Cos’è la filosofia monista?

Pensare la storia della filosofia come un confronto fra dottrine che, fatte salve alcune differenze, possono identificarsi entro due “schieramenti” opposti, è una pratica riduttiva. Tuttavia questa semplificazione può aiutarci a riconoscere delle tendenze, dei temi che si ripropongono e restano attivi in seno ai cambiamenti culturali che la storia mette in atto. Nella storia della filosofia moderna, tra gli altri, sono riconoscibili due tronconi di pensiero in fondo inconciliabili. Da una parte coloro i quali danno per scontata l’idea per cui la realtà sia un oggetto esterno al soggetto che ne fa esperienza; dall’altra coloro i quali mettono in discussione questa scissione. I primi consegnano alla conoscenza un ruolo di “scoperta dell’altro da sé”, il riconoscimento di un’alterità con la quale venire in contatto unicamente per vie esterne. In altre parole: non c’è che una solidarietà apparente fra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto, le “sostanze” rimangono in definitiva scisse. I secondi, invece, in misura ogni volta diversa – più o meno radicale – considerano i due fuochi della conoscenza come sullo stesso piano, due “elementi” solo apparentemente separati. La moltitudine – anche se solo attraverso un elemento di continuità intrinseca, “l’identità del diverso” – si ricolloca interamente entro un unico (infinito) campo ontologico, facendo così collassare il senso di una distanza fra soggetto e oggetto. 

Continue Reading

Pensiero riflessivo e atto di coscienza (I)

La considerazione scientifica e filosofica del pensiero riflessivo
Lo studio scientifico del pensiero ha trovato espressione, in primo luogo, nella logica formale. Più recentemente, anche le scienze psicologiche si sono occupate del tema, mediante una ricerca empirica e sperimentale.
Tuttavia, sia la logica formale sia la psicologia che si occupa del pensiero non hanno dato la giusta rilevanza a un aspetto che, invece, è stato da sempre considerato centrale in ambito filosofico. Tale aspetto può così venire riassunto: il pensiero viene analizzato e descritto, ma a compiere l’analisi e la descrizione è ancora il pensiero.
Quale valore e quale significato può avere il fatto che il pensiero non soltanto è l’oggetto dell’indagine, ma altresì è il soggetto dell’indagine stessa? Da questa domanda intendiamo partire per impostare l’analisi. Il nostro progetto è duplice: fornire precisazioni in ordine alla facoltà di oggettivarsi che è propria del pensiero, e che costituisce la sua funzione riflessiva; avanzare alcune ipotesi che spieghino per quale ragione il pensiero riflessivo non ha goduto di particolare considerazione nello studio scientifico che viene condotto sul pensiero; infine, far emergere il pensiero riflessivo, inteso nella sua essenza più pura, come atto e non come attività.

Continue Reading

Dovremmo rinunciare alla metafisica?

La metafisica, per sua stessa definizione e per come nei secoli la filosofia occidentale ha inteso tale “disciplina”, ha sempre avuto un rapporto diretto con concetti quali Tutto, totalità, infinito, assoluto.
La fisica al contrario, e quindi le scienze in generale, in quanto dottrine specializzate di un particolare settore del reale, hanno invece sempre avuto a che fare col finito. Con il reale, appunto, ovvero con una dimensione tangibile per lo spirito conoscitivo dell’uomo.
Questa può sembrare una semplicistica divisione dei lavori e degli ambiti di indagine, o meglio una separazione dei compiti che non tiene conto delle possibili sovrapposizioni. Possiamo accogliere un’osservazione di questo tipo solo in maniera parziale poiché, se è vero che questa suddivisione netta non dà ragione di una serie di possibili convergenze, e se è vero che sono plausibili alcune rivendicazioni della scienza di indagare la natura e la conformazione del Tutto, non possiamo negare l’indissolubile legame della metafisica con l’infinito. Continue Reading

Eraclito tra Colli e Heidegger

Quando si affronta il labirinto del pensiero di Eraclito, ci si ritrova sempre a ragionare sul celeberrimo panta rei, sulla coincidentia oppositorum e su di un linguaggio dalle molteplici sfaccettature che rende ancora più complesso avvicinarsi davvero alla radice di un pensiero che è sfuggente per antonomasia. Non a caso Giorgio Colli lo annovera fra quei “filosofi sovrumani” che hanno vissuto sulla propria pelle la tragedia di un sapere tanto profondo da varcare le soglie del pensiero per addentrarsi fin dentro la carne viva del reale. L’intento di questo articolo perciò, sarà quello di provare a mostrare non solo il legame indissolubile che unisce tanto i due nuclei speculativi quanto la forma linguistica tramite cui ci vengono comunicati, ma anche e soprattutto quale sia il sostrato di tale legame. L’impresa è titanica, per questo ci varremo del supporto di due fra le menti filosofiche più brillanti del Novecento: Martin Heidegger e il già citato Giorgio Colli. Perché ricorrere a due letture tanto differenti? Il motivo è molto semplice: perché è straordinario notare come due vie tanto distanti finiscano fatalmente per convergere verso il medesimo argomento di fondo; e ciò ad esclusivo beneficio della ricerca della verità. D’altronde quale altro approccio metodologico avrebbe potuto rendere maggior giustizia al filosofo della multivocità? Continue Reading

