Sull’impossibilità di ridurre l’oggetto in sé all’oggetto percepito (IV)

Per riprendere il discorso sulle posizioni ambigue, in ordine al tema dell’oggettività, assunte da numerosi scienziati che si occupano del tema della mente, partiamo da questo punto. Ci sembra quanto mai significativo che un altro insigne neurobiologo, Edelman, in una sua opera molto importante, dopo avere fornito un avvertimento al lettore: “Il lettore ricordi, quando sarà il caso, che comunque la triade essenziale [corpo, econicchia e cervello] è sempre nella mia mente” (Edelman, 2007, 22), scriva: “Un altro errore è contenuto nell’affermazione che le categorie sensoriali come il colore e varie altre percezioni esistono nel mondo indipendentemente dalla mente e dal linguaggio” (Ivi, 37). Per poi aggiungere, citando Quine e il suo progetto di “naturalizzare l’epistemologia”: “Il soggetto riceve “un certo input sperimentalmente controllato – certi modelli di irradiazione […] e a tempo opportuno quel soggetto libera come output una descrizione del mondo esterno tridimensionale e della sua storia. La relazione tra quel magro input e quell’output torrenziale è una relazione che siamo spinti a studiare […] per vedere come l’evidenza abbia rapporto con la teoria” (Ivi, 43-44; l’opera di W.V.O. Quine, cui Edelman si riferisce, è Epistemology Naturalized).
Orbene, ciò che facciamo fatica a comprendere è come si possano porre con tanta disinvoltura queste affermazioni, assolutamente condivisibili e pregnanti, senza avvedersi che, in tal modo, si mette radicalmente in discussione l’assunto su cui poggia l’intera impalcatura della scienza, almeno nella sua versione “realistica”: il mondo è l’insieme degli oggetti, intesi in senso “oggettivo”.
A nostro giudizio, infatti, chi si dispone a svolgere la ricerca scientifica si trova di fronte un bivio: aut con l’espressione “oggetto” intende ciò che si presenta nella comune esperienza, ma allora l’oggetto non può non risultare vincolato a tale esperienza e, dunque, al soggetto; aut intende il reale, l’oggettivo, ma allora dovrà precisare che cosa distingue l’oggettivo, l’oggetto in sé, dall’oggetto percepito, che abbiamo convenuto di definire “oggettuale”.
A noi sembra che l’unica cosa certa sia che essi non possono venire confusi né, tanto meno, identificati (il primo non può venire ridotto al secondo), anche se tale identificazione (riduzione) risulta compiuta sistematicamente nell’operare delle scienze empiriche e sperimentali. Anche se, cioè, il riduzionismo (Stella, 2020) si impone di continuo nella concezione dell’oggetto.
Del resto, la necessità di non intendere l’oggetto in forma ingenua (riduzionistica) viene evidenziata anche da parte di chi, come per esempio Dennett, tende a risolvere il mentale negli stati rappresentazionali computabili.
Egli, da un lato, fonda l’ontologia fisicalista di cui si fa portavoce sul concetto di “oggetto reale”. La stessa distinzione di “fenomenologia” e di “eterofenomenologia”, proposta nel quarto capitolo di una delle sue opere principali, Coscienza. Che cosa è?, si fonda sulla distinzione tra “approccio oggettivo” e “approccio soggettivo” alla fenomenologia nonché “tra realtà fisica e realtà non fisica degli oggetti fenomenologici” (Dennett, 2009, 112).
Se non che poi, da un altro lato, quando deve precisare la realtà intesa nella sua dimensione fisica e oggettiva, cioè “esterna” al soggetto, e dunque quando prende in esame la natura di tali oggetti, egli scrive: “Ingenuamente consideriamo quasi tutte le caratteristiche che rientrano nella nostra esperienza come proprietà oggettive delle cose esterne, osservate “direttamente” da noi, ma sin da bambini impariamo a riconoscere una categoria intermedia di oggetti – abbagli, luccichii, bagliori, macchie di colore – che sappiamo essere prodotti in qualche modo dall’interazione tra oggetti, la luce e il nostro apparato visivo (Ivi, 64).
La domanda che sorge, a questo punto, è la seguente: se “abbagli, luccichii, bagliori, macchie di colore” costituiscono “una categoria intermedia di oggetti”, allora esistono o no “oggetti fisici reali”? La risposta, per Dennett, è certamente affermativa, ma con una precisazione che rende tutto estremamente complicato. La precisazione è la seguente: “Quando immagini una mucca viola che vola non fai altro che prendere il viola che hai ottenuto vedendo un ciclamino e le ali che hai ottenuto vedendo un’aquila, e le unisci alla mucca che hai ottenuto vedendo una mucca. Non è del tutto giusto. Ciò che penetra negli occhi è una radiazione elettromagnetica e non può quindi essere usato come una tinta con la quale dipingere mucche immaginarie. Varie forme di energia fisica bombardano i nostri sensi, subendo nei punti di contatto una “trasduzione” in impulsi nervosi che viaggiano verso il cervello. Quello che passa dall’esterno all’interno non è niente altro che informazione e benché la ricezione dell’informazione possa provocare la creazione di qualche oggetto fenomenologico (per esprimersi nel modo più neutrale possibile), è difficile credere che l’informazione stessa – che è soltanto un’astrazione concretizzata in qualche mezzo fisico modulato – possa essere l’oggetto fenomenologico. Ci sono ancora buone ragioni, tuttavia, per riconoscere, con gli empiristi britannici, che in qualche maniera il mondo interno debba dipendere dalle fonti sensoriali (Ivi, 68-69).
