Fondazione come determinazione reciproca
Il tema della “determinazione reciproca” è tema è essenziale per comprendere il discorso svolto da Severino. Egli tratta il tema della determinazione reciproca inserendolo nel tema della fondazione e precisa che la determinazione reciproca non può venire intesa come un’“antecedenza logica” (Severino 1981, 149) di una determinazione (A) rispetto alle altre (non-A), perché ciò indicherebbe che A si pone come qualcosa di autonomo e indipendente, cioè come autosufficiente.
L’autosufficienza è il modo in cui l’ordine formale considera la determinazione nell’assumerla a prescindere da altro. Severino è consapevole che un’identità, proprio perché è determinata, si pone in relazione necessaria con la differenza, così che nessuna determinazione può valere come fondamento delle altre, perché non si pone a prescindere dalle altre: non è affatto autosufficiente. Tra di esse vige quella determinazione reciproca, della quale egli parla inizialmente a proposito dell’immediatezza dell’essere.
L’immediatezza è l’essere fondamento a sé da parte dell’essere, ma essa “è fondamento solo in quanto è svelata, o è posta come immediatezza” (Severino 1981, 147), cioè solo in quanto è saputa. Severino, per spiegare il senso dell’immediatezza, così scrive: “Per presenza immediata si intende infatti l’essere noto o affermato per sé, in base a sé. Dire che l’essere è noto per sé significa escludere che sia noto per altro. Che l’essere sia, da un lato è noto per sé in quanto è noto non per altro; e dall’altro lato è noto non per altro in quanto è noto per sé. Determinazione reciproca (Severino 1981, 148).
La determinazione reciproca non è una fondazione proprio per la ragione che non si dà antecedenza logica di un termine rispetto all’altro. L’antecedenza logica, a sua volta, non si dà, per la ragione che la determinatezza del termine impone il suo riferirsi alla differenza. Ciascun termine (identità determinata) si pone in quanto “appartenente all’essenza dell’altro” (Severino 1981, 149), afferma Severino. Ebbene, la determinazione reciproca indica precisamente la coessenzialità delle determinazioni, cioè il fatto che la relazione che le vincola è una relazione essenziale o necessaria.
Se non che, anche qui si ripropone la questione della quale ci siamo occupati parlando della “traccia” nei due articoli precedenti: se la relazione è essenziale, allora non-A entra nella costituzione intrinseca di A, ossia costituisce l’essenza stessa di A, il quale non può non rivelarsi un’identità in sé contraddittoria. Severino ritiene di poter risolvere il problema affermando che, se A e non-A vengono colte alla luce della struttura originaria, allora esse non sono più due identità distinte, ma un’unica identità, che è l’“identità originaria”.
Ci chiediamo: come deve venire intesa tale identità? Severino ritiene che possa venire intesa nella forma di una relazione, la quale, se viene espressa come identità del “soggetto” e del “predicato” nel “giudizio originario”, deve venire intesa come identità della relazione del soggetto al predicato con la relazione del predicato al soggetto.
Il progetto di Severino è quello di indicare un’identità diversa da quella fatta valere dall’ordine formale: se l’ordine formale non può non richiedere un’identità chiusa, così da valere come autonoma e autosufficiente – almeno da un certo punto di vista, l’ordine formale non può prescindere da questa richiesta, stante il fatto che l’identico deve valere come immediato –, Severino invece intende mostrare che l’identità non può non essere aperta alla differenza, stante il suo porsi come identità determinata.
La questione che intendiamo sollevare è se le due istanze siano conciliabili, e cioè se l’immediatezza del dato, richiesta affinché esso possa avere un’identità indipendente, possa trovare conciliazione con la sua mediazione, intesa come relazione ad altro dato, richiesta affinché si possa parlare di identità determinata.
L’unica soluzione sembrerebbe quella di assumere tanto l’indipendenza quanto la dipendenza in senso relativo, così che le identità sarebbero relativamente indipendenti, perché ciascuna non è l’altra, ma non assolutamente indipendenti, perché in relazione tra di esse; inoltre, sarebbero relativamente dipendenti, perché in relazione reciproca, ma non assolutamente dipendenti, perché ciò significherebbe il venir meno della loro distinzione.
Se non che tale soluzione, a rigore, è preclusa dal fatto che la determinatezza di ciascuna identità postula la relazione necessaria ad altra identità, cioè la coessenzialità delle identità. E la coessenzialità impone la differenza nella struttura intrinseca e costitutiva dell’identità, non come medio che si disponga tra le identità.
Severino ritiene di poter risolvere il problema parlando di identità “aperta” e intendendo l’apertura come una nuova relazione, la quale non può non riproporre – per lo meno a nostro giudizio – le antilogie sopra riscontrate. Nell’Introduzione, infatti, egli così descrive l’identità di soggetto e predicato: “Il dire non è la sintesi di soggetto e predicato […], ma è l’identità tra la relazione del ‘soggetto’ al ‘predicato’ e la relazione del ‘predicato’ al ‘soggetto’” (Severino 1981, 29).
Ebbene, “questa identità tra la relazione del ‘soggetto’ al ‘predicato’ e la relazione del ‘predicato’ al ‘soggetto’ è espressa dall’equazione A (= B) = B (= A) che può essere indicata anche nella forma (A = B) = (B = A). In questa espressione, il segno di ‘uguale’ che connette le due equazioni tra parentesi ha un senso diverso dai segni di ‘uguale’ che costituiscono queste due equazioni. Esso è l’identità originaria, separatamente dalla quale l’identificazione di A a B (A = B) e di B a A (B = A) è la contraddittoria affermazione dell’identità dei non identici (A, B). Isolate dall’identità originaria (A = B) = (B = A), le due equazioni che la costituiscono sono contraddizioni” (Severino 1981, 29-30).
Nella tesi sostenuta da Severino, l’identità originaria è ciò che fonda le due identificazioni, e cioè (A = B) e (B = A), le quali, isolate dall’identità originaria, sarebbero mere contraddizioni, perché affermerebbero che due diversi sono un identico.
Incluse nell’identità originaria, invece, esse rivelano che ogni determinazione si pone in forza della relazione ad altra determinazione, così che la reciprocità si rivela la caratteristica fondamentale del determinato. E la reciprocità indica la coessenzialità delle determinazioni, ossia l’essere dell’una in virtù dell’essere dell’altra. Trattando della determinazione reciproca siamo così giunti a sfiorare il tema dell’identità dei diversi, o dell’unità che ingloba tutte le determinazioni.
L’intero discorso svolto sulla determinazione reciproca, cioè sulla dipendenza reciproca che sussiste tra le determinazioni, a nostro giudizio non può non mettere capo alla seguente alternativa: aut A et non-A – che corrisponde a B, nella formula usata da Severino – costituiscono un’effettiva identità (unità), ma allora non possono conservarsi come determinazioni (cioè A e non-A debbono venire meno, lasciando essere solo l’uno); aut esse si conservano come determinazioni, ma allora la loro identità (unità) non è effettiva, stante il fatto che essa viene ridotta a quel costrutto che è l’unificazione (la sintesi, la quale poggia sulla dualità).
L’unificazione, insomma, mantiene i distinti e li mantiene perché vale come una relazione. Per Severino ciò equivale a superare l’astrattezza di ciascuna determinazione, così che è dato di pervenire al concreto. Un concreto che, però, è ancora inteso in senso relazionale, cioè come sintesi di A e non-A o come unificazione, la quale, essendo appunto una relazione, non può non postulare la differenza dei termini relati, in modo tale che l’identità che li rende uno non può non venire radicalmente negata.
La nostra obiezione è che l’unificazione non è una vera unità e, dunque, non è una vera identità. La sintesi di A e non-A equivale, anzi, alla conciliazione degli inconciliabili, cioè alla contraddizione, stante il fatto che essa concilia l’identità con sé di ciascun termine – la quale dovrebbe essere autonoma per valere come autentica identità ed esprimere l’indipendenza di ciascuna determinazione (l’indipendenza tanto di A quanto di non-A) – con il riferirsi reciproco dei termini stessi, cioè con la loro dipendenza, che nega radicalmente l’autonomia delle identità.
V’è un unico modo per superare la contraddizione: intendere ciascuna determinazione come il proprio trascendersi e ciò in ragione del fatto che ciascuna è, in sé, sé e il suo altro, ossia ciascuna è in sé il proprio contraddirsi. Il togliersi delle determinazioni configura, pertanto, quell’ablatio alteritatis che restituisce dialetticamente l’unità: l’uno come togliersi del due.
Anche Severino, e ciò ci sembra di estrema rilevanza, in alcune occasioni parla del venir meno del due nell’uno, per esempio quando afferma che, andando oltre l’intelletto astratto, “la relazione” viene colta come “la stessa identità di ciò che, pertanto, non è due, ma uno” (Severino 1981, 180).
Tuttavia, egli in generale non accetta la soluzione da noi prospettata, perché l’unità, intesa proprio come l’uno, non può non essere indeterminata o, meglio, non può non trascendere l’opposizione di determinato/indeterminato, stante che l’uno trascende la relazione. Di contro, l’unificazione, cioè la sintesi, si mantiene determinata in forza della determinatezza dei termini che la costituiscono.
Ciò consente di precisare il concetto di originario o di fondamento che Severino propone, per il quale il fondamento vale come l’unità di una molteplicità, ossia come l’unità di tutte le determinazioni, che sono eterne. Precisamente per questa ragione l’originario presenta la forma di una struttura: esso è quella struttura che tiene insieme la molteplicità degli enti (essenti), i quali nella loro concreta totalità costituiscono l’intero.
Di contro, a nostro giudizio l’originario è l’unità che fonda ciascun ente non nel senso che lo legittima nel suo presentarsi immediato, ma nel senso che gli impone quella mediazione, che è l’atto del suo mediarsi. In quest’unico e medesimo atto il molteplice viene ricondotto all’unità, intesa non più nel senso dell’insieme di determinazioni, ma nel senso della verità del loro costituirsi come determinazioni. La verità del molteplice, dunque, consiste nel risolversi nell’unico e medesimo atto (unico e medesimo per ogni determinazione) del suo trascendersi come molteplice.
Si potrebbe dire – per precisare il senso in cui l’atto traduce l’assoluto nell’universo formale – che l’atto del mediarsi dell’identità immediata (formale) è evocato da quell’unità originaria che è l’assoluto stesso, ossia l’essere di Parmenide.
Poiché l’assoluto essere è ciò che veramente è, consegue che tutto ciò che non è l’assoluto essere non è veramente, così che il suo presentarsi nell’ordine formale configura un esistere, che significa un co-esistere: ogni identità determinata aspira all’essere, ancorché si presenti come se fosse, e per trovare un fondamento alla propria insufficienza si riferisce ad altra identità determinata, essa stessa insufficiente, in un circolo infinito di rinvii che produce una cattiva infinità, come direbbe Hegel.
L’autentico infinito, invece, è quell’assoluto in virtù del quale si rileva il limite del determinato, quel limite che nel porre il determinato insieme lo toglie. Lo toglie non nel senso che lo cancella empiricamente, ma nel senso che toglie la pretesa che esso sia veramente, come l’ordine empirico-formale attesterebbe.
L’originario, quindi, non è l’insieme delle determinazioni, quanto piuttosto la ragione del loro andare oltre quella consistenza che la forma attribuisce loro. Potremmo dire che l’originario è la condizione che consente di svelare l’inconsistenza ontologica del determinato.
Riferimenti bibliografici
– Severino, Emanuele. 1981. La struttura originaria. Milano: Adelphi.
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In effetti, l’identità non è la lampada, ma la lampada accesa. È questa identità, rappresentata dalla lampada accesa, che poi si presenta come lampada accesa che ora è spenta. È questa continuità, e cioè il permanere della lampada accesa, che secondo Severino evita la contraddizione. Non a caso, egli parla precisamente di permanenza.
Nell’esempio della lampada (La filosofia futura 2006, 202-3) Severino evita la contraddizione fra l’identità e la differenza con l’alternanza fra l’essere e il divenire. In questo caso l’identità può essere interpretata come il reciproco della differenza: la lampada che si accende è la stessa lampada che si spenge.