Fede e ragione (II)

Dopo avere cercato di precisare la differenza che sussiste tra il “credere in” e il “credere che”, della quale ci siamo occupati nello scorso articolo, ci vogliamo ora occupare di una un’altra differenza, ancor più basilare della precedente, quella che sussiste tra il sapere e il credere.

Il sapere – possiamo dire in estrema sintesi – è frutto di un processo che, passando attraverso il dubbio, ossia attraverso l’ipotesi che la cosa non sia come inizialmente appare, perviene alla certezza che la cosa è in un determinato modo perché lo si è dimostrato, ossia perché si è usato un argomento razionale.

La dimostrazione è effettiva quando afferma una determinata ipotesi e la promuove a tesi perché esclude l’ipotesi opposta, dimostrandone la falsità. Il sapere, dunque, ci consente di passare da un’ipotesi ad una tesi, la quale deriva dall’elaborazione razionale dell’esperienza o da una dimostrazione esclusivamente logica. In questo senso, la ragione sembra l’unico strumento che ci consente effettivamente di pervenire alla verità.

Non di meno, si devono evidenziare alcuni aspetti. Se il passaggio da un’ipotesi ad una tesi si fonda soltanto su una constatazione empirica e su una dimostrazione che prende avvio da una constatazione empirica, allora dovremmo ricordarci che si tratta di un sapere ancora solo probabile, come emerge dalla critica che Popper rivolge alla concezione “verificazionista”.

Popper dimostra in modo inconfutabile che, per quanti fatti possano corroborare una teoria, è sempre possibile ipotizzare che si presenti un fatto che la falsifica, così che nessuna teoria scientifica può venire considerata verificata definitivamente, per quante corroborazioni empiriche essa possa esibire.

Il processo che dall’osservazione di casi particolari ci porta all’affermazione di una legge generale (cioè di una teoria) è, infatti, un processo induttivo e, come tale, ha valenza solo statistico-probabilistica.

L’eventuale conferma, che si avrebbe mediante una dimostrazione logica di tipo deduttivo, è in effetti una fallacia logica, perché propone il modus ponendo ponens, che è una delle regole del calcolo proposizionale, nella forma che, come seconda assunzione, prevede l’affermazione del conseguente e non dell’antecedente, come accade nella forma corretta.

Se, insomma, si dice nella prima assunzione “Se tutti i cigni sono bianchi, allora il prossimo cigno che incontrerò sarà bianco” e nella seconda si dice “Incontro un cigno bianco” concludendo “Dunque, tutti i cigni sono bianchi”, si commette una fallacia logica, perché la forma corretta avrebbe dovuto prevedere, nella seconda assunzione, “Tutti i cigni sono bianchi”, così da poter concludere “Dunque, incontrerò un cigno bianco”.

La prima considerazione che riteniamo vada fatta, in base al discorso svolto, è la seguente: il processo induttivo è bensì ampliativo del contenuto informativo delle premesse (assunti), ma presenta il limite di pervenire ad una conclusione solo probabile. Eppure, il processo induttivo ha un valore enorme nel “contesto della scoperta scientifica”.

Con questa conseguenza: la consapevolezza del carattere solo probabile delle conoscenze scientifiche, se viene dimenticata, genera quella che può venire considerata la più ingenua delle fedi: credere nella scienza come se esprimesse verità assolute e inconfutabili. Di contro, la scienza ci offre solo verità relative, cioè sempre vincolate ad assunti.

La seconda considerazione è questa: se, invece, si prende in considerazione il processo deduttivo, che pure mette capo a conseguenze universali e necessarie, non si può non rilevare che anche esso presenta un limite estremamente significativo.

Le conclusioni che da esso originano, infatti, hanno bensì carattere universale e necessario, ma solo perché non ampliano il contenuto informativo delle premesse. Per questa ragione, Poincaré (1908, pp. 210-211), prima, e Wittgenstein (19742, p. 66), poi, hanno affermato che la deduzione è una tautologia, cioè non costituisce un passo in avanti nel processo della conoscenza.

Quando affermiamo di “sapere che”, dovremmo dunque ricordare che, se basiamo la nostra certezza sull’esperienza e su un processo induttivo, allora si tratta di un sapere solo probabile. Se, invece, si tratta di una dimostrazione logica, allora la conclusione è vera se, e solo se, la premessa è vera – e la deduzione formalmente corretta –, così che, in effetti, la verità è stata solo presupposta. Ma come dimostrare la verità delle premesse?

Solo mediante una nuova dimostrazione, la quale dovrà non di meno fare uso di nuove premesse, e così via all’infinito. Ciò attesta, insomma, che la ragione, se si configura come una dimostrazione logica di tipo deduttivo, è costretta a presupporre la verità e non riesce mai a dimostrarla veramente.

Infine, se si fa valere una dimostrazione di tipo confutatorio, come quella che Aristotele (1978, p. 186) usa per dimostrare il principio di non contraddizione, non si può evitare di rilevare che, poiché senza la negazione, che compare anche nella formulazione del principio mediante il “non”, il principio non emergerebbe e poiché la negazione risulta determinata solo in forza di ciò che essa nega (negazione di nulla equivale, infatti, a negazione-nulla), la postulazione della contraddizione diventa essenziale al costituirsi del principio stesso che la nega.

Per quanto possa apparire paradossale, insomma, è proprio il principio di non contraddizione che, poggiando sulla negazione, la quale postula la contraddizione (per evitare di essere nulla come negazione), non può non richiedere la contraddizione per emergere come principio.

Dal discorso svolto può essere tratta, dunque, la seguente conclusione: se la fede richiede la ragione per accertare la verità di ciò in cui si crede, per converso la ragione richiede la fede perché la dimostrazione della verità non è mai autentica, precisamente per la ragione che la verità, se venisse ridotta ad oggetto di dimostrazione, verrebbe determinata, sì che dipenderebbe da ciò che la determina, cioè anche essa si vincolerebbe ad assunti.

Ciò significa che il sapere non può avere la pretesa di dimostrare la verità e non può non fondarsi sulla consapevolezza che la verità non può essere il risultato della dimostrazione, essendo la condizione in virtù di cui si dimostra.

La verità, in tal modo, emerge come condizione trascendentale della dimostrazione e non come suo oggetto. In questo senso, si può dire che la dimostrazione si affida alla verità e confida in essa, affinché sia essa a guidare tanto la dimostrazione quanto la ricerca che proprio alla verità si volgono (Stella, 2023).

 

Riferimenti bibliografici
— Aristotele. 1978. Metafisica, IV, 4, 1006a 3-15. Milano: Rusconi.
— Popper, Karl. 20103 Logica della scoperta scientifica. Torino: Einaudi.
— Poincaré, J.Henri. 1908. «Le derniers efforts des Logisticiens», in Id. Science et Méthode. Paris: E. Flammarion.
— Stella, Aldo. 2023. Riflessioni teoretiche. Perugia: Morlacchi.
— Wittgenstein, Ludwig. 1974². Tractatus logico-philosophicus, prop. 6.1. Torino: Einaudi.

 

Precedenti articoli di questa serie già pubblicati
Che bisogno abbiamo della fede? (I) (13 ottobre 2024)

 

Foto di Pascal Debrunner su Unsplash

 

 

Università per Stranieri di Perugia e Università degli Studi di Perugia · Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Filosofia teoretica - Filosofia della mente - Scienze cognitive

Lascia un commento

*