Come si evince dalla conclusione del passo citato, Dennett è estremamente prudente in ordine all’impegno metafisico concernente il mondo degli oggetti, cioè il mondo esterno al soggetto e da esso indipendente. Tale indipendenza, anzi, è fortemente messa in discussione dalla prima parte del passo, nella quale si evidenzia che fuori dal soggetto, semmai, esistono non oggetti, ma forme di energia.
Come mai, ci chiediamo, tale consapevolezza e tale prudenza vengono tanto spesso dimenticate e abbandonate e, cosa ancor più singolare, ciò accade anche a coloro che pure più di altri tale consapevolezza riescono ad esprimere?
Come mai, si potrebbe anche dire, la concezione riduzionistica tende così facilmente a imporsi, nonostante siano gli stessi riduzionisti che ne sottolineano i limiti, anche se credono di farlo parlando d’altro e non misurandosi precisamente con le tesi riduzionistiche?
A noi pare che ciò non possa essere semplicemente casuale, visto che capita a molti studiosi e ricercatori di valore indiscusso e indiscutibile. Possibile che essi non si avvedano di far poggiare tutta la loro impalcatura teorica su un assunto, la “realtà oggettiva degli oggetti”, che loro stessi mettono in discussione, stante l’impossibilità di concepire l’oggetto a prescindere dal soggetto e dalla sua attività, recettivo-percettiva o elaborativa che sia?
In effetti, e questo è il punto cruciale che volevamo evidenziare, tutto ciò che viene detto dell’oggetto appartiene all’oggetto-percepito, e soltanto ad esso. Non potremo più dire, insomma, che gli stimoli provengono dall’oggetto, se con l’espressione “oggetto” intendiamo una realtà autonoma e indipendente dal soggetto (una realtà oggettiva, appunto).
Se, di contro, abbandoniamo questa idea “forte” di oggetto, che lo identifica con l’oggettivo, e ripieghiamo su un’idea “debole”, che lo risolve nell’oggettuale, allora il discorso è perfettamente legittimo, ma ha importanti conseguenze.
Che è come dire: le cellule, per esempio le cellule retiniche nel caso della visione, reagiscono agli stimoli e, in particolare, a configurazioni determinate degli stimoli. Tali configurazioni, però, si precisano solo in termini fisici di “forme di energia con determinate lunghezze d’onda” e non in termini di proprietà dell’oggetto, se con oggetto si intende una realtà che è indipendente dalla percezione stessa.
Allorché le cellule vengono eccitate da determinati stimoli, quelli specifici per ciascuna di esse, allora esse attivano processi che “producono” determinate proprietà, l’insieme delle quali va a configurare l’oggetto (che viene visto).
Le forme che attengono allo stimolo sono “forme energetiche”; le forme che attengono alla percezione sono “forme oggettuali”.
Ciò ha una rilevantissima conseguenza, che abbiamo in precedenza solo abbozzato: l’oggetto si costruisce nella interazione ambiente-soggetto, che configura un autentico sistema, e non ha più senso parlare di ricostruzione dell’oggetto stesso. Si comprende bene l’esigenza di attribuire all’oggetto la duplice valenza, che lo fa valere non solo come prodotto dell’interazione, ma anche come suo fondamento.
Se non che, ciò è precluso dal fatto che l’oggetto, inteso nella sua oggettività, non può venire ridotto all’oggetto che si presenta nel “campo percettivo” né è possibile assumere il primo come il fondamento del secondo, proprio perché, per un verso, l’oggetto in sé, non essendo determinabile, non è neppure assumibile; per l’altro, l’oggetto percepito si fonda sull’attività del soggetto innescata dagli stimoli e dalle informazioni.
Se, insomma, l’oggetto viene descritto come una “costruzione” cognitiva, e cioè vale come il risultato dell’attività del Sistema Nervoso Centrale o dei processi cognitivi che in esso si svolgono – alcuni studiosi parlano proprio di “prodotto cognitivo” –, allora non si potrà più dire che è anche la causa di questa attività. La causa sono gli stimoli, ossia determinate forme di energia, che costituiscono l’ambiente e che non possono venire confuse con la “forma-oggetto”.
In altri termini: l’oggetto è il risultato dell’interazione (organismo-ambiente), non il fondamento che possa venire pensato come emergente su di essa, cioè come “fuori relazione”, come assoluto. Chi lo pensa come assoluto lo assume anche come “causa” delle forme con cui il soggetto lo rappresenta. Ma come può essere assoluto ciò che è determinato? Come può valere come causa un “prodotto cognitivo”, cioè l’esito di un processo che si svolge nel soggetto?
Ci pare singolare che la scienza, la quale pure ha deciso di svincolarsi dall’idea metafisica di “assoluto”, finisca poi per recuperarla sotto mentite spoglie e non si avveda, da un lato, di richiedere un fondamento assoluto e, dall’altro, di ridurlo alle forme oggettuali ordinarie.

 

Riferimenti bibliografici

  • Dennett, Daniel Clement. 1991. Consciousness explained. New York-Boston-London: Little, Brown and Company (trad. it.: di L. Colasanti. 2009. Coscienza. Che cosa è? , Roma-Bari: Laterza)

  • Edelman, Gerald Maurice. 2006. Second Nature. Brain Science and Human Knowledge. New Haven and London: Yale University Press (trad. it. di S. Frediani. 2007. Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana. Milano: Raffaello Cortina)

  • Stella, Aldo. 2020. Sul riduzionismo. Dal riduzionismo teoretico al riduzionismo teorico. Canterano – Roma: Aracne

Photo by Mikel Parera on Unsplash

Università per Stranieri di Perugia e Università degli Studi di Perugia · Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Filosofia teoretica - Filosofia della mente - Scienze cognitive

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