Nell’ultimo saggio siamo pervenuti a questo punto teoreticamente decisivo: intendere la relazione come costrutto mono-diadico significa riproporre il circolo vizioso, il diallele. Cerchiamo di comprendere il perché e di indicare la ragione per la quale la relazione risulta intelligibile solo se intesa come atto.
Ordinariamente, quando si parla di relazione si intende un costrutto formato da due termini estremi (A e B) e un nesso (r) che li vincola. È precisamente per questa ragione che si è soliti parlare di costrutto mono-diadico.
Il costrutto relazionale, ancorché svolga una funzione insostituibile, si è rivelato un costrutto problematico a cominciare con Platone, che nel Parmenide tratta il tema. Se, infatti, la relazione è pensata come intercorrente tra A e B, allora essa si propone come un nuovo termine: il termine medio.
Quest’ultimo, da un certo punto di vista unisce A e B; ma, da un altro punto di vista, divide A da B. Se lo indichiamo con la lettera C, allora si vengono a configurare due nuove relazioni: quella intercorrente tra A e C e quella intercorrente tra C e B, così che dalle due nuove relazioni originano due nuovi medi, e così via all’infinito.
Non solo. La relazione intesa come costrutto mono-diadico, da un lato, postula l’identità dei relati (A e B) e la postula secondo la forma in cui l’identità viene ordinariamente concepita e cioè tale che tanto A quanto B risultano ciascuno identico con sé stesso e per questo differente da ogni altro.
Dall’altro, richiede che l’identità dell’uno non sia chiusa, cioè autonoma e autosufficiente, ma sia aperta all’identità dell’altro, onde giustificare il loro vincolo.
Ma è bene il vincolo che non si concilia con l’autonomia delle identità, nel senso che, se A è A perché è autonomo, nel momento in cui entra in relazione con B perde la sua autonomia e, dunque, cessa di essere A. Se non venisse meno come A, nessuna relazione si sarebbe instaurata.
La relazione, pertanto, richiede i termini come se fossero due identità distinte e autonome (A non è B), ma, insieme e contraddittoriamente, come se l’un termine si fondasse sull’altro (A c’è perché c’è B; A non può stare senza B).
Che è come dire: il costrutto mono-diadico concilia l’indipendenza dei termini con la loro reciproca dipendenza e, cioè, concilia ciò che è in sé inconciliabile.
Per uscire dall’antilogia, la relazione deve venire pensata come intrinseca alla determinazione e non come disponentesi tra le determinazioni. Riconoscere il valore intrinseco della relazione comporta cogliere la determinazione nel suo incessante trasformarsi, che impedisce la si assuma come un immediato per intenderla, invece, come mediazione in atto.
Reciprocamente, la relazione cessa di valere come un’ipostasi, un quid medium, e viene a coincidere con quell’atto del riferirsi, che costituisce l’essenza del determinato, nel senso che ogni determinato si pone nella propria identità (A è A) solo perché si riferisce alla differenza (perché non è non-A) (per un approfondimento del concetto di identità e del concetto di relazione, si rinvia a Stella, 2014).
Se la relazione viene intesa come atto, allora si supera la visione sostanzialistica dell’esperienza e si approda veramente ad una sua visione dinamica e vitale.
Ogni determinazione viene colta andando oltre la sua ipostatizzazione e cioè il suo valere come una “cosa”. Proprio in quanto de-terminata, essa è posta dal limite, che la vincola inscindibilmente alla differenza, cioè ad ogni altra cosa.
In tal modo, ogni cosa, che la percezione sensibile presenta come autonoma, si rivela, in virtù della considerazione concettuale, un segno, che vive nel suo rinviare ad ogni altra determinazione (segno), così che il sistema (l’universo dell’esperienza) non è tanto l’insieme statico delle determinazioni (cose), ma quell’insieme di segni che si rinviano reciprocamente e che, per questa ragione, costituiscono un linguaggio.
