Riprendiamo l’analisi con la seguente precisazione: per la presente ricerca, non risulta essenziale considerare l’aspetto per il quale il riduzionismo si è spesso accompagnato al determinismo.
Ci interessa sottolineare, però, che in taluni casi il riduzionismo si è saldato con una forma di naturalismo fisicalistico sempre più radicale, così che quella concezione che è stata definita “monismo materialista” può venire oggi considerata la forma più estrema di riduzionismo.
In tale prospettiva, viene bandita ogni forma di dualismo, perché ritenuta contraria alla concezione scientifica del mondo. Il dualismo, questo è il cuore della questione, viene considerato con sospetto in ogni sua forma, proprio perché contrasta con la riduzione dell’oggetto di indagine alla realtà fisica, considerata appunto l’unica realtà veramente esistente.
Il tema della contrapposizione tra monismo e dualismo è intrinsecamente vincolato al tema del riduzionismo e ora cercheremo di precisarne la ragione.
In quell’ambito di ricerca, che viene definito “Filosofia della mente”, si è andata affermando la concezione monista, che rifiuta proprio quella distinzione di mente e corpo di cui, nello scorso saggio, abbiamo spiegato, invece, la genesi.
Infatti, pensare la mente come una sostanza, una sostanza che pensa, per dirla con Cartesio, e contrapporla alla sostanza corporea, cioè alla materia, viene considerato dalla maggioranza dei ricercatori un errore che non può più essere accettato, come esplicitamente afferma Antonio Damasio (1994), e l’errore consiste nell’attribuire realtà alla mente, cioè a qualcosa che non è fisico, dunque materiale.
Daniel C. Dennett (1991) esprime in forma esemplare la concezione monista, usando queste parole: “Fin dall’attacco ormai classico di Gilbert Ryle (1949) a ciò che egli chiamava ‘il dogma cartesiano dello spettro nella macchina’, i dualisti sono sulla difensiva. La posizione dominante, variamente espressa e sostenuta, è il materialismo: esiste un solo tipo di sostanza, e cioè la materia – la sostanza fisica di cui si occupano la fisica, la chimica e la fisiologia – e la mente è in un certo senso niente altro che un fenomeno fisico. In breve la mente è il cervello” (trad. it., p. 45).
L’aspetto che ci sembra interessante considerare è questo: se Ryle rifiuta il principio della soggettività, Dennett fa proprio questo rifiuto, perché l’io cosciente gli sembra un concetto del tutto estraneo ad una concezione scientifica del mondo.
Muovendosi all’interno di quest’ultima, il complesso deve venire ricondotto-ridotto al semplice, in modo tale che l’intelligenza deve risultare il prodotto di un insieme di operazioni elementari inintelligenti e la coscienza il risultato di una molteplicità, per altro estremamente complessa, di processi inconsci.
Così procede Dennett nella sua argomentazione: “Secondo i materialisti, possiamo […] dare una spiegazione di ogni fenomeno mentale usando gli stessi principi fisici, le stesse leggi e gli stessi materiali grezzi che ci bastano per spiegare la radioattività, la deriva dei continenti, la fotosintesi, la riproduzione, la nutrizione e la crescita” (Ibidem).
Il contesto in cui Dennett ritiene di dover porre lo studio della mente è quello di ogni altra scienza naturale, e cioè mantenendo fermo l’assunto del monismo ontologico, cui non può non far seguito quello del monismo metodologico.
Come giustificare l’assunto? In questo modo: “Benché siano delle entità o sostanze distinte, la mente e il cervello devono tuttavia interagire […]. Poiché non abbiamo (per ora) la minima idea delle proprietà della sostanza mentale, non possiamo neanche immaginare (per ora) come possa essere influenzata dai processi fisici che provengono in qualche modo dal cervello, quindi ignoriamo per il momento questi segnali ascendenti e concentriamoci su quelli di ritorno, quelli che vanno dalla mente al cervello. Questi, ex hypothesi, non sono fisici; non sono onde elettromagnetiche o onde acustiche o raggi cosmici o fasci di particelle subatomiche. Nessuna energia o massa fisica è associata ad essi. Come riescono, allora, ad influenzare il funzionamento delle cellule cerebrali ad essi collegate?” (pp. 45-47).
Il punto su cui a noi qui interessa riflettere è il seguente: come è possibile giustificare le relazioni in un contesto di radicale monismo, dunque facendo valere una forma estrema di riduzionismo?
Non suoni bizzarra la domanda. Essa trae origine dalla considerazione che una relazione non può non postulare due termini, i quali sono due solo perché l’uno non è l’altro. Senza la differenza dei termini relati, questo è il punto, non è possibile porre relazione alcuna.
Se non che, in una concezione autenticamente monista non può non risultare problematico legittimare il concetto di “differenza”. Non può trattarsi, infatti, di una differenza di sostanza, giacché il monismo afferma che la sostanza non può non essere unica. Deve trattarsi, dunque, di una differenza di forma, come accade, ad esempio, agli esseri umani, i quali sono fatti tutti della stessa materia, ma sono molteplici in virtù della forma che li specifica.
