De infinito

Scienza e filosofia, da ormai più di due secoli, per una serie di ragioni che cercheremo di indagare, hanno separato, con pregiudizio per entrambe, i rispettivi cammini. Noi di RF lavoriamo per una loro riconciliazione. In questa nuova rubrica  apriamo il nostro sito ad articoli, saggi e dialoghi che intendono rendere conto delle implicazioni filosofiche degli enormi progressi compiuti dall’uomo nell’ambito della ricerca scientifica in generale ed in quella fisica e cosmologica in particolare. Il nome della sezione rende omaggio ad una delle grandi opere italiane di Giordano Bruno, il De l’infinito universo e mondi pubblicato nel 1584.  Numerosi saranno i nostri ambiti di interesse. Tra i tanti ci piace segnalare quello legato alla missione del satellite Keplero messo in orbita dalla Nasa, grazie al quale sono stati scoperti milioni di pianeti simili alla terra.

La sezione sarà curata, nella parte più propriamente cosmologica, da Giammarco Campanella, dottorando in fisica astronomica alla Queen Mary University di Londra e già autore, nonostante la giovane età, di articoli e libri in ambito non solo accademico. Non mancheremo di sgombrare il campo da errori e superstizioni che, come spesso accade quando si tratta di temi non legati all’interesse quotidiano del grande pubblico, albergano copiosi nella mente della cosiddetta opinione pubblica.

Cominciamo dunque con un articolo, a mo’ di dialogo, sulla vera natura del calendario Maya: Il calendario Maya: la cattiva divulgazione e la buona scienza.

L’illusione e l’economia

In un articolo apparso il 12 gennaio su Repubblica, il filosofo Maurizio Ferraris sostiene la tesi secondo la quale l’economia è l’ambito privilegiato in cui vige il principio secondo cui non ci sono fatti ma solo interpretazioni. “Se c’è un campo in cui i fatti sembrano di gran lunga superati dalle interpretazioni, questo non è, come futilmente sostenevano molti epistemologi del secolo scorso la fisica, ma l’economia”.

La tesi sembra paradossale. Non sono forse stati gli ultimi due secoli quelli nei quali buona parte della filosofia e delle scienze sociali (e basti citare soltanto l’esempio di Marx a questo proposito) ha sostenuto l’idea che l’economia sia la struttura e il fatto fondamentale sopra il quale si edificano tutti gli ambiti del sapere umano? Non è stata l’economia il terreno sul quale la filosofia ha potuto effettivamente esercitare l’eredità del suo glorioso passato tanto da poter dire che “i filosofi hanno diversamente interpretato il mondo mentre ora si tratta di cambiarlo?”

Ferraris precisa certamente “che nessuno si sognerebbe di negare che esista una realtà economica, proprio come esiste una realtà giuridica. Ma è anche necessario sapere che questa realtà, così come tutti gli ambiti in cui si assiste alla produzione di oggetti sociali, deve essere sistematicamente interpretata e relativizzata” in base al principio per cui ogni oggetto dipende dal soggetto. Per questo l’economia avrebbe, conclude il filosofo, al contrario di quello che avviene per gli oggetti naturali, un grande bisogno di ermeneutica al fine di contrastare la tirannia dei fatti economici.

L’articolo di Ferraris, che con tale affermazione sembra ritirare con una mano quello che aveva concesso con l’altra, conclude per una sorta di necessità ermeneutica che tenda a sospendere o a temperare quel movimento, chiamato neo-realismo (da lui stesso rilanciato) volto a ristabilire il primato della realtà esterna o dei fatti rispetto alla coscienza umana. Ferraris dovrebbe allora chiarire meglio in che modo il suo realismo debba essere compatibile con le esigenze di una giusta, migliore e favorevole interpretazione dell’economia (al di là della problematica affermazione della differenza tra oggetti naturali e oggetti sociali).

Il problema generale tuttavia, nel quale risiede il nido di contraddizioni nel quale il neo-realismo tende a cacciarsi, è che il tentativo di affermare l’autonomia della realtà esterna viene fatto in modo ingenuo, come cioè se dimenticasse la svolta copernicana di Kant, annunciata già da Cartesio e radicalizzata poi da Hegel, in base alla quale ogni fatto è prima di tutto il fatto ineludibile della propria coscienza e della propria soggettività. Se non saprà risolvere questo problema, che consiste nella verità dell’idealismo, e renderla compatibile con la tesi di chi sostiene l’esistenza di una realtà indipendente dalla coscienza, la filosofia non uscirà dal vicolo cieco nel quale è stata relegata all’inizio dell’età moderna.

