Spinoza in Italia, una storia ancora da scrivere

L’influenza del pensiero di Spinoza in Italia è un capitolo ancora aperto della storia della filosofia. Come scrive Francesco Cerrato nel suo Liberare la modernità. Spinoza in Italia tra Risorgimento e Unità (testo che abbiamo utilizzato come guida per trarre lumi su questa vicenda), il pensiero di Spinoza non costituisce solo un problema storiografico ma anche un problema concettuale e filosofico. A destare curiosità è il fatto, comune anche agli altri Paesi europei, che Spinoza ha attraversato la modernità come un prisma il cui pensiero ha sempre diviso gli interpreti. Questo non solo a causa della strategia di dissimulazione adottata nei suoi scritti ma anche, aggiungiamo noi, al fatto che il pensiero di Spinoza, almeno nel periodo successivo all’Unità italiana, è stato confinato a quanto contenuto nell’Etica senza mai un vero confronto con le tesi del Trattato Teologico Politico.

Gentile primo storico dello spinozismo in Italia
Abbiamo ricordato recentemente la critica attualistica di Gentile a Spinoza. In un articolo del 1927 dal titolo Spinoza e la filosofia italiana, il filosofo siciliano ribadiva i suoi rimproveri sostenendo che «l’Amor Dei intellectualis non ci dà l’adeguato concetto della vita dello Spirito». Tuttavia, abbandonata la discussione sugli aspetti teoretici dell’ontologia spinoziana, Gentile giungeva ad affermare che «intendere Spinoza diventò per gli studiosi italiani un bisogno per intendere la stessa filosofia» tanto da ammettere che Spinoza aveva ragione: non solo perché egli era stato il rappresentante principale della concezione naturalistica del mondo, distinta da quella fornita dagli Eleati e dai presocratici, ma anche perché l’uomo ha bisogno della fede, costituita da quell’amore di Dio (appena poche righe prima, come abbiamo visto, dichiarato insufficiente) che Spinoza gli radica nell’animo, necessario affinché l’uomo non si senta «sequestrato dal mondo in cui Dio si manifesta, e cioè si realizza». Rimaneva ciononostante l’accusa di acosmismo, l’incapacità cioè di concepire il divenire, tipica di chi, come Gentile, interpretava la dinamica storica con le lenti dell’idealismo hegeliano. E rimaneva il rifiuto di una filosofia considerata comunque lontana dal cristianesimo che Gentile giudicava, nonostante le contraddizioni nelle quali era stato rivestito nel corso della storia, l’espressione dell’autentica vita dello Spirito in quanto in esso «non c’è più il fatto ma l’atto, non più le cose ma l’amore».

Spaventa e l’opposizione imperfetta
Chi invece su Spinoza ha condotto una riflessione sistematica, ben più profonda ed originale di quella di Gentile, questi è stato Bertrando Spaventa. Nella ricostruzione di Cerrato sono quattro gli approcci del pensatore abruzzese alla filosofia di Spinoza. I primi due sono uniti dalla persuasione, secondo la nota tesi della circolazione del pensiero, che la filosofia moderna europea, da Spinoza fino ad Hegel, sia uno sviluppo di quella rinascimentale italiana. Il primo approccio vede una stretta analogia del pensiero di Bruno con quello di Spinoza in cui l’infinito del primo e la sostanza del secondo sono fatti coincidere nell’immanenza divina. Tuttavia, in base alla canonica lettura hegeliana di cui anche Spaventa è debitore, entrambe sono giudicate filosofie statiche e immobili tanto da non poter accogliere dentro di sé il divenire del mondo. Anche nel secondo approccio il nolano continua ad essere dichiarato il precursore del filosofo di Amsterdam, ma se ne evidenziano però le differenze. Queste consistono nel fatto che la Sostanza spinoziana offre un concetto di Dio inteso come causa sui, causalità immanente; in Bruno invece, «vi ha una certa perplessità nel concetto di Dio: Dio ora è principio soprannaturale e soprastanziale, ora è la stessa Natura e Sostanza. Quello è il Dio dei teologi, questo de’ filosofi». Tale oscillazione è considerata tipica di un filosofo il quale, venendo prima di Cartesio, non poteva avere gli strumenti per una speculazione legata al soggetto. Non è un caso che Spaventa rileggesse Spinoza in senso cartesiano in una terza e più tarda interpretazione.

