Già il titolo scelto da Carlo Rovelli per questo suo saggio si può dire particolare, o quantomeno insolito. Quale altro libro, infatti, che si propone dichiaratamente di rispondere alla domanda “Che cos’è la scienza?”, delineandone così i suoi contorni, dunque i suoi doveri e la sua struttura – che vedremo essere aperta, per Rovelli –, al contempo fa riferimento ad Anassimandro, a uno dei filosofi pre-socratici?
Prima di capire realmente il contributo di Anassimandro, e quindi la rivalutazione del pensatore di Mileto che ne fa Rovelli (che, è bene ricordarlo, è un fisico italiano che si occupa principalmente di gravità quantistica, ma ha sempre dimostrato una certa attenzione alla filosofia della scienza e al pensiero in generale), è preferibile andare diretti al cuore del problema: che cos’è la scienza, appunto?
Debitore, tra i tanti, di Karl Popper, Rovelli pensa una scienza aperta, anti-dogmatica, strutturalmente incapace di essere scienza del Tutto («alcuni scienziati, ahimè, cadono ancora nel tranello di pensare che abbiamo, o stiamo per trovare, la teoria finale del mondo, la “Teoria del Tutto” ((p. 107.))). Il pensiero razionale, che è la base della ricerca scientifica, ha un’«immagine evolutiva e sovversiva», scrive già nelle prime pagine ((p. 4.)).
Evolutiva perché la scienza non è, appunto, ricerca di una certezza indubitabile, bensì crescere continuo, riposizionamento costante, messa in questione dell’ordinario e del pensiero consolidato. Scrive Rovelli, che «il pensiero scientifico esplora e ridisegna il mondo, ce ne dà immagini nuove e ci insegna la sua forma: ci insegna a pensarlo e in che termini farlo. La scienza è una ricerca continua del miglior modo per pensare il mondo, per guardarlo» ((p. 114.))
Sovversiva perché essa è capace di rovesciare (anzi, deve!) l’ordine prestabilito, il senso comune – che è, anche per Rovelli, il vero “nemico” del pensiero, soprattutto quando si fa, illegittimamente, pensiero. Ma, come spiegava Deleuze, la filosofia, il pensiero, hanno sempre a che fare con il non-pensiero, con la non-filosofia. È una condanna che gli permette, tuttavia, di passare attraverso il suo negativo, potremmo dire. Per questo «la natura del pensiero scientifico è quindi essenzialmente critica, ribelle, insofferente a ogni concezione a priori, a ogni riverenza, a ogni verità intoccabile» ((p. 115.)). La scienza è atea, non crede a nessun Dio come a nessun trascendentale che pre-determini il reale.
Scienza e filosofia
Emerge dunque uno stretto rapporto fra scienza e filosofia che, come in Popper, non possono separarsi. La tendenza attuale, dice Rovelli, è proprio quella opposta: dividere i due ambiti, che invece sono sempre stati consequenziali e diretti l’uno all’altro. Qui, mi si permetta di fare un intermezzo: la tendenza ad una separazione fra ambito scientifico e ambito filosofico, non è solo dovuta alla volontà di buona parte del pensiero filosofico di pensarsi come l’unica cattedrale nella quale è depositata la verità, ma anche a causa di una serie di scienziati che – criticando aspramente la filosofia, fino a definirla una favola – si prodigano nel proporre Teorie del Tutto, provenienze degli enti dal nulla, senza possedere gli strumenti e il linguaggio adeguati, e così, senza saperlo, fanno (in malo modo) filosofia.
Se scienza e filosofia hanno proseguito sempre una di fianco all’altra (si pensi al legame, e all’interesse comune, di pensatori come Pascal, Leibniz, Cartesio, Spinoza, Kant) è nell’Ottocento che avviene la grande svolta. Il crollo delle certezze newtoniane ci consegna un mondo non più ingabbiato nelle eterne leggi di natura. E, anche se Rovelli non lo specifica, la filosofia si isola sempre di più nella sua tendenza antropologica.
Einstein e Heisenberg – per fare solo due nomi – ci dicono che il mondo non è più come l’ha concepito Newton ((p. 108.)), e non possiamo considerare la scienza come una serie di predizioni verificabili. Il principio d’indeterminazione, la nascita delle geometrie non euclidee, la meccanica quantistica, il XX secolo scientifico ci ricordano tutti di accantonare la nostra voglia di certezza ((pp. 128-129.)). In questi passaggi Rovelli sembra attingere a piene mani da tutta quella filosofia della scienza del Novecento che si è, a volte ingiustamente, scagliata contro la filosofia e che ha però colpito nel segno dando voce ad un modo diverso di intendere il pensiero. Si veda il lavoro di Reichenbach, ad esempio.
Il contributo di Anassimandro
Il contributo a posteriori di Anassimandro è utile a Rovelli per mostrare come già il maggiore dei fisici greci avesse immaginato una scienza aperta e in continua evoluzione. Grazie ad una ricostruzione moderna del pensiero del filosofo di Mileto, possiamo dire, con una buona dose di certezza, che Anassimandro sostenesse: (i) la naturalità delle cause dei fenomeni meteorologici; (ii) la finitezza del corpo celeste chiamato Terra che “galleggia” nello spazio, senza tendere verso alcun luogo; (iii) che il Sole e la Luna ruotano intorno alla Terra, compiendo cerchi completi; (iv) che l’origine delle cose, l’identità nella molteplicità, sia non un elemento della natura, ma l’ápeiron, l’infinito, il non-determinato; (v) che la trasformazione delle cose è determinata dalla necessità; (vi) che il mondo nasce per separazione dal principio indistinto, così come caldo e freddo nascono da questa separazione originaria.
Più in generale in Anassimandro «è del tutto assente l’idea di cercare leggi matematiche che possano soggiacere ai fenomeni naturali» ((p. 43.)). Dal punto di vista filosofico (quindi a più ampio spettro) Rovelli riconosce ad Anassimandro la capacità di aver pensato un infinito assoluto che, in quanto tale, è sempre aperto e quindi al di là (come ha spiegato anche Einstein) delle categorie kantiane di spazio e tempo. Ciò, al netto delle arcaiche tesi scientifiche di Anassimandro, è l’atteggiamento (rivoluzionario!) del pensatore di Mileto, che interessa al filosofo della scienza moderno.
Il pensiero razionale è così definibile (al di là delle categorie impostegli dall’uomo) perché evita all’individuo di porsi al centro di ogni processo. La natura è il fuoco eterno ed infinito della quale l’uomo è soltanto una vettorialità determinata, che non deve rassegnarsi a pensare il mondo come indefinibile, ma certamente non come un suo prodotto.
L’infinito
In Anassimandro è prefigurato, in maniera già chiara, quell’infinito che sta alla base degli assoluti filosofici, diversi tra loro ma riconoscibili entro una linea, di Cusano, Bruno, Spinoza e Bergson, che si oppongono al pensiero antropocentrico della filosofia moderna.
Questo modo d’intendere il principio, non come una catena che imbriglia tutti gli essenti, bensì come una virtualità mai completamente inespressa, è il cuore della nuova filosofia della scienza dopo il crollo delle certezze avvenuto nel XX secolo, ed è anche il tracciato essenziale che ritroviamo già in quell’autore del VI secolo a.C. che identifichiamo col nome di Anassimandro. È «giustificato – scrive Aristotele nella Fisica – che tutti considerino l’infinito come principio: non è infatti appropriato né che esso esista invano, né che a esso appartenga un’altra possibilità se non come principio. Ogni cosa, infatti, o è principio o deriva da un principio; ma dell’infinito non c’è principio, poiché in tal caso esso avrebbe un limite. E inoltre esso è ingenerato e incorruttibile, proprio come se fosse un principio […]. E tale sembra essere il divino: difatti è senza morte e senza distruzione, come asseriscono appunto Anassimandro e la maggior parte degli indagatori sulla natura» ((Fisica 203, b 4-15; trad. G. Colli, in La sapienza greca, vol.2, Adelphi, Milano, p. 157.)).
E se questo apre il nostro sguardo ad una enorme ignoranza, ci ricorda Rovelli, ciò non può che dare vita a una sana e reale tendenza alla ricerca.
Carlo Rovelli, Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori, Milano 2014.