A cosa servono i filosofi?

Per celebrare i 40 anni dalla nascita dell’inserto culturale Domenica, il quotidiano Il Sole 24 ore ha curato la proiezione di quaranta domande sui monitor della stazione ferroviaria di Milano centrale. In un’epoca in cui si cerca e si vuole la risposta facile, l’esercizio della domanda è sempre qualcosa che va salutato con favore.

Una di queste chiedeva: I filosofi servono a qualcosa?  Si tratta di una domanda antichissima nella quale si sono interrogati, da Platone ad Heidegger, gli stessi filosofi. Noi abbiamo provato a rispondere, magari venendo in aiuto ai viaggiatori interessati alla cosa.

Osserviamo in prima battuta, in modo un po’ provocatorio, che la domanda implica che possano darsi dei filosofi senza la filosofia. In questo caso nasce una scissione in cui i cosiddetti filosofi diventano qualcosa di diverso da quello che la materia di per sé implica: sofisti, filosofi di professione, corifei, pedanti. Come distinguiamo allora i veri dai falsi filosofi?  Un suggerimento ci è stato dato da un individuo che, pur non avendo scritto nulla, è considerato il padre della filosofia. Secondo Socrate il filosofo è una persona che innanzitutto ricerca perché manca di qualcosa di essenziale senza la quale la vita non è degna di essere vissuta. Per il momento, teniamo ferma questa risposta.

Quella domanda infatti (I filosofi servono a qualcosa?) potrebbe meglio essere posta nel chiedersi se, in generale, la filosofia serva a qualcosa. In questo caso bisogna però rispondere preliminarmente alla domanda su cosa consiste quella attività a cui si dà il nome di Filosofia. Ma anche così non mancano i problemi se constatiamo il fatto che non esistono pensatori che abbiano dato una risposta univoca al tema: meraviglia, acquiescenza dell’animo, vita migliore, problemi del linguaggio e così via dicendo. La filosofia è davvero un mostro dalle mille teste, come ebbe a dire Schopenhauer. 

Tutto ciò però non ostacola la possibilità di ottenere una risposta esauriente e condivisa. Questo perché, a prescindere dalle differenze, e riprendendo i termini della domanda, si deve e si può riconoscere che la filosofia non serve e non servirà mai a nulla e a nessuno. Il suo statuto consiste infatti nella sua massima indipendenza, tale da porla fuori da ogni scopo immediato e riconoscibile. Se la medicina serve alla salute dell’uomo e la politica alla costruzione delle società umane (tanto per fare degli esempi), la filosofia non ha scopi che la trascendono, che sono fuori di sé, oltre i limiti del suo esercizio. 

Il fatto che la filosofia, cioè l’attività di pensiero riflessiva che ne costituisce di fatto il sinonimo, non serva a nulla, è dimostrabile con l’idea per cui il pensiero, in sé infinito perché impossibile da limitare, non può di per sé porsi al servizio di qualcosa di finito, altrimenti non sarebbe infinito. Questo è ciò che rende la filosofia libera da qualsiasi dipendenza e che la costituisce come l’attività sovrana per eccellenza. Per questo motivo il pensare, il quale si serve dell’intelletto come suo strumento, è piuttosto il presupposto per la vita. Anche in questo caso, per usare un esempio concreto, cosa sarebbero le sensazioni se non ci fosse il pensiero che le distingue e tramite il quale esserne consapevoli?

Eraclito, forse il pensatore più incisivo sulla questione, sostiene che la filosofia è ascolto del logos dalle profondità infinite. Se è vero quanto detto sopra sull’essenza della filosofia come ricerca disinteressata e presupposto della vita stessa, rimane allora che i filosofi (oltreché ricercatori) sono i veri credenti, perché credono prima di tutto ad un fondamento stabile che poi, a seconda dei contesti storici, si potrà chiamare Logos, Tutto, Sostanza o Dio. 

Questo credere ad un fondamento assoluto li rende obbedienti e lineari nell’agire, cosa che non avviene nell’atteggiamento religioso (tanto per fare un paragone) in quanto, nel momento in cui l’uomo religioso ascolta la parola di Dio (come osserva in modo acuto la Bibbia), anziché una parola ne intenderà due, con la conseguenza che egli si troverà scisso, determinando immancabilmente la paralisi o la schizofrenia dell’agire. 

Il filosofo invece è tale proprio perché, ponendosi nell’ascolto del Logos, modifica il proprio agire: in questo aveva ragione Heidegger quando diceva che in filosofia non si possono dimostrare delle tesi perché ciò presuppone che chi comprende rimanga lo stesso. Cosa che dovrebbe far riconoscere che le autentiche conversioni sono propriamente solo e soltanto quelle filosofiche (esattamente il contrario dunque di quel detto popolare che sostiene che la filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale si rimane tale e quale). 

Questo ci avvicina ad un interessante pensiero di Wittgenstein (l’altro gigante del novecento filosofico) il quale osservava che la filosofia richiede una certa rassegnazione, non dell’intelletto, ma del sentimento. «Ciò che rende difficile la comprensione infatti, è il contrasto con quello che la maggior parte delle persone vuole vedere. Il lavoro sulla filosofia – continua Wittgenstein – è in verità più un lavoro su se stessi, sul proprio modo di pensare, sul proprio modo di vedere le cose e su ciò che ci aspettiamo da esse». Il filosofo dunque, solo nella misura in cui serve se stesso (nei modi che abbiamo indicato), può “servire” a qualcosa.

Senza dimenticare infine che il legame tra la teoria e l’agire risulta fondamentale. Se in linea di principio le due attività sono separate, in realtà (come dimostra Socrate e quell’altro maestro che è Spinoza) non esiste separazione tra il lavoro intellettuale e il lavoro manuale: chi ben pensa sa anche agire e costruire il mondo. Non è un caso che i presocratici, oltreché grandi pensatori, erano anche fondatori di città.

E con tali spunti di riflessione crediamo di aver risposto alla domanda posta sugli schermi della stazione. Sperando ovviamente, nei limiti di un articolo, di essere stati chiari perché, se c’è una virtù che deve sempre essere richiesta al filosofo, questa è quella della chiarezza.

Dal 2008 questo sito propone quella attività inutile del pensiero senza la quale, stranamente, gli uomini finiscono prima o poi per richiederne l’esercizio. Nell’anno che sta per concludersi abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi che ci eravamo prefissati. In primo luogo sono tornati i ritiri filosofici, che per noi rimangono la cosa più importante. Abbiamo offerto 44 nuovi articoli che hanno spaziato dalle riflessioni teoretiche a quelle storico-filosofiche (ma siamo coscienti di essere sempre alla ricerca di qualcosa che ci manca). Secondo le statistiche, abbiamo avuto 125.000 visualizzazioni mentre i lettori stabili (cioè coloro che si soffermano per almeno 4-5 minuti nel sito) si attestano su quota 80.000. Infine, abbiamo avviato la collaborazione con un’altra associazione filosofica che ci ha consentito, tra le altre cose, di organizzare un importante convegno filosofico sul tema della coscienza.

Quella coscienza a cui assegniamo importanza decisiva in quanto condizione principale perché si possa pensare e fare filosofia. Che è quello che auguriamo a tutti per il 2024.

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

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