Ma è la quarta interpretazione quella più importante, contenuta in un saggio dal titolo Il concetto dell’opposizione e lo spinozismo, che Spaventa pubblicava all’età di cinquanta anni. In tale articolo, il filosofo abruzzese offriva innanzitutto una doverosa premessa teoretica volta a chiarire il concetto di opposizione: in base ad esso, i termini che si oppongono non sono estranei l’uno all’altro, bensì si implicano a vicenda (la natura, che non è spirito, non è senza lo spirito, così come lo spirito, che non è natura, non è senza la natura). Questo fonda la necessità della differenza, intesa come non poter essere senza il suo non essere. Nel sistema spinoziano tali opposti sono il pensiero e l’estensione, ovvero i due attributi della sostanza. Il problema, secondo l’interpretazione di Spaventa, è che tale differenza non è intrinseca bensì estrinseca a quell’opposizione con la conseguenza che essa risulta infinita solo in apparenza. Il difetto fondamentale della filosofia di Spinoza consiste dunque nel non aver distinto il concetto di sostanza da quello di essere: i due opposti infatti sono come il qualcosa e l’altro, in cui il principio non è l’essere ma la sostanza come essere. Nonostante ciò, il filosofo abruzzese riconosceva che quel difetto costituiva la contraddizione vitale dello spinozismo, felice inconseguenza (quella per cui la differenza è introdotta dall’esterno nella sostanza) che consente a Spinoza di fondare i concetti più noti, riassunti nel celebre Deus sive Natura; sicché, concludeva Spaventa, «lo spinozismo non è spento, ma vive ancora e vivrà sempre in una forma più adeguata alla sua propria esigenza, e quindi più vera. Dopo morto, è più vivo di prima».

Una questione di attributi
Vale la pena di aggiungere che il cuore della critica di Spaventa si fondava sulla critica degli attributi di derivazione hegeliana. Senza entrare a fondo nei particolari della questione, Hegel considerava gli attributi (pensiero ed estensione) in senso nominale anziché reale in quanto se è l’intelletto a cogliere gli attributi, «dove la sostanza trapassi in attributo non è detto». La difficoltà nasceva anche dal fatto che, una volta considerata la sostanza come determinata, era impossibile che la stessa sostanza fosse l’identico soggetto di attributi che, tra di loro, non hanno niente in comune. L’obiezione si poteva riassumere in questo modo: come è possibile che la sostanza, se è estesa, sia anche pensante? E come è possibile che la sostanza, se è pensiero, sia anche esteso? Questo è appunto impossibile se la causa prima viene intesa come determinata. Ma se, come sembra più corretto, si considera la causa come indeterminata, allora quella contraddizione scompare senza la necessità di introdurre un soggetto che si sostituisca alla sostanza.

Gioberti e gli altri tra cristianesimo e storicismo
Proprio la formula tipica dello spinozismo è ciò che separava Vincenzo Gioberti, l’altro grande filosofo del Risorgimento, da Spinoza: tramite la razionalità infatti, la distanza tra Dio e Natura è annullata con la conseguenza che viene ad essere negata l’identità personale e trascendente di Dio a favore di una concezione materialistica del divino. Gioberti rimproverava poi a Spinoza di aver trascurato la distinzione reale tra infinito e finito ricadendo, come Cartesio, in una forma banale di psicologismo. Da notare che Gioberti si spingeva fino a considerare l’aspetto politico della dottrina di Spinoza di cui era criticata la coincidenza tra diritto naturale e forza. Gioberti tuttavia, come Cerrato mette bene in risalto nel suo lavoro, è il primo a considerare la filosofia di Spinoza come una delle grandi alternative del pensiero moderno nei confronti della quale era doveroso prendere posizione. Oltre a Gentile e a Spaventa, tutti i filosofi del periodo, chi per un verso chi per un altro, lo hanno fatto: da Pasquale Galluppi all’inizio dell’ottocento con la sua critica al determinismo, fino ad Antonio Labriola e alle sue analisi delle passioni spinoziane nel periodo precedente la prima guerra mondiale; da Antonio Rosmini, che addirittura accusava Gioberti di essere caduto nello spinozismo, fino a Francesco Fiorentino il quale, oltre a ripercorre la dottrina spinoziana in modo completo, sottolineava la continuità tra l’Etica e il Trattato Teologico Politico. Proprio quest’ultima opera, l’unica pubblicata in vita dal filosofo di Amsterdam, costituisce a ben vedere la grande assente nelle analisi del periodo in esame. Ciò è accaduto per un duplice ordine di motivi. Da una parte la diffidenza nei confronti di una cultura, quella ebraica veterotestamentaria, troppo lontana dai riferimenti e dall’ambiente cristiano dell’epoca; dall’altra lo storicismo dei pensatori in esame, derivante dalla filosofia hegeliana, da cui scaturiva quella diffidenza nei confronti dell’incontrovertibile che ancora oggi costituisce la nota più evidente della filosofia contemporanea.

