Pubblichiamo la prima parte della lezione magistrale tenuta ieri dal nostro Maurizio Morini nella sala conferenze del Museo Nazionale Goethe di Weimar in Germania. La lezione, svoltasi in lingua tedesca con il titolo Ein Ich und Egoismus sind Eins: Schopenhauer über die Frage der individuelle Identität, è durata oltre cinquanta minuti ed ha inteso mettere a fuoco il tema della soggettività individuale nell’ambito di un programma dedicato ai rapporti tra Goethe e Schopenhauer. Il convegno, dal titolo Ob nicht Natur zuletzt sich doch ergründe…?, che si conclude oggi dopo tre giorni di lavori, è stato organizzato dalle Gesellschaft dedicate ai due grandi pensatori ed ha visto la partecipazione di un’ottantina di persone tra docenti, ricercatori e studiosi di vario genere. La seconda parte dell’intervento sarà pubblicata la prossima settimana.
Una pretesa da discutere: l’essenza dell’uomo come Volontà
Nella seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione pubblicata nel 1844, Schopenhauer sostiene di essere il primo filosofo (dal primo all’ultimo) ad affermare che l’essenza dell’uomo non è riposta nella coscienza conoscente ma nella volontà la quale sta alla conoscenza, come la sostanza all’accidente ((WII, cap.18, 223. Il testo utilizzato per le citazioni dell’opera principale è quello di A. Hübscher)). Un concetto simile viene poi espresso nel ribadire l’assoluta novità della sua dottrina in tema di identità personale, la quale si trova scissa in una sorta di doppia esistenza: quella del soggetto puro del conoscere e quella dell’individuo ((WII, cap.30, 424-425)). La questione che intendo porre è quella di verificare se la pretesa di Schopenhauer di costituire una novità circa l’essenza dell’individuo è fondata, mostrando in particolare quali sono i suoi debiti verso altri filosofi sul tema in oggetto. A questo fine, illustrerò i mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda edizione della sua opera principale, pubblicate in uno spazio di tempo di circa 25 anni. Nel corso di questo periodo vedremo infatti come intervengano dei mutamenti significativi non solo e non tanto nel merito, ma anche nell’attenzione dedicata al tema dell’identità personale. Schopenhauer utilizza i concetti di anima, coscienza, individuo, Io, soggetto conoscente fino a giungere al concetto di eternità della singola essenza personale: cercherò di mostrare come questa costellazione di termini viene utilizzata per discutere ed impostare in modo nuovo alcuni capisaldi metafisici della sua dottrina. Per ricostruire la genesi e lo sviluppo di tali concetti mi servirò anche dei Nachlass ((Ovvero i Frammenti postumi)) e dei cosiddetti Handexemplare, opera a stampa dell’edizione appena pubblicata costituita nella pagina a sinistra dal testo e nella pagina a destra da un foglio in bianco dove l’autore annotava correzioni, aggiunte o modifiche al testo utili per l’edizione successiva. Gli Handexemplare del Mondo come volontà e rappresentazione sono conservati a Ginevra, presso la biblioteca della Fondazione Martin Bodmer. L’unico studio su di essi è stato fatto da Otto Weiß che li ha trascritti e pubblicati nel 1919 in un’edizione critica dell’opera. L’importanza di questa fonte ((Così come ho mostrato nel mio libro Trascendentalismo e immanentismo nelle tre edizioni del Mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer, Eum, Macerata, 2017)) consiste principalmente nelle lunghe annotazioni poi non pubblicate che ci consentono di entrare in una sorta di laboratorio intellettuale che ci permette di avere un quadro esaustivo delle fonti utilizzate dall’autore nella composizione della sua opera principale.
