Socrate, l’uomo dagli atti giusti prima delle parole giuste

L’accusa di essere empio corruttore dei giovani determina la condanna di Socrate davanti al tribunale ateniese. L’accettazione serena della pena e l’obbedienza alla legge della città, fino alle sue estreme conseguenze, sono l’ultimo atto di un uomo che nel corso della sua vita ha sempre preferito subire ingiustizia piuttosto che commetterla. La morte virtuosa di Socrate lascia un segno profondo nei suoi seguaci: come Platone, anche lo storico Senofonte scriverà una appassionata Apologia del maestro. Ma la difesa più riuscita della figura socratica si trova in un’opera senofontea troppo spesso trascurata, i Detti memorabili di Socrate, che ci restituiscono un vero maestro di virtù, di politica e delle cose umane. Dove si mostra che i fatti hanno un valore maggiore rispetto alle parole: se si possono dire cose giuste ed essere ingiusti, è impossibile essere ingiusti se si fanno degli atti giusti. Essere giusti dunque significa sempre e comunque evitare atti ingiusti.
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L’ozio di Seneca contro la corruzione dello Stato

Come deve comportarsi il filosofo se lo Stato è ormai irrimediabilmente corrotto e la politica un campo di conflitti pericoloso e violento? Si tratta di una domanda drammatica in un quel contesto storico e culturale dell’impero romano che vedeva il filosofo, come ogni cittadino, prendere parte attiva alla vita pubblica. Per Seneca, dopo un primo accomodamento con la dottrina stoica, non ci sono dubbi: prima che il filosofo si spenda in sforzi che non giungeranno ad alcun esito, prima di impegnarsi in un aiuto che sarà sistematicamente violato o rifiutato, è possibile ed anzi necessario affidarsi interamente agli studi e vivere una vita ritirata. Perché la vera vocazione del filosofo non è la politica ma l’educazione.

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Tutti a bordo del volo 93 della United Airlines?

Un sito dedicato alla filosofia, nonostante la natura spesso caotica (o apparentemente tale) della rete, non può rinunciare ad un’impostazione sistematica dei propri contenuti e alla chiarezza della propria proposta filosofica. In questa direzione, a partire da gennaio, RF riserverà regolarmente alcune uscite settimanali a temi o ambiti specifici della filosofia. La prima domenica del mese sarà dedicata al rapporto tra filosofia e politica, tema imprescindibile quanto scabroso per chi si occupa della prima (al contrario di quanto accade per chi si occupa della seconda che spesso si dà facilmente arie da filosofo). La serie avrà come titolo Il filosofo e la città: la meditazione come più alta forma d’azione e non sarà un altro capitolo dell’insopportabile dibattito sul ruolo degli intellettuali nella società. Piuttosto, passeremo in rassegna quei testi e quei pensatori che costituiscono imprescindibili punti di orientamento per comprendere la questione così come si presenta in qualsiasi momento storico, non solo in quello attuale (ricordiamoci che siamo malati di storicismo). In questo articolo, siccome la filosofia è tale in quanto, dichiarato un lato del problema, prende avvio da quello opposto, presentiamo il caso in cui alcune posizioni politiche o culturali hanno cercato di legittimarsi facendo anche ricorso al pensiero di un determinato filosofo.

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Shakespeare, as you like it!

Non sono molti i testi critici che hanno tentato di affrontare in maniera sistematica la filosofia che sta a fondamento delle opere di Shakespeare. Il rischio è quello di dire di più di quanto l’autore avesse inteso dire oppure di presentare un generico elenco di temi che poco però riesce a chiarire l’impianto complessivo del suo pensiero: in un rischio simile ad esempio incorre Colin McGinn nel suo Shakespeare filosofo dal momento che quello che presenta lo studioso americano, anziché essere il significato nascosto della sua opera (come recita il sottotitolo), sembra essere piuttosto un insieme di temi eterogenei non legati tra loro da un’idea complessiva. Più coraggiosi ci sembrano invece altri tentativi che, seppure con rischi e contraddizioni, hanno tentato di affrontare in maniera più unitaria il pensiero derivante dalle sue opere teatrali.