Riferimenti bibliografici
– Francesco Cerrato, Liberare la modernità. Spinoza in Italia tra Risorgimento e Unità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2016
– Giovanni Gentile, Spinoza e la Filosofia in Italia in Chronicon Spinozanum, vol. V, L’Aia, 1927, pp.104-110
– Bertrando Spaventa, Il concetto dell’opposizione e lo spinozismo (1867) in Opere a cura di Francesco Valagussa, Bompiani, Milano, 2008, ediz. Kindle, loc. 6064-6221

Giuseppe Rensi e l’irrazionalismo

L’articolo qui riproposto è già stato pubblicato nel numero (I)-2017 della rivista “Filosofia Italiana”, e si può trovare nel formato originale qui. Si ringrazia “Filosofia Italiana” per la gentile concessione.
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Ha certamente avuto un ruolo importante l’esperienza della Prima Guerra Mondiale – in particolar modola sua irrazionalità manifesta – nello spostare l’attenzione di Giuseppe Rensi dall’idealismo che lo aveva contraddistinto nella prima parte della sua vita, a un più audace scetticismo. Le ragioni dell’irrazionalismo, apparso per la prima volta nel 1933, è un testo che contiene la formulazione di scetticismo, quello rensiano, che sembra capace di sfuggire alla sua classica confutazione. Ciò poiché lo scetticismo di Rensi è sinonimo di irrazionalismo, nella misura in cui il razionalismo, invece, rappresenta l’ipertrofia filosofica nel voler dare ragione di ogni evento. L’idealismo razionalista, che si è poi trasformato, sotto varie vesti, in naturalismo, è quella forma filosofica (ma, potremmo benissimo dire, quella forma mentis) che tenta immancabilmente di costituire cattedrali logiche entro le quali “ingabbiare” ogni evento della natura, mettendo in relazione ogni presunta causa con ogni presunto effetto. Tale fine, inoltre, non è stato perseguito avvalendosi di un empirismo radicale, bensì lo sforzo e la pretesa dell’idealismo filosofico «sono sempre stati quelli di stabilire un concetto sommo […] e mostrare come da tale concetto sommo scaturisca, necessariamente, da sé, quasi a dire automaticamente […] tutto ciò che è (la natura e la storia) e tutto ciò che deve essere (la morale, l’ordinamento sociale)» (G. Rensi, Le ragioni dell’irrazionalismo, Orthotes, Napoli-Salerno, p. 75.).

La proposta filosofica di Rensi, dunque, non è solo una reazione allo sconvolgimento post-bellico, ma è un’analisi mirata di quel “platonismo sotto altre vesti” che è stata buona parte della storia della filosofia occidentale. Lo scetticismo positivista di cui Rensi si fa portavoce coincide con l’incapacità di dare interamente ragione dei fatti del mondo; quest’ultimo non si può spiegare, in primo luogo perché non tende a nessun fine prestabilito, in secondo luogo perché non è mosso da una Ragione che lo sostiene. Piuttosto noi possiamo descriverlo; le stesse leggi della natura non sono che descrizioni del funzionamento della natura, si affanna a dire Rensi.

Già questa prima precisazione è fondamentale per evitare che la filosofia dell’irrazionalismo rensiana venga pensata come un’ingenua controffensiva all’idealismo che, con Croce e Gentile (suoi bersagli polemici costanti), aveva trovato in Italia un’eco notevole. È altrettanto importante riportare ciò che Rensi scrive a proposito dei concetti di “razionale” e “irrazionale”: «non v’è nella realtà nessuna ragione. Anzi non v’è in essa né ragione, né non-ragione. Perché i concetti “razionale” e “irrazionale”, sono soltanto concetti della nostra mente, contributi recati unicamente da essa nel suo compimento dei fatti, ma che a questi non appartengono» (Ivi, p. 85.). Ecco perché, immediatamente, lo scetticismo rensiano sembra sfuggire dalla consueta confutazione; perché è infattibile dire ciò a cui il mondo tende, e con quale scopo si sta muovendo. La razionalità, quindi la comprensibilità, degli eventi all’interno di uno schema precostituito è quanto di più “costruito”, falso, nel pensiero filosofico, così come è un’illusione pensare che il mondo sia irrazionale – perché significherebbe, in ogni caso, consegnargli, platonicamente, un senso. Come dice Spinoza nella prefazione della quarta parte dell’Etica, «la perfezione e l’imperfezione sono dunque, in realtà, soltanto modi di pensare, cioè nozioni che siamo soliti formare perché confrontiamo gli uni agli altri individui della stessa specie o genere» (Spinoza, Etica, praef. IV, in: Spinoza, Opere, a cura di F. Mignini, Mondadori, Milano, p. 973.). Allo stesso modo ragiona Rensi, che del pensatore ebreo-olandese fu grande studioso.

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Ed infatti, il filosofo veronese sembra portare in seno alla sua riflessione lo stesso sentimento che si prova, scrive, di fronte alla filosofia di Spinoza che «può, legittimamente, tanto suscitare un vivissimo fascino, quanto eccitare un senso di grande avversione» (G. Rensi, Spinoza, a cura di R. Evangelista, Edizioni Immanenza, Napoli, p. 85.). La natura, nella sua inquadrabile forma sempre in movimento, dunque nella sua imprevedibilità, è «ciecamente crudele» (G. Rensi, Di Chi la colpa?, a cura di M. Fortunato, La scuola di Pitagora, p. 16.), è generatrice di dolore e mancanza: la filosofia dell’idealismo razionalista, allora, appare quasi come una cura, un tentativo di attenuare col pensiero ciò che è sotto gli occhi di tutti, ovvero che il Dolore è un nostro fratello, «aspro sale della vita, senza di cui questa sarebbe meno sapida e significante» (Ivi, p. 14 – «Oltre S. Francesco».). Di questo fardello l’unico vero colpevole è la natura, come fa notare il curatore dei due volumi (Cfr. Ivi, p. 23.), la speranza stessa per Rensi è vana e inutile, perché è una tentazione che non conduce a nessun risultato reale.

È alla luce di questa consapevolezza, umana troppo umana da sopportare, che Rensi può sentirsi veramente libero di pensare l’irrazionalità del reale. È invece la voglia di non aprire questa dolorosa pagina che spinge i filosofi, per lo più, a vivere e a procurare agli uomini quest’«ebbrezza universale» (G. Rensi, Le ragioni dell’irrazionalismo, cit., p. 95.) che stordisce e impedisce di vedere la faccia feroce di un Reale che assomiglia a quello di cui parlerà, anni dopo, Lacan. Al di sopra di questo spaventoso Reale, che non ha senso, nella misura in cui, ci ripetiamo, non ha un senso verso il quale dirigersi, il pensiero umano sembra stendere un velo di razionalità, una necessità logica. Questa, però, non è che il frutto di uno sguardo all’indietro che dà l’illusione che ciò che è accaduto non poteva che accadere in questo modo. Qualche anno prima questo dispositivo era stato “svelato” già da un altro filosofo, al quale Rensi si richiama in tono polemico, Henri Bergson, il quale aveva denominato tale meccanismo «movimento retrogrado del vero» (H. Bergson, Pensiero e movimento, trad. it. F. Sforza, Bompiani, Milano, pp. 3-21.). Questo, anche in Rensi, illumina, conferma, unisce dei puntini sulla carta. Ma il suo vero errore non sta nel dare una spiegazione necessaria del passato (perché tale è), bensì sta nel vedere in questa concatenazione un senso, una direzione, una Ragione a cui tutto sottostà. Da questo punto di vista la convergenza con Bergson è straordinaria, sebbene Rensi, probabilmente, non se ne avveda.