L’impossibilità di ridurre l’oggetto in sé all’oggetto percepito (IV)

Per riprendere il discorso sulle posizioni ambigue, in ordine al tema dell’oggettività, assunte da numerosi scienziati che si occupano del tema della mente, partiamo da questo punto. Ci sembra quanto mai significativo che un altro insigne neurobiologo, Edelman, in una sua opera molto importante, dopo avere fornito un avvertimento al lettore: “Il lettore ricordi, quando sarà il caso, che comunque la triade essenziale [corpo, econicchia e cervello] è sempre nella mia mente” (Edelman, 2007, 22), scriva: “Un altro errore è contenuto nell’affermazione che le categorie sensoriali come il colore e varie altre percezioni esistono nel mondo indipendentemente dalla mente e dal linguaggio” (Ivi, 37). Per poi aggiungere, citando Quine e il suo progetto di “naturalizzare l’epistemologia”: “Il soggetto riceve “un certo input sperimentalmente controllato – certi modelli di irradiazione […] e a tempo opportuno quel soggetto libera come output una descrizione del mondo esterno tridimensionale e della sua storia. La relazione tra quel magro input e quell’output torrenziale è una relazione che siamo spinti a studiare […] per vedere come l’evidenza abbia rapporto con la teoria” (Ivi, 43-44; l’opera di W.V.O. Quine, cui Edelman si riferisce, è Epistemology Naturalized). Continue Reading

Damasio e il problema di cogliere la realtà esterna (III)

Cercheremo ora di indicare, citando brevi passi, alcune tra le più significative concezioni, in ordine al tema dell’oggettività, espresse da insigni studiosi, le quali possono venire considerate in un certo senso paradigmatiche di un’ambivalenza di fondo che caratterizza in genere la ricerca sul “mentale”. Il nostro intento, come emerge dalla prima e dalla seconda parte del presente lavoro, è quello di mostrare la centralità della distinzione di oggettivo e oggettuale. Per “oggettivo”, giova ripeterlo, si deve intendere ciò che è indipendente dal soggetto; per “oggettuale”, invece, ciò che gli è frontale e reciproco, dunque i percetti dell’esperienza ordinaria. Rileviamo che, anche se questa distinzione non viene esplicitamente ammessa dagli studiosi che si occupano della mente, i quali in genere sposano il modello del cosiddetto monismo materialistico, che esclude dunque qualunque forma di dualismo e conduce a un’autentica assolutizzazione dell’oggetto, pur tuttavia essa, per lo meno a nostro giudizio, è fungente e operante nei loro scritti e, poiché non ammessa o comunque non riconosciuta, produce quell’ambivalenza di cui sopra parlavamo. Di questa nostra affermazione ci proponiamo ora di offrire le ragioni e lo facciamo prendendo in esame, ovviamente per punti essenziali, la concezione che, in ordine al tema dell’oggettività, hanno espresso Damasio, Edelman e Dennett.

Continue Reading

Le aporie del realismo metafisico di Searle (II)

L’assolutizzazione dell’oggetto
Il monismo materialistico, come abbiamo cominciato a vedere nell’articolo scorso, sostanzialmente coincide con l’assolutizzazione dell’oggetto e implica che all’oggetto viene sottratto ciò su cui poggia che è l’altro da sé, il soggetto appunto.
In effetti, ciò che va messo in evidenza è proprio la correlatività di soggetto e oggetto, per lo meno del soggetto empirico, stante che quello che i filosofi chiamano “soggetto trascendentale” non può non emergere oltre la relazione all’oggetto, costituendosi come condizione oggettivante questa stessa relazione.
Ebbene, il monismo materialistico configura la più radicale negazione della soggettività, proprio perché vale come l’assolutizzazione dell’oggetto. Per comprendere il senso di questa assolutizzazione, che realizza una delle forme più significative di riduzionismo, si impone la necessità di proporre e spiegare quella distinzione, che a noi sembra essenziale anche per intendere adeguatamente il concetto di realtà: la distinzione che sussiste tra oggettivo e oggettuale.

Continue Reading

La filosofia della mente al cospetto della verità (I)

Per introdurre
La Filosofia della mente rappresenta non soltanto un ambito specifico della ricerca filosofica, ma altresì il luogo teorico in cui si incontrano in forma esemplare scienza e filosofia. Precisamente per questa ragione, è considerata il fronte più avanzato tanto della ricerca filosofica quanto della ricerca psicologica, con importanti ricadute nel campo dell’etica, dell’antropologia, della sociologia, della giurisprudenza, per non parlare che dei più importanti ambiti di studio e di ricerca.
Ebbene, all’interno di tale contesto il programma naturalista, volto a negare ogni forma di “soprannaturalismo”, ha avuto un’influenza estremamente significativa. La naturalizzazione della mente, infatti, si è configurata in varie forme: alcune meno radicali, altre più radicali, le quali prospettano un riduzionismo che, se inteso nella sua modalità più estrema, genera quella concezione che viene definita “monismo materialistico”.
Il monismo materialistico, a sua volta, può venire inteso come una vera e propria assolutizzazione dell’oggetto, in modo tale che ciò che in tale concezione risulta eliminato è proprio il ruolo del soggetto. L’assolutizzazione dell’oggetto, d’altra parte, comporta l’assunzione di quest’ultimo come se fosse la realtà oggettiva, ossia la realtà che è in sé e per sé, totalmente indipendente dal soggetto, del quale si mette in discussione, appunto, la stessa esistenza.
Non a caso, Gilbert Ryle, intendendo riferirsi al ruolo della coscienza, parla a più riprese di “dogma cartesiano dello spettro nella macchina” (Ryle 1949), per sottolineare che la macchina, cioè il corpo, può benissimo procedere autonomamente e che il soggetto, cioè la coscienza o la mente, può venire considerato alla stregua di un fantasma.
In questo lavoro, muovendoci nel quadro teorico-concettuale rapidamente delineato, prenderemo in esame un aspetto specifico e cioè l’assunzione della realtà percepita come realtà oggettiva. Affinché il discorso risulti chiaro, porremo una distinzione, che a noi sembra molto feconda sul piano logico-teoretico e cioè quella che sussiste tra realtà oggettiva e realtà oggettuale.
La nostra ipotesi, che dovrà venire corroborata dagli argomenti che verranno offerti nel lavoro, è che la realtà percepita sia la realtà oggettuale e non la realtà oggettiva, come invece si tende a pensare. La realtà oggettiva, infatti, non può venire colta proprio perché è in sé e per sé. Nel momento in cui venisse colta, cesserebbe eo ipso di valere come oggettiva.

Continue Reading

Determinazione reciproca e identità dei distinti in Emanuele Severino

Fondazione come determinazione reciproca
Il tema della “determinazione reciproca” è tema è essenziale per comprendere il discorso svolto da Severino. Egli tratta il tema della determinazione reciproca inserendolo nel tema della fondazione e precisa che la determinazione reciproca non può venire intesa come un’“antecedenza logica” (Severino 1981, 149) di una determinazione (A) rispetto alle altre (non-A), perché ciò indicherebbe che A si pone come qualcosa di autonomo e indipendente, cioè come autosufficiente.

L’autosufficienza è il modo in cui l’ordine formale considera la determinazione nell’assumerla a prescindere da altro. Severino è consapevole che un’identità, proprio perché è determinata, si pone in relazione necessaria con la differenza, così che nessuna determinazione può valere come fondamento delle altre, perché non si pone a prescindere dalle altre: non è affatto autosufficiente. Tra di esse vige quella determinazione reciproca, della quale egli parla inizialmente a proposito dell’immediatezza dell’essere.

Continue Reading

Severino e il tema delle «tracce» (II)

Traccia e contraddizione
Riprendiamo dal passo di Severino con cui concludevamo la prima parte del nostro articolo: “Essendo in relazione agli altri essenti, un essente include una traccia, cioè un aspetto finito di ogni altro essente; e la include come traccia dell’altro, appunto perché, se la includesse semplicemente come parte di sé stesso, tale essente non sarebbe in relazione all’altro. La traccia è sì parte dell’essente, ma, appunto, come traccia dell’altro” (Severino 2010, pp. 225-226).

La traccia, come emerge da questo passo, è contenuta in un essente, quindi è parte di esso, ma è quella “parte di sé” che rinvia ad altro da sé. Essa, pertanto, è un segno, il cui essere si risolve nell’inviare a ciò di cui è segno. Per esemplificare: secondo Severino, in “A” v’è una parte di “A” che deve venire considerata come un segno che rinvia a “non-A”.

Tra tutti i segni, non di meno, Severino sceglie la «traccia»: proviamo a spiegare il perché. L’ipotesi che formuliamo è che venga scelta la «traccia» perché è il segno che qualcosa ha lasciato in altro qualcosa, come se si fosse impressa in “A” la passata presenza di “non-A”. Vengono subito in mente le orme sulla sabbia: esse sono l’indice che qualcuno ha camminato su di essa, lasciando appunto la traccia della sua passata presenza.

La domanda che ci si deve rivolgere, pertanto, è la seguente: come si è formata la traccia di “non-A” in “A”? La risposta non può che essere questa: “non-A” è stato presente in “A”. Per avere lasciato una traccia in “A”, “non-A” non può non essere stato presente in “A”, ossia la sua presenza in “A” deve appartenere al passato. In effetti, “non-A” è stato in “A” proprio per la ragione che, solo in quanto presente, la negazione posta in essere da “A” può averlo investito. Affinché “A” neghi “non-A”, infatti, “non-A” deve essere ed essere proprio in “A”, in quanto negante “non-A”, come afferma la formula “A = non non-A”.

Continue Reading

1 4 5 6 7 8 9