L’aristocratico liberale profeta della politica moderna

Alexis de Tocqueville è conosciuto soprattutto per La democrazia in America, opera pubblicata tra il 1835 e il 1840, nella quale, dietro l’esempio della nascente repubblica americana, fissava le condizioni per lo sviluppo democratico e liberale degli stati moderni, mettendo in guardia contro i pericoli derivanti dalla società di massa. Tocqueville vede con chiarezza l’alternativa tra libertà e uguaglianza: il crescente sviluppo democratico pone un serio problema alla libertà dell’individuo, minacciato in modo crescente dallo sviluppo di uno stato enorme e tutelare che toglie ai cittadini il potere di autogovernarsi. Le radici di una simile evoluzione sono indicate in modo dettagliato in un’altra opera, L’antico regime e la rivoluzione, scritta nel 1856. Inquieto a livello temperamentale e sempre alla ricerca di una chiave di lettura univoca dei fenomeni oggetto di studio, Tocqueville riassume in essa non solo il suo genio di pensatore ma anche la sua personale esperienza nell’ambito della politica e dell’amministrazione dello stato.


La perdita della libertà politica causata dalla Rivoluzione francese
Lo stile di Tocqueville è il medesimo dell’opera più celebre: un’osservazione minuta dei fatti, anche dei più semplici e apparentemente insignificanti, un’analisi dei costumi e delle abitudini dei cittadini per poi passare, tutto ad un tratto, ai giudizi generali di tipo speculativo. Quella del francese è la penna dello scrittore classico, capace di elevare la riflessione dalla sfera del contingente a quella dell’universale. Due sono i temi sui quali si concentra la sua attenzione: quello della libertà politica e i rapporti tra intellettuali e potere.
Il ritornello più frequente di Tocqueville è costituito dalla tesi della perdita della libertà politica patita dai francesi dopo la Rivoluzione del 1789. Esistente ancora nell’antico regime, sebbene con delle limitazioni, essa scompare con la vittoria dei giacobini. Cosa intende Tocqueville per libertà politica? Il potere dei cittadini all’autogoverno e il diritto di dirigere i propri affari. Proprio questi, sostiene il pensatore francese, sono stati soffocati dal rigido centralismo amministrativo il quale, sebbene nato nel medioevo, trova nella Rivoluzione il suo più grande sviluppo. La crescente burocratizzazione del governo indica la volontà dello Stato di dirigere anche gli affari minimi e più lontani dei territori e dei comuni, con la conseguente nascita di una nuova aristocrazia, quella dei pubblici funzionari, prepotente, irresponsabile, composta da individui che si atteggiano come tutori nei confronti degli altri cittadini.
La nascita di tale casta non è il solo motivo del venir meno della libertà politica. Una causa importante è da ricercare nell’amore smodato per il benessere il quale, facendo crescere negli uomini il sentimento dell’individualismo, ha tolto ai cittadini il gusto per la partecipazione agli affari pubblici. La democrazia diventa così quel sistema di governo che dispone gli uomini ad invocare un padrone che sia in grado di gestire gli affari comuni a tutti.  Deciso oppositore della visione statalista comune agli economisti del settecento, Tocqueville rigetta l’idea di uno stato plasmatore dei costumi morali ed economici dei propri cittadini.

La letteratura al posto dell’impegno civile
L’altra questione riguarda il rapporto tra intellettuali e politica. In pagine eloquenti, Tocqueville inquadra così il problema: «In qual modo letterati e scrittori senza grado sociale, senza ricchezza, né onori, né responsabilità, né potere, divennero, di fatto, i più importanti uomini politici del loro tempo, anzi i soli importanti, poiché, anche se altri esercitavano l’azione di governo, essi soli sembravano dotati di autorità?» Il problema è quello che si sarebbe evidenziato da lì a poco: proprio il venir meno della libertà politica, costituisce la fortuna degli intellettuali. Una sola libertà si era conservata, quella di filosofare sull’origine della società e dei governi, con la conseguenza di produrre tante teorie astratte che non hanno alcuna presa sulla realtà. In tal modo, le passioni sociali e le proteste popolari furono ammantate di paludamenti filosofici e la vita politica fu costretta nella letteratura. Gli scrittori, secondo Tocqueville, presero le redini dell’opinione pubblica e si ritrovarono ad occupare il posto che, nei paesi liberi, spetta ai partiti. Ritorna il confronto con la società anglosassone: mentre in Inghilterra politici e governanti operavano mescolati, in Francia il mondo politico rimaneva diviso in due regioni distinte: da una parte si amministrava, dall’altra si enunciavano principi astratti. La conseguenza fu che tutta l’educazione politica di un popolo venne fatta e preconfezionata da letterati e scrittori e ciò contribuì in maniera determinante allo spirito della Rivoluzione.

Un liberale triste e malinconico contro la tirannia della maggioranza
In un recente articolo apparso sull’Economist, Tocqueville viene definito il più cupo tra tutti i grandi pensatori liberali, soprattutto a motivo della sua preoccupazione secondo cui la democrazia potrebbe non essere compatibile con la libertà. Quali sono gli insegnamenti che possiamo trarre oggi dal suo pensiero? Molti. Il fenomeno dell’industria culturale, l’idea cioè di una produzione intellettuale ormai svuotata di contenuto critico, è ormai un classico delle analisi sulla società moderna, tanto da essere stato ripreso a piene mani dalla scuola di Francoforte. Allo stesso modo, il tema dell’isolamento dell’individuo e del volontario rifiuto dei cittadini dalla partecipazione alla vita politica.
Non altrettanto, invece, sembra sia stata appresa la lezione in merito all’enorme accrescimento del potere dello Stato. Anzi, oggi domina la vulgata secondo cui un presunto dominio del neoliberismo e delle grandi imprese del capitale avrebbe ridotto ed emarginato il potere degli stati e dei popoli. L’economia cioè avrebbe ormai il primato sulla politica. È davvero questa la realtà delle cose? Certamente, che le grandi imprese abbiano guadagnato un peso smisurato nell’ambito pubblico è cosa sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, come dimostrano molti segnali (non ultimo lo scontro in corso tra Usa e Cina sulla tecnologia digitale), gli Stati sono ancora i veri detentori del potere ultimo. Cosa evidentissima nel nostro Paese in cui di vero liberismo e di neoliberismo ce n’è sempre stato poco, a favore del dominio di una burocrazia che sembra vivere esclusivamente per la propria autoalimentazione. Lo Stato insomma è ancora oggi il vero Leviatano della politica, strumento della cosiddetta “tirannia della maggioranza”. Colpa di chi? Degli uomini, scrive molto semplicemente Tocqueville, perché «la causa reale, la causa decisiva che fa perdere agli uomini il potere, è che sono diventati indegni di esserlo».


Riferimenti bibliografici
A. de Tocqueville, L’Antico regime e la rivoluzione in Scritti politici, volume primo, a cura di Nicola Matteucci, Utet, Torino, 1988

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

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