L’argomentazione del filosofo veronese, dunque, si inserisce all’interno di una vena polemica ancora maggiore, e di chiaro respiro politico, con tutta la filosofia della storia che pensa quest’ultima come un accadere di avvenimenti segnati da uno sviluppo, da un progresso. «Massimo degli idoli theatri e fori – scrive nel capitolo intitolato La negazione del progresso o dello “sviluppo” – dell’epoca moderna – ovvio inevitabile prodotto di questa credenza idealistica nella razionalità del mondo – è quello del progresso» (G. Rensi, Le ragioni dell’irrazionalismo, cit., p. 103.). Il progresso è il «centro vitale» (Ivi, p. 106.)  della filosofia dell’oggi, di Croce e Gentile. Il progredire, dice Rensi, il procedere innanzi non è necessariamente un progresso, un miglioramento. Il movimento, la storia, di per sé – nietzschianamente – sono al di là del bene e del male, ovvero di ogni categoria morale e di giudizio: «non già la produzione del nuovo o mutazione, solo perché è tale, è progresso e miglioramento; bensì proprio all’opposto» (Ivi, p. 107.). Credere (perché di credenza si tratta) che la Storia abbia un fine è un’illusione, appunto; la storia politica e sociale, così come quella dei costumi, è in realtà un costante ripetersi sotto altre forme di quello che sempre si è prodotto. L’umanità non migliora, non è a cavallo di un progresso, è piuttosto sempre la stessa: l’alternarsi delle stagioni è l’oscillazione delle vite politiche. La storia della filosofia non è immune da questo processo, e ad uno sguardo oramai disinteressato e intenzionato a carpire soltanto il “volto” del dolore che circoscrive le vite degli uomini (“Di Chi la colpa?”, quel “Chi” maiuscolo rivela molto), e del quale Leopardi aveva tratteggiato i sintomi e le possibili vie di fuga («Leopardi, cioè colui del quale è appunto Rensi il primo a dire finalmente che è il massimo pensatore italiano», scrive Fortunato nel suo saggio in appendice a Di Chi la colpa, cit., p. 26.), risulta essere «la costante ripetizione e il continuo alternarsi delle medesime posizioni del pensiero […] il sensismo e l’idealismo» (G. Rensi, Le ragioni dell’irrazionalismo, cit., p. 130.). Questo giudizio di Rensi sulla storia della filosofia, però, sembra disegnare una linea egemonica della filosofia, alla quale un’altra fa da avamposto polemico. Una vena quasi afona, incapace di farsi ascoltare, e della quale fanno certamente parte tutti quei filosofi più volte citati (o cripto-citati) dall’autore, come Seneca, Spinoza, Schopenhauer, Nietzsche, Leopardi.

Nell’ultima parte del testo si fa ancora più preponderante l’aspetto politico, le ricadute sul piano politico di un atteggiamento scettico nei confronti del mondo. Grazie ad esso, nella sua costante opposizione all’idealismo razionalista “platonico”, e siccome «nessuno è nella ragione e nella verità» (Ivi, p. 155.), si può felicemente tornare ad una conservazione sociale che sia dunque mantenimento dello status quo e della pace. Attraverso quello che appare a chi scrive un artificio retorico, a velate tinte reazionarie, Rensi sostiene che lo scetticismo «riconduce alla conservazione, giacché mostra che, essendo l’assurdo e l’“ingiustizia” alla radice delle cose e insiti in queste, costituendo l’essenza più profonda del reale, ogni rivolgimento radicale è inutile perché da quella ineliminabile radice ripullulano sempre e inevitabilmente» (Ivi, p. 195.). Al contrario, scrive, l’idealismo è la filosofia che conduce al sovversivismo e alla tirannide (Ivi, p. 191.), perché crede di possedere l’unica verità e conoscere il senso finale della storia.

Più gli argomenti si fanno fitti e tortuosi, più lo scetticismo rensiano comincia a mostrare le sue crepe, fino a sembrare ingenuo, spesso interessato soltanto a contrapporsi a quel monolite della storia del pensiero chiamato idealismo razionalista. È però al di là di questo immediato giudizio che si rintraccia il valore della voce di Rensi nel panorama della filosofia italiana. Concetti come irrazionalismo, scetticismo, negazione del progresso, conducono il lettore fuori strada, alimentando un sospetto d’inesperienza nell’autore. Egli, invece, sembra sperimentare un modo diverso di intendere la filosofia, quasi come a voler contribuire – contraddicendo se stesso, in parte – a rovesciare quell’egemonia culturale italiana incarnata da Croce e da Gentile, a rovesciare il platonismo, in senso più ampio, come scriverà poi Deleuze.

Non è casuale la citazione di Deleuze, come non lo è quella di Bergson: Rensi, a sua insaputa (e probabilmente anche a insaputa dei due filosofi francesi) si posiziona infatti all’interno di un processo filosofico che non si accontenta più della fissità dei concetti tradizionali, di acquisire certezze sulla base di schemi per lo più dicotomici come potenza-atto, causa-effetto, reale-attuale. Egli, piuttosto, è sconvolto e turbato dalla novità, dall’accrescimento indiscusso del mondo e della natura, dall’apertura verso ciò che non è conosciuto. Un’apertura che non si fa, però, condizionare da schemi prefissati, ma è sfacciata nella sua “arroganza”, e sembra condurci in uno “spazio neutro” dove ogni cosa non è né buona né cattiva, né personale né degli altri, un magma che si trova prima del pensiero e prima di ogni sua definizione e classificazione: in questo senso, allora, un magma davvero irrazionale.