L’anima tra sostanza e materia
Per Schopenhauer, la questione dell’identità personale e dell’errato contrasto tra anima e corpo è il vero e proprio tema della filosofia. Egli rifiuta l’antropologia classica che considera l’uomo come unione di anima e corpo in quanto concezione che rimanda allo stato infantile dell’umanità, quando essa era ancora alle prese con la scoperta dei primi concetti filosofici. L’anima è un residuo del passato ormai inservibile mentre nelle sue mani, scrive il giovane Schopenhauer in una annotazione del 1813, stava nascendo «una filosofia che combina in uno etica e metafisica, fino ad allora falsamente tenute separate, così come era stato fatto tra anima e corpo» ((HN I, p.55. Il testo utilizzato per i frammenti postumi è quello degli Handschriftliche Nachlaß editi in cinque volumi da A. Hübscher)).
Sebbene Schopenhauer riconosca il ruolo fondamentale avuto da Kant nella confutazione della psicologia razionale, egli tuttavia non manca di criticare il modo in cui il filosofo di Königsberg aveva condotto la sua argomentazione. Kant infatti «aveva fatto derivare il concetto di anima da quello di sostanza (…) applicando il principio di ragione, forma di ogni oggetto, a ciò che non è oggetto e precisamente al soggetto del conoscere e del volere» ((WI, 581)). Il problema però, osserva Schopenhauer, è che prima del concetto di sostanza viene quello di materia il quale è da assumere come vero concetto base. Negli anni successivi alla pubblicazione della prima edizione dell’opera principale, come dimostrano le annotazioni degli Handexemplare, c’è tutto un lavoro di riflessione su tali concetti nei quali Schopenhauer intravede l’esistenza di un circolo vizioso: il concetto di sostanza infatti non indica altro che il persistente il quale è, propriamente, la parte dello spazio nella sostanza (cioè nella materia). L’anima però non è qualcosa di spaziale, altrimenti sarebbe qualcosa di materiale. Da ciò segue che essa si troverebbe soltanto nel tempo ma in questo caso non sarebbe più il persistente e non sarebbe nemmeno pensabile. ((Ha 650,10)).
Riguardo al concetto di materia, fulcro di tutta l’argomentazione, Schopenhauer nota che esso è identico a quello di causalità, il suo essere è il suo operare, cioè avere effetti. Ma se questo è vero allora essa non può generarsi, né divenire e nemmeno essere pensata ((Ha 608,30)). Schopenhauer ritorna cioè ad un concetto classico dell’antichità filosofica, elaborato in particolare da Platone e poi da Aristotele, secondo cui la materia è un’attività fisica e metafisica allo stesso tempo. La materia, in quanto tale, non è oggetto di sensibilità o di esperienza sensibile: ciò che noi tocchiamo o vediamo sono soltanto le determinazioni della materia, cioè i corpi. La materia intesa come principio assoluto di passività è insensibile e non può essere oggetto di percezione ma solo di intellezione. La χορα di Platone era un principio indeterminato che in sé non aveva nessuna forma in quanto altrimenti non sarebbe più stata un ricettivo assoluto e universale che si manifesta a seconda della forma che riceve. L’obiezione che era stata fatta a Platone era la seguente: come è possibile che questa χορα sia oggetto della nostra definizione e della nostra conoscenza? Ecco allora il celebre passaggio del Timeo secondo cui Platone afferma che quello a cui ci costringe il concetto di materia è un concetto ibrido che ci viene imposto dalla ragione ma che si sottrae alla nostra conoscenza.