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La decadenza della legge

giuramento legge

Abstract
This article is an attempt to establish a relationship between the decline of the traditional idea of law and the rise of values in the legal systems of continental Europe.  In paragraph 1, the author affirms that the current legal system in continental Europe is based on a pyramidal conception of the law, according to the system designed by Hans Kelsen. This idea of law is marked by the dominance of the criterion of validity.  In paragraph 2 he analyzes the emptying of the function of the law due to the rise of values. In paragraph 3 he defines the current concept of law. In paragraph 4, he examines other legal systems, which were marked by the dominance of the criterion of effectiveness and legal certainty. In paragraph 5 he argues that the current decline of the idea of ​​law is a necessary consequence of a system that considers the law exclusively based on the criterion of validity. In paragraph 6 he claims that to restore the centrality of legal experience is probably necessary to leave the primacy of the criterion of validity.

La legge
In ambito giuridico, l’epoca moderna si è fondata sull’idea di fattispecie come strumento di previsione di eventi futuri incerti dai quali vien fatta scaturire una conseguenza giuridica. Al momento del suo massimo splendore la fattispecie consentiva di regolare more geometrico i rapporti tra gli uomini, arginando l’imprevedibilità del continuo divenire in cui è immersa l’esperienza umana.

Il tema viene trattato in un articolo del prof. Natalino Irti, apparso nell’ultimo numero della Rivista di diritto processuale, dal titolo La crisi della fattispecie (Irti 2014 [1], 36 e ss). A dire di Irti «proprio la tipizzazione semplificatrice permette alla norma di non consumarsi in un singolo giudizio applicativo, ma di prendere in sé un numero indefinito di eventi, riconducendoli, di volta in volta, entro date fattispecie e provvedendoli di precisa nomina iuris. La norma “ha pensato” la realtà in anticipo; il giudice torna a “pensarla”, giovandosi di quel predire originario e misurandolo sul fatto accaduto. Ambedue si collocano nella continuità di un processo di pensiero» (Irti 2014 [1], 39).
In tale universo concettuale, la legge è lo strumento attraverso il quale si definiscono le fattispecie: l’ordine è il meccanismo che estrapola dalla informe massa dei fatti e degli atti futuri alcuni di essi, cui attribuisce significato attraverso la previsione di conseguenze giuridiche, così innescando serie causali, a loro volta ordinate col medesimo criterio, che si dipanano nel futuro. La legge è uno strumento idoneo ad ordinare il futuro e quindi, in buona sostanza, a regolare il divenire ((Sul diritto positivo come forma della volontà di potenza dell’uomo, che «non riproduce né rispecchia dati della natura esterna, ma istituisce il proprio mondo» si veda ancora Irti 2014 [2], 167  nonché, e in precedenza, già Severino – Irti  2001). Si tratta di una strutturazione dell’universo giuridico in termini rigorosamente positivistici, in cui è forte l’eco del pensiero di Hans Kelsen. La chiave di volta del sistema è costituita dal momento di validità: la legge trova forza e fondamento nel meccanismo di formazione della legge, ossia nel complesso delle regole che soprintendono alla sua formazione, il che conferisce all’esperienza giuridica la forza di una razionalità apparentemente del tutto neutrale. Continue Reading

Laicità e Ragione

In occasione della festa di Sant’Ambrogio, a Milano, come è consuetudine, il cardinale Angelo Scola (arcivescovo di Milano) ha tenuto un discorso assai interessante, toccando dei punti centrali in riferimento alla questione della libertà religiosa e della laicità dello Stato. La tesi del cardinale (oramai avvezzo, a questo tipo di tematiche) prende le mosse da una constatazione, direi, sociologica. Infatti secondo Scola le varie confessioni religiose (non solo una) sono schiacciate, emarginate ed espulse (parole dell’arcivescovo), da parte di una cultura secolarista “che attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose”. Ma inoltre, secondo Scola, la neutralità dello Stato in ambito religioso – ovvero ciò che viene comunemente chiamata laicità – non ha portato lo stesso Stato ad una condizione di oggettività e accettazione di tutte le confessioni. Perché dietro a quella neutralità laica viene nascosta una “una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo Stato la fa propria finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa”.
Le parole sono chiare, inequivocabili. Lo Stato si è celato dietro ad una certa neutralità, per essere, in realtà, uno stato secolare. E ciò va dimostrato. Meno chiare sono le soluzioni che il cardinale intende proporre per ovviare a questo problema, se di problema si tratta. Vale la pena leggere le parole dello stesso Scola, per chiarire la sua soluzione:

Come ovviare a questo grave stato di cose? Ripensando il tema della aconfessionalità dello Stato nel quadro di un rinnovato pensiero della libertà religiosa. È necessario uno Stato che, senza far propria una specifica visione, non interpreti la sua aconfessionalità come “distacco”, come una impossibile neutralizzazione delle mondovisioni che si esprimono nella società civile, ma che apra spazi in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune.
Conviene tuttavia chiedersi: il modo migliore di affrontare questa delicata situazione è rivendicare una liberty of religion delle diverse comunità, chiedendo il rispetto delle “peculiarità” delle loro sensibilità morali minoritarie? Questa sola richiesta, anche se doverosa, rischia di rafforzare sulla scena pubblica l’idea secondo cui l’identità religiosa è fatta di nient’altro che di contenuti ormai desueti, mitologici e folcloristici. È assolutamente necessario che questa giusta rivendicazione si iscriva in un orizzonte propositivo più largo, dotato di una ben articolata gerarchia di elementi.

Al di là del linguaggio al limite del burocratico, insomma, Scola propone che lo Stato ripensi la sua condizione aconfessionalità, intendendo in modo nuovo la libertà religiosa.
Non entrando nel merito italiano, ma rimanendo super partes, ed analizzando – a partire dal discorso di Scola – la questione fra laicità dello Stato e libertà religiosa, vorrei proporre qualche riflessione.
Pensare che una qualsiasi confessione religiosa possa intromettersi nella regolamentazione dello Stato è, a mio avviso, impossibile. Infatti: lo Stato è l’ente che deve permettere ad una società di mantenersi in pace ed unità sotto certi princìpi (la Costituzione, ad esempio) permettendo, così, lo sviluppo e la crescita culturale, economica ed umana, dei propri cittadini. Dai compiti dello Stato (e qui le mie idee si rifanno al grande filosofo inglese del 1600, Thomas Hobbes) esula quello di indirizzare religiosamente gli animi dei cittadini. Lo Stato deve riferire il suo operato alla condizione terrena degli uomini, che all’interno dei confini geografici della propria nazione vivono la propria vita, ed esercitano la loro libertà.
La religione ha un altro compito, quello di – semmai – “salvare” le anime. La religione è un fatto privato, che non può e non deve coincidere con la sfera pubblica.
I dogmi religiosi non possono ostacolare la libertà degli altri membri della società che non posseggono la stessa inclinazione religiosa. Per fare un esempio: non si può privare un cittadino della libertà di applicare su se stesso una dolce morte, o eutanasia, perché una parte, ingerente e numerosa, della società vede come un peccato religioso l’esercizio di tale libertà. E così, per molte altre cose.
Non sto qui dicendo che lo Stato debba, per essere veramente neutrale, permettere tutto. Le regole e le leggi di uno Stato laico (e va sottolineato) guardano al Bene Comune, si indirizzano verso la comunità e la sua pacifica esistenza.
Come già hanno detto in molti, l’autorità statale, giuridica, politica, deve essere posta al primo, ed unico, gradino del mantenimento pacifico della società civile.
Ogni religione, in quanto opinione fondata su dei dogmi, non può intravedere il bene per tutti, perché – essendo credenza – ingloba nelle sue convinzioni solo coloro che aderiscono al suo credo.
L’idea hegeliana che lo Stato e la Religione siano le due facce di una stessa medaglia, e che non c’è Religione se non è religione di Stato, è un’idea che si è introdotta in molte sacche di pensiero. E si è attuata in molti stati, sotto diverse forme.
Ma è una idea obsoleta, che conduce all’immobilismo giuridico, alla limitazione della libertà dovuta ad un atto di fede, che è a sua volta una limitazione della ragione.

(Nell’immagine, uno scorcio di Perugia, città papale …)

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