L’agnosticismo intollerante

Nel discorso del 6 gennaio rivolto ad alcuni vescovi di fresca nomina, papa Benedetto XVI si è scagliato con inaudito vigore contro l’agnosticismo. «L’agnosticismo oggi largamente imperante ha i suoi dogmi ed è estremamente intollerante nei confronti di tutto ciò che lo mette in questione e mette in questione i suoi criteri». Ben diverso il tenore del discorso tenuto ad Assisi nel settembre del 2011 quando invece gli agnostici erano considerati «persone che soffrono a causa dei peccati dei credenti e più vicine al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli di routine». Se non si vuole attribuire incoerenza alle parole del papa, l’agnosticismo si compone ora di due categorie, quello buono e quello cattivo. Una strana partizione per coloro che si dichiarano scettici nei confronti della conoscenza prescindendo dalle categorie di bene e di male.

Quello del papa è in realtà un discorso che ripropone i tratti tipici della violenza religiosa. Questa volta però, grazie alla fortunata circostanza in base alla quale la Chiesa cattolica non esercita più direttamente il potere politico, il suo capo invoca eroismo per i vescovi tramite la capacità di attirare la violenza su di sé: «E tale valore o fortezza non consiste nel colpire con violenza, nell’aggressività, ma nel lasciarsi colpire e nel tenere testa ai criteri delle opinioni dominanti». Ammesso e non concesso che sia necessario ribadire concetti simili – chi ha mai pensato che il valore e la fortezza consista nell’aggressività? Forse il pontefice si riferisce a passate abitudini della Chiesa? – questo appello all’essere percossi colpisce, è il caso di dirlo, perché ripetuto più volte nel discorso, accentuando la sensazione di avere a che fare con qualcuno che parli con lo scopo di cercare deliberatamente la provocazione.
Vorremmo tranquillizzare il pontefice. La violenza di cui parla può essergli data, come purtroppo avviene in alcune parti del mondo, soltanto dalle religioni come la sua e non certo da agnostici o da coloro che sono gli autentici cercatori della verità, ovvero i filosofi. Per questi infatti non solo non esiste ricorso alla violenza (come ampiamente dimostrato dalla storia) ma, per molti di loro, non si dà nemmeno un cammino verso la verità. Questo per il semplice motivo, come diceva l’apostolo Giovanni, che noi tutti agiamo, ci muoviamo e siamo in Dio (1 Gv 4, 16) così che da sempre l’uomo dimora nella verità.
Eppure il papa insiste su questo tema. «La ricerca della verità era per loro – cioè i magi, ndr – più importante della derisione del mondo, apparentemente intelligente». Si ripropone uno schema classico, quello dell’audizione di San Paolo di fronte ai filosofi di Atene, narrato in Atti 17, 16-34: «Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: Ti sentiremo su questo un’altra volta». Ma si dimentica tuttavia che il vero discorso aeropagitico è oggi soltanto quello della filosofia che da duemila anni vive nella città dominata dalle religioni.

Il discorso del papa dimostra ancora una volta il grande complesso di inferiorità della religione nei confronti della filosofia. La ricca religione, pur avendo tutto dalla sua parte (dogmi, numeri, forza organizzativa, appoggi politici ecc.) manca dell’unica cosa di pertinenza della povera filosofia: la verità. E da sempre la prima tenta di sottrarre alla seconda questa sua prerogativa. Per una sorta di curiosa eterogenesi, i credenti e il papa finiscono per fare la figura dei farisei nei confronti del cieco nato, così come mirabilmente riportato nel lungo e straordinario brano del vangelo di Giovanni (Gv 9, 1- 41). Dopo le loro continue ed incredule indagini, prima tra la gente e poi con i genitori, i farisei finirono per domandare irritati al cieco guarito da Gesù: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi? E questi rispose loro: ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato: perché volete udirlo di nuovo? Volete diventare anche voi suoi discