La luce del proiettore

L’immagine-tempo
«
Lo schermo stesso è la membrana cerebrale in cui si affrontano immediatamente, direttamente, il passato e il futuro, l’interno e l’esterno senza distanza assegnabile, indipendentemente da qualsiasi punto».

Nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad una trasformazione del cinema in tempo e pensiero. L’immagine cinematografica ha reso atto ciò che nelle altre forme d’arte era solo potenza. Fondamentale è la questione del tempo. È infatti opinione comune che l’immagine cinematografica sia al presente, ma forse questa è l’evidenza più falsa di tutte. Non esiste infatti un tempo presente che non sia ossessionato dal passato e dal futuro, da un passato che è presente passato e un futuro che è un presente da venire. È vero che la successione dei fotogrammi descrive il presente, ma ogni presente coesiste con un passato e con un futuro senza i quali il presente non sarebbe ciò che è. Solo il cinema può cogliere questo passato e questo futuro che coesistono con il presente, metterli insieme e creare qualcosa di unico. Filmare ciò che è prima e ciò che dopo. «Questo è il cinema», afferma Godard in una intervista al quotidiano Le monde del 1982, «il presente non esiste mai, salvo che nei brutti film». 

Il cinema-movimento, dichiara Gilles Deleuze nel secondo libro dedicato all’arte cinematografica, si ferma a dei cliché senso-motori. Infatti, noi non percepiamo le immagini nella loro interezza, ma sempre una parte e quella parte si identifica con ciò che a noi interessa percepire a partire dalle nostre convinzioni ideologiche, dalle nostre esigenze psicologiche e da tanti altri fattori. L’immagine-movimento, che aveva caratterizzato il cinema dalla sua nascita almeno fino alla metà del ‘900, può essere però una parte del lavoro che il cinema può fare. Bisogna insomma che il cinema si svincoli dai legami senso-motori, che cessi di essere la semplice riproduzione dell’azione per trasformarsi in immagine-ottica, sonora e tattile pura. Trasformarsi al di là di ogni possibile cliché in tempo.

«È il montaggio stesso a costituire il tutto e a darci in tal modo l’immagine del tempo. Esso è l’atto principale del cinema» (Deleuze 2017, 42). Il tempo, infatti, è una rappresentazione indiretta poiché deriva dal montaggio che mette insieme le diverse immagini-movimento, ma non è la semplice somma dei vari momenti così come il tempo non è la semplice somma di presenti. Spesso nel cinema moderno accade che il montaggio sia già contenuto nell’immagine stessa, trapassando la profondità dell’immagine e sfondando il piano dell’immagine stessa. Secondo Deleuze infatti «l’immagine-movimento può essere perfetta, ma resta sempre amorfa, indifferente e statica se non è penetrata da iniezioni di tempo che immettono in lei il montaggio e alternano il movimento» (Deleuze 2017, 51). Il cinema insomma non presenta solo delle immagini, ma costruisce intorno a loro un mondo. Il tempo, infatti, deve continuamente sdoppiarsi in presente e passato. Deve sdoppiare il presente in due direzioni, slanciandosi verso l’avvenire e ricadendo indietro. Il tempo si scinde mentre si pone e si svolge. È un tempo puro, trascendentale, in senso kantiano. Kant definiva il tempo come forma di interiorità, nel senso che siamo interni al tempo, abitiamo il tempo, ci muoviamo al suo interno. 