Tale linguaggio può venire interpretato cogliendolo non soltanto per il riferirsi orizzontale di ciascun segno ad ogni altro, ma anche per il riferirsi verticale di ciascuno di essi a quel significato che costituisce il senso stesso del sistema (esperienza), e cioè che vale come il suo fondamento.
Orbene, tale fondamento non può non venire inteso come quell’unità che va oltre l’insieme dei segni, proprio per la ragione che ne indica il senso ultimo: ogni segno è un atto, cioè è il suo continuo trascendersi, perché intende indicare quell’unico significato in cui ciascun segno trova il suo effettivo compimento.
Il fondamento dell’universo delle determinazioni, insomma, non può essere una determinazione esso stesso, ma deve valere come ciò che trascende ogni determinazione, come quell’unità assoluta che non può venire determinata proprio perché assoluta, ma che costituisce la condizione incondizionata che fonda ogni condizionato, dunque ogni determinazione.
Usando altre parole, il fondamento dell’universo dei segni si specifica come quell’unico significato al quale ogni segno effettivamente rinvia, perché solo in esso ciascuno segno trova il suo senso autentico.
Il riferimento a significati determinati, infatti, costituisce solo una significazione apparente, perché ogni significato determinato, proprio in quanto esso stesso determinato, non può non porsi in forza del riferimento intrinseco ad altro da sé, cioè in forza del riferimento a ciò che lo determina come quel significato, diverso da ogni altro, sì che anche esso è, a rigore, non altro che un segno (Stella, 1995).
In questa prospettiva – e solo in questa prospettiva, che si fonda sull’autentica unità – è possibile superare l’unilateralità del modello riduzionistico e del modello sistemico e così si evita di cadere tanto nel riduzionismo materialistico, che è poi sostanzialistico, quanto nel riduzionismo funzionalistico, che è poi correlativistico.
E l’integrazione dei due modelli viene pensata oltre la loro semplice giustapposizione, nell’unità che trascende la loro unilaterale determinatezza e che costituisce quel significato che il linguaggio dell’esperienza intende effettivamente indicare, perché solo esso è veramente.
Se le cose si rivelano segni e se ogni segno è il suo essere riferendosi, solo l’unità assoluta vale come ciò cui i segni rinviano e come ciò in cui ogni distinzione/dualità viene oltrepassata, inclusa la contrapposizione dei modelli che abbiamo trattato in questa nostra ricerca.
Ciascun modello coglie il tutto parzialmente e non è sufficiente mettere insieme le visioni parziali per avere la visione totale. Il tutto, infatti, coincide con l’intero, dunque non può venire ridotto ad una sintesi di parti: l’“intero” non è un “composto”.
Precisamente per questa ragione il fine della ricerca è quell’unità che ne costituisce anche il fondamento e che evoca e orienta la ricerca stessa.
Se, socraticamente, riconosciamo di non possedere la verità e per questo la ricerchiamo incessantemente, ciò dimostra che la verità ci ha illuminato e ci ha fatto cogliere il limite di ogni verità parziale proprio per il suo valere come verità totale, assoluta verità.
Non possediamo la verità, ma siamo posseduti e illuminati da essa.
Riferimenti bibliografici
- Stella, Aldo. 2014. Il concetto di relazione. Costrutto o atto?, in «Giornale di Metafisica», NS, XXXVI, I, pp. 259-273.
- Stella, Aldo. 1995. La relazione e il valore. Milano: Guerini Scientifica.
Articoli di questa serie già pubblicati
- Riduzionismo vs Complessità (I) (12 marzo 2023).
- Le proprietà emergenti dei sistemi complessi (II) (9 aprile 2023).
- Il monismo e la relazione negata (III) (14 maggio 2023).
- Il modello sistemico-relazionale (IV) (11 giugno 2023).
- La relazione come atto per uscire dall’ontologismo (V) (9 luglio 2023).