Un ragionamento simile è qui sviluppato da Schopenhauer il quale scrive che non è possibile pensare o derivare la materia da una causa e nemmeno soltanto pensarla in quanto essa non è in relazione a nulla: il suo essere è incondizionato. Per questo motivo possiamo anche ignorare di rappresentarci il suo essere in quanto il suo essere è l’essere per eccellenza dalla cui comprensione scaturisce la spiegazione. Non una dimostrazione quindi ma un’esposizione. La materia è un ente sui generis e pietra angolare del mondo come volontà e rappresentazione: essa non è in sé e per sé oggetto di intuizione ma solo di riflessione, secondo quanto avevano compreso Plotino e Bruno ((Ha 614,30)). Il rimando a tali riferimenti ci fa comprendere il quadro speculativo di Schopenhauer e ci permette di capire in che modo egli corregge l’ambiguità di Kant. Il tempo è riempito, cioè è percepibile, attraverso la materia; la materia è interamente causalità; la causalità a sua volta è la forma dell’intelletto che sola permette l’esperienza. Questa catena (tempo-materia-causalità-intelletto) è la più completa, corretta e semplificata esposizione della dottrina kantiana che Schopenhauer rivendica di aver portato a compimento ((Ha, 627,8)). Tutte queste annotazioni (ne ho menzionate quelle più importanti) si condensano in maniera più concisa nella seconda edizione del Mondo dove troviamo l’osservazione che il concetto madre è quello di materia la quale si pone come sostanza rispetto agli accidenti rifiutando la distinzione kantiana tra soggetto e predicato: essa è ciò che rimane le qualità di ogni specie ((WI, 580)).
L’individuo, ovvero la natura all’apice della conoscenza
Al concetto di individuo è propriamente dedicata la quarta parte dell’opera principale. L’individuo è solo fenomeno ed esiste solo per la coscienza irretita dal principium individuationis ((WI, 324)) il quale costituisce il vero e proprio velo di Maya. Nonostante ciò l’individuo, cioè l’uomo, è la natura nel più alto grado di conoscenza ed il suo essere è duplice: da una parte conoscenza, dall’altra volontà oggettivata ((WI, 327-329)). L’individuo infatti è tale per il rapporto che il soggetto conoscente ha con il proprio corpo, rapporto esclusivo grazie al quale l’individuo si percepisce come autocoscienza ad esclusione di tutti gli altri visti come rappresentazioni. A questo punto Schopenhauer solleva il problema del rapporto con la coscienza dell’altro, che tuttavia si affretta subito a ripudiare: la coscienza che esclude l’altra è definita come egoismo teoretico, genere di sofisma scettico equiparato ad una piccola fortezza di frontiera, inespugnabile quanto irrilevante ((WI, 125-126)). In realtà il problema sarà uno di quelli sui quali la filosofia del novecento concentrerà maggiormente la sua attenzione, ovvero in che modo evitare la tendenza naturale del soggetto al solipsismo.
A fronte di questa mancata discussione, emerge però l’idea secondo cui ognuno vive con la coscienza della propria eternità ((WI, 332-333)). Anche se nella vita quotidiana questa certezza viene messa in disparte, ciò che permette all’uomo di sottrarsi al principium individuationis è l’idea dell’eterna giustizia: essa vede infatti gli orrori del principio di ragione e comprende che alla cosa in sé non spettano le forme del fenomeno ((WI, 414-421. Per un’analisi di questo tema, vedi v. Barbera, Il Mondo come volontà e rappresentazione, Introduzione alla lettura, pp.107-108)). Nell’intimo della propria coscienza ogni persona, nonostante sia separata l’una dall’altra, sente che le cose sono messe in modo diverso. Che natura ha questo “sentire”? Schopenhauer fornisce l’indicazione secondo cui «ciò che ognuno nel suo intimo vuole, ciò deve egli essere, e ciò che ognuno è, ciò egli appunto vuole» ((WI, 433)). Si tratta di una sorta di identità di certezza e volontà che si produce nel momento in cui il principium individuationis viene trapassato: a quel punto, osserva Schopenhauer in una nota del quaderno Spicilegia poi inserita nell’opera principale ((WII, cap.38, 695-696)) si scopre che il vero sé è la volontà di vivere. Da notare soltanto che il quadro in cui Schopenhauer assume questa convinzione è quello della contrapposizione tra vittima e carnefice, un contesto tragico che gli viene offerto dall’Ifigenia in Tauride di Goethe.
