenza, mostrando come disgusto e intimità siano in qualche modo sempre intrecciati.

Questa relazione è ben rappresentata nel film Non ti muovere, di Sergio Castellitto, che racconta la relazione di un medico affermato con una donna straniera di bassa estrazione sociale. La voce narrante è quella del medico, uomo ricco e affermato, che si trova provare attrazione per questa donna – una Penelope Cruz appositamente e argutamente imbruttita – che viene presentata allo spettatore attraverso lo sguardo impietoso del sottile disgusto di classe del protagonista. Come spesso accade, questa repulsa è impregnata di desiderio, che porta molto presto i due a consumare dei rapporti sessuali. Dopo uno di questi rapporti frettolosi e sofferti, la donna propone al medico di rimanere a mangiare con lei. Lui indugia: è lì per la soddisfazione di un desiderio colmo di vergogna che ha fatto del disgusto il suo artefice: non vuole mangiare con lei. Mangiare il cibo di qualcuno, cucinato da qualcuno, con le sue mani, nella sua cucina, è un atto profondamente intimo, suggello di fiducia. Quando decide di accettare, la telecamera li inquadra mentre mangiano insieme. Il disgusto è scomparso per lasciare posto ad una tenerezza disperata che legherà i due protagonisti per il resto della pellicola. È avvenuto un piccolo rito di passaggio, sancito, non sorprendentemente, dalla condivisione del cibo, proprio come accadeva un tempo e come accade ancora in modi più o meno espliciti nelle diverse culture. Disgusto e intimità si trovano quindi in una sorta di dialettica, per cui, senza il superamento di uno non può darsi l’altro, e se possiamo dire che il disgusto è il rifiuto di un’intimità possibile, l’intimità contiene certamente in sé un disgusto superato, una dichiarazione di fiducia: al termine di questo scambio sarò ancora integro.

Il possibile nel corpo: l’uomo e i suoi scarti
Il disgusto, quando è sentito nella sua forma più accesa e temibile, porta alla nausea: poche affezioni come la nausea, nel suo carattere liminale tra la necessità del vomito e il totale rifiuto della pratica, inchioda l’uomo all’orrore della vulnerabilità del corpo e dei suoi scarti. Non è un caso che il capolavoro di Sartre su questa sensazione (Sartre, 1938) racconti di un mutamento degli oggetti che li rende incomprensibili, vaghi e privi di posizione, o che ne L’Être et le Néant (Sartre, 1943) troviamo una meticolosa analisi del viscoso e delle sue proprietà ributtanti. Il viscoso non è né liquido né solido, si muove in modo lento e minaccioso, e, se disgraziatamente toccato, si attacca alle estremità. Viscosi sono i fluidi corporei, i rifiuti delle fabbriche e i cibi andati a male: l’uomo è circondato dai propri scarti, e deve ogni volta attuare rituali di passaggio perché questi diventino innocui, ovvero si posizionino alla giusta distanza.

La nausea paventa il rovesciamento del processo rituale di pulizia, la violazione delle leggi culturali sulle posizioni della materia. Lo sporco, per il nauseato – quindi per il disgustato – non è più fuori, è dentro di lui, e comandando la propria espulsione vuole mostrarsi allo sguardo. Si prospetta la contaminazione più pericolosa, l’intimità con lo sporco; la possibilità della con-fusione. Ecco perché vedere delle vignette raffiguranti azioni trasgressive richiede il ricorso all’azione rituale della pulizia: è necessario rifiutare in ogni modo quell’intimità. La si può rifiutare palesando il proprio disgusto per le azioni visionate, ma è tanto più efficace se ritualmente si vanno a decontaminare i confini del noi dalla possibile fusione con il rifiuto. Quindi si pulisce la pelle, limite minimo di affaccio sul mondo, soglia massima del rischio. Dopo questa azione rituale, lo sporco – il male, il brutto, il difforme – non è più in noi, è altrove, obliato allo sguardo.

Poco importa se lo sporco non è sempre stato tale: il cibo gustoso lasciato a metà sul piatto diventa rifiuto nel momento stesso in cui scompare l’intenzione di mangiarlo. Non c’è possibilità di tornare indietro, per lo scarto. Le discariche non possono tracimare nelle città.

Il dramma che precede l’antropopoiesi è questa gettatezza nella confusione con i propri scarti, fisici o morali che siano. Si deve mettere sempre e di nuovo in gioco l’ethos di una cultura per poter limitare l’intimità pervasiva con le cose del mondo che da ogni parte minacciano la possibilità dell’indifferenziazione. Il disgusto dice moltissimo di noi, soggetti precari e ambivalenti, necessitanti del pulito quanto dello sporco, del sacro quanto del profano, della con-fusione quanto dell’autonomia. Operatori di ethos che tessiamo codici cosmici di nature severe e ordinatrici, mentre faticosamente ci schermiamo da quel sinistro desiderio che sembra provenire da tutto ciò che abbiamo doviziosamente scartato, quegli oggetti terribili che sembrano sussurrarci: res tua agitur.

 

Riferimenti ibliografici

— Bordieau, Pierre. 1984. Distinction: A Social Critique of the Judgment of Taste. Trans. Richard Nice. Cambridge, MA: Harvard University Press.

Bubandt, Nils. (1998) The odour of things: Smell and the cultural elaboration of disgust in Eastern Indonesia, Ethnos, 63:1, 48-80, DOI: 10.1080/00141844.1998.9981564.

Damasio, Antonio R. 1994. Descartes’ Error: Emotion, Reason and the Human Brain. Random House.

De Martino, Ernesto. 1977. La fine del mondo. Torino: Einaudi, 1977.

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Duhram, Deborah. 2005. Did You Bathe This Morning? Baths and Morality in Botswana. In Dirt, Undress, and Difference: Critical Perspectives on the Body’s Surface, edited by Adeline Masquelier. pp. 190–212. Bloomington: Indiana University Press.

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Jones, Andrew & Fitness, Julie. 2008. Moral Hypervigilance: The Influence of Disgust Sensitivity in the Moral Domain. Emotion (Washington, D.C.). 8. 613-27. 10.1037/a0013435.

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Sartre, Jean Paul. 1938. La nausea. Tr. it. Torino: Einaudi, 2014.

Sartre, Jean Paul. 1943. L’essere e il nulla. Tr. it. Milano: il Saggiatore, 2014.

Photo by Dustan Woodhouse on Unsplash

Psicologa e dottoranda all’Università di Bologna, dove si occupa di filosofia della psichiatria, in particolare dello scontro tra l’epistemologia medica e la conoscenza situata del Neurodiverstiy Movement.

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