Con questa inevitabile conseguenza: per legittimare il concetto di relazione, e tutte le relazioni che si riscontrano nella realtà, il monista deve ammettere almeno un dualismo, quello che distingue la forma dalla sostanza.
Quanto detto ci consente di evidenziare che, se si intende fare propria la concezione sistemico-relazionale, come fa lo stesso Bottaccioli, allora non si può non ammettere almeno una forma di dualismo, essenziale per legittimare il concetto di relazione (e invece Bottaccioli sostiene convintamente e inspiegabilmente il monismo).
Del resto, come visto, il riduzionismo non può non fondarsi sul metodo analitico e, pertanto, non può non postulare la relazione come suo punto di movenza.
Se non che, nella misura in cui il punto di approdo del riduzionismo è il monismo, allora esso si configura come la negazione dello stesso punto di movenza, rappresentato dalla relazione, in modo tale che tutto il processo si rivela una contraddizione.
La relazione viene negata sia per il fatto che l’elemento viene assolutizzato sia per il fatto che, sposando la concezione monista, a rigore viene negata la differenza.
È ben vero che certuni, come per esempio John R. Searle (1997, 2004), pur parlando di monismo di sostanza, ammettono un dualismo di proprietà, tuttavia anche in questo caso il problema della relazione, dunque della differenza, torna a riproporsi.
Se, infatti, al sostantivo “monismo” si aggiunge l’aggettivo “materialistico”, allora si finisce per determinare quel monos che, invece, è autenticamente uno solo nella misura in cui è assoluto, cioè sciolto da ogni relazione, da ogni vincolo ad altro da sé.
De-terminare, infatti, significa de-limitare e cioè porre un limite, il quale pone ciò che è limitato (A) solo in quanto lo riferisce a ciò che lo limita (non-A).
La relazione torna così a riproporsi come essenziale e pretendere di relegarla nell’ordine fenomenico, che domanda di venire superato, contrasta con il fatto che essa costituisce intrinsecamente proprio l’ordine sostanziale, perché rappresenta precisamente ciò che consente di identificare la sostanza come “materiale”, differenziandola da ciò che materiale non è: la non-materia è postulata dalla stessa materia.
Il riduzionismo, insomma, vorrebbe bensì emanciparsi dalla relazione, ma non può farlo autenticamente: la deve postulare come suo punto di movenza, per mettere in atto l’analisi, nonché come condizione di possibilità della stessa riduzione dell’intera realtà alla sola realtà fisico-materiale, che è la forma di riduzionismo fatta valere dalla maggioranza degli scienziati e dei filosofi contemporanei.
A costoro, però, sfugge l’aspetto da noi sottolineato: se si ammette un’unica sostanza, aut la si intende come l’assoluto stesso, ma allora non la si può determinare, aut la si determina, ma allora si nega per ciò stesso la possibilità di considerarla autenticamente unica, così che l’espressione “monismo materialistico” si rivela, a rigore, un’antilogia.
Anche per questa via, non indagata tuttavia da Bottaccioli, emerge la necessità di andare oltre il riduzionismo.
Riferimenti bibliografici
- Damasio, Antonio. 1994. Descartes’ Error. Emotion, Reason, and the Human Brain. New York: Putnam (trad. it.: 1995. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Milano: Adelphi).
- Dennett, Daniel. 1991. Consciousness explained, New York-Boston-London: Little Brown and Company (trad. it.: 2009. Coscienza. Che cosa è?, Roma-Bari: Laterza).
- Ryle, Gilbert. 1949. The concept of Mind. London: Hutchinson (trad. it.: 1955. Lo spirito come comportamento. Torino: Einaudi).
- Searle, John Rogers. 1997. The Mystery of Consciousness. New York: New York Review of Books (trad. it.: 1998. Il mistero della coscienza. Milano: Cortina).
- Searle, John Rogers. 2004. Mind. A Brief Introduction. Oxford (UK): Oxford University Press (trad. it.: 2005. La mente. Milano: Cortina).
Articoli di questa serie già pubblicati
- Riduzionismo vs Complessità (I) (12 marzo 2023).
- Le proprietà emergenti dei sistemi complessi (II) (9 aprile 2023).
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Caro Prof. Aldo Stella, innanzitutto complimenti per il Vostro Blog. Mi sento molto in sintonia con il Vostro pensiero. A proposito della tensione tra monismo e relazione che Lei ben solleva in questo saggio, e ripreso poi anche dagli altri saggi successivi, volevo dirLe che in questi anni ho formulato un paradigma di pensiero che ho chiamato “Monismo Relativo”. La mia applicazione è per la maggior parte “teologica”, in particolare sulla questione del rapporto tra Dio e Mondo. Ho pubblicato alcuni articoli in cui espongo questa mia posizione. Se foste interessati, sono disposto a inviarvene uno. Per il momento continuo a seguirvi. Buon Lavoro e Grazie
Caro Paolo, grazie per l’apprezzamento. Sì, saremmo ben felici se tu potessi inviarci uno dei tuoi articoli.