La coscienza, il punto più oscuro della filosofia
Ma è nella seconda edizione del Mondo che Schopenhauer sviluppa in maniera organica la sua dottrina dell’individualità. Nel capitolo 15 egli analizza il concetto di coscienza, anche definito in letteratura il primo nucleo di cristallizzazione del sistema di Schopenhauer. Questo nucleo si scinde in una coscienza empirica segnata dal mondo della rappresentazione e una coscienza migliore, che va al di là di ogni esperienza e della stessa ragione ((vedi HNI, 23, 48, 103,187)). Nel capitolo 19 Schopenhauer esordisce affermando che la volontà costituisce l’essenza vera e indistruttibile dell’uomo. Nei dodici argomenti che esemplificano e mostrano tale tesi, i primi due sono dedicati alla coscienza dove l’Io appartiene sia alla volontà che all’intelletto, condizione e condizionato dal fenomeno. In questo capitolo vengono inserite le annotazioni di Brieftasche una delle quali frutto del suo secondo viaggio in Italia. Schopenhauer inizia con il pensiero secondo cui «l’Io e l’Egoismo sono la stessa cosa», ovvero la volontà in sé, sebbene già individualizzata, non è ancora un Io il quale nasce soltanto con la conoscenza; per questo l’Io nasce dall’unione di volontà e conoscenza, nel modo in cui la prima domina e penetra la seconda ((HN III, 167-168)). Si tratta per Schopenhauer del punto più difficile ed oscuro della filosofia: per questo motivo egli si affida volentieri a delle metafore tratte spesso dal mondo della scienza. Ecco allora quella relativa all’Io come addensarsi della cristallizzazione del sale; o ancora la metafora della pianta con i poli della radice e della corona. In tutti i casi rimane che l’Io è un punto di indifferenza, tale cioè da poter assumere tutte le determinazioni possibili in relazione alla condizioni a cui è soggetto. Il decimo argomento contiene la risposta esplicita alla domanda relativa a cosa consiste l’identità della persona. Essa non è basata sul corpo né sulla coscienza bensì sulla volontà e rimane intatta nel corso degli anni. Da notare come Schopenhauer aggiungerà due varianti nella terza edizione per dimostrare che il nucleo della nostra persona non è nel tempo ((WII, 269)).
Nel capitolo 20 Schopenhauer raccoglie i risultati delle ricerche e delle sue letture in merito alla moderna scienza naturale. Si tratta di un capitolo a carattere marcatamente fisiologico integrato ed ampliato nella terza edizione proprio in riferimento al tema dell’identità personale con una variante di ben oltre cinque pagine. Il problema è quello di stabilire perché soltanto nel corpo umano e in quello animale la volontà, presente in tutto il corpo di cui è oggettivazione, si manifesta come cosciente. La soluzione a questo problema è che la coscienza è da considerarsi come risposta alla complessità dei bisogni che investono un individuo, risposta da cui nasce l’intelletto che ha il compito di fungere da loro intermediario. Il cervello cioè funziona come deposito che converte gli stimoli in scopi: ciò porta alla nascita dell’intelletto il quale, concepito come elaboratore di impressioni, si concentra in un Io teoretico, punto di unificazione che corrisponde all’unità sintetica dell’appercezione kantiana ((WII, 283-286)). Si tratta di un’integrazione molto interessante perché segnala un’oscillazione della sua dottrina. La variante del testo in esame, nella quale Schopenhauer aveva paragonato l’unità individuale della persona ad un filo nel quale si susseguono le perle corrispondenti alle percezioni singole ((«quell’unità individuale, quindi, è, per così dire, il filo su cui le percezioni successive, come perle su una corda, si allineano e sono quindi tenute insieme e unite in un unico filo»)), era stata cancellata dalla prima edizione ((WI 535,29-536,4)). Successivamente quel testo viene letteralmente ripreso dal cestino e rimesso nell’opera principale (sebbene trasferito dall’appendice al quarto libro del Mondo).