Il compito dell’illusione cinematografica non può allora che essere quella di restituirci delle ragioni per credere in questo mondo, rompendo il legame tra uomo e mondo: in questo un ruolo fondamentale lo può avere solo un ritorno concreto al corpo, alla carne del mondo. Il monologo interiore che diventa struttura teorematica, materia segnaletica del nuovo cinema attraverso il corpo. Il corpo, infatti, non è mai al presente, è espressione del prima e del dopo, li contiene nella stanchezza e nella disperazione, nella cicatrice e nella sua costruzione. Le immagini così diventano l’oggetto di una perpetua riorganizzazione in cui una nuova immagine può nascere rizomaticamente da un qualunque punto dell’immagine precedente. La nuova immagine-tempo dettata dal cinema implica il capovolgimento delle condizioni. Non è più il tempo a seguire il movimento, ma il movimento a subordinarsi al tempo. «Perché nasca l’immagine-tempo occorre che l’immagine attuale entri in rapporto con la propria immagine virtuale in quanto tale, occorre che la pura descrizione di partenza si sdoppi, si ripeta, si riprenda, si biforchi, si contraddica. Occorre che si costituisca un’immagine a due facce, reciproca, insieme attuale e virtuale» (Deleuze 2017, 320). Si arriva così ad una immagine sonora, un’inquadratura musicale che restituisca tutto il tempo in modo totale e completo.

Hitchcock Vertigo
A segnare questo passaggio dall’immagine-movimento all’immagine-tempo è tra gli altri Alfred Hitchcock in due film particolarmente conosciuti come Vertigo e Psycho. Scrive François Truffaut nell’ultimo capitolo del libro intervista ad Alfred Hitchcock:

«Quando è stato inventato, il cinema è servito innanzitutto a registrare la vita; era allora un’estensione della fotografia. È diventato un’arte quando ha smesso di essere documentario. Si è capito che non si trattava di riprodurre la vita, ma di renderla più intensa. I cineasti del muto hanno inventato tutto e quelli che non avevano capacità di inventiva hanno dovuto rinunciare. Alfred Hitchcock ha deplorato più volte il passo indietro dovuto all’introduzione del sonoro; […] Hitchcock faceva parte di un’altra famiglia, quella di Chaplin, Stroheim, Lubitsch. Alla pari di essi, non si è accontentato di praticare un’arte, ma si è impegnato ad approfondirla, a coglierne le leggi, più strette di quelle che governano il romanzo. Hitchcock non solo ha reso più intensa la vita, ha reso più intenso il cinema» (Truffaut 2017, 293). 

Questa intensità è possibile coglierla ad esempio nelle scene centrali di Vertigo, quando, dopo la morte di Madeleine, James Stewart incontra Judy uguale in tutto e per tutto alla prima e cerca di trasformarla in quello che lui vuole vedere e lei arrendevolmente accetta di spogliarsi del passato vestendosi di nuovi panni. Sono questi i momenti in cui le due parti della pellicola si uniscono in un vertiginoso intreccio temporale. Il prima e il dopo diventano un’unica dimensione in cui tutto acquista un senso diverso. Judy che diventa Madeleine o forse lo è sempre stata. Stewart, convinto di rivivere il passato, sta scrivendo un futuro inimmaginabile. Anche in Psycho il prima e il dopo acquisiscono un senso temporale assoluto. Pure in questo caso le due parti della pellicola si uniscono insieme nella parte centrale dando significazione al prima e al dopo, creando un unicum temporale. Da storia di una rapina, il film si trasforma nella storia di un serial killer, dando però senso al passato e al presente e trasformandosi rapidamente in un futuro rizomatico, dove qualcosa di nuovo e inaspettato può nascere in qualsiasi momento. Anche la rapina però acquista un nuovo senso che porta a sviluppi imprevedibili. Tutto va guardato nel suo insieme. Non c’è presente, non passato, non futuro: c’è un tutto. La scena della doccia in questo è emblematica e l’occhio della camera puntato sull’occhio di Vivian Leigh ci fa scorgere questa unitarietà della dimensione temporale. In quell’occhio aperto che non vede più, il tempo si fa concretamente reale figlio di tutte le condizioni che lo hanno portato fin lì.

Le strade perdute di David
Il tempo come significazione dell’immagine, il film che diventa espressione del divenire e della sua irreversibilità è rappresentato sì da Vertigo di Alfred Hitchcock, ma anche da un regista americano che fa del tempo la struttura stessa delle sue opere. David Lynch spesso riesce a creare questa unità assoluta che riesce ad andare al di là della semplice somma dei fotogrammi e delle immagini pure e semplici, giungendo ad una dimensione temporale totale. Un esempio in questo senso sono Lost Highway e Mulholland Drive. Non è un caso che i due film abbiano nel titolo la strada, il senso del percorrere un tratto di strada. Il tempo come immagine può essere una via, un percorso irreversibile in cui, come dice Deleuze il presente non è solo presente ma un darsi che si scinde e in questa scissione si pone e dà. In particolare, Lost Highway, pellicola del 1997 con Patricia Arquette e Bill Pullman, racconta questo flusso di eventi che ti portano a considerare inevitabilmente anche ciò che avviene prima del racconto, senza mai esplicitarlo. La storia raccontata è inquietante e sconvolgente. Fred e Renée trovano, fuori dalla loro abitazione, una serie di videocassette che li riprendono di notte in casa mentre dormono. In una di queste Fred è ripreso vicino al cadavere smembrato della moglie. La polizia lo arresta e mentre è detenuto inizia a soffrire di strane crisi. Al termine dell’ultima crisi la polizia trova in cella al posto di Fred, un certo Pete, che non ha fatto niente e quindi viene scarcerato. Una volta rilasciato Pete si innamora di una donna che è uguale a Renée, Alice, iniziano a vedersi segretamente e progettano di scappare insieme dopo aver compiuto una rapina. Durante la fuga si fermano nel deserto, passano una notte di passione e al suo risveglio Pete non c’è più, ma è tornato Fred che a questo punto cerca vendetta, soprattutto perché scopre che Alice non solo somiglia a Renée ma è proprio lei. Compiuta la sua vendetta il film termina con Fred inseguito lungo un’autostrada da diverse auto della polizia e mentre si trova in macchina ha un’altra crisi, del tutto uguale a quella vissuta in prigione, e inizia a muoversi come colto da convulsioni epilettiche e, mentre il suo volto inizia a deformarsi, la pellicola termina, proprio come era iniziato, con la strada illuminata dai fari della macchina che avanza a tutta velocità nella notte. 

Qui non solo il tempo si assolutizza ma l’immagine stessa assume una dimensione che necessita di tutte le nostre capacità. Dimensione sonora e corporale, mentale e concettuale. Lost Highway mette alla prova le nostre certezze razionali e ciò è proprio quel che deve fare il cinema che non sia solo puro intrattenimento. Un esempio su tutti sono due scene: una all’inizio e una alla fine della pellicola ma collegate in maniera indelebile. In una delle scene iniziali, Fred è in casa, sente suonare al citofono, va a rispondere, chiede chi è e dall’altro capo sente dire “Dick Laurent è morto”. Non capisce, quello che ha sentito non ha senso, esce fuori ma non c’è nessuno. In una delle scene finali, Fred dopo aver avuto la sua vendetta, torna nella sua abitazione, suona il campanello e, quando da dentro rispondono, dice al citofono “Dick Laurent è morto” e poi scappa perché inseguito dalla polizia. 

Il cinema deve essere allora il tentativo di scardinare tutte le dimensioni sulle quali abbiamo costruito le nostre sicurezze e le nostre possibilità di sopravvivere e mostrarci una dimensione nuova, innalzandoci al di là della nostra condizione di stanca ripetitività.

Riferimenti bibliografici
Deleuze, Gilles. 2017. L’immagine-tempo, Cinema 2. Torino: Einaudi.
Truffaut, François. 1997.  Il cinema secondo Hitchcock. Milano: Net.

Articoli di questa serie già pubblicati

Foto di Jake Hills su Unsplash

Insegnante di Filosofia e storia nei licei umbri, è autore del libro "L'amore, la violenza e la filosofia", pubblicato nel 2022 da Arcana edizioni. Il suo interesse è concentrato soprattutto sul rapporto tra i mezzi d'intrattenimento e la filosofia.

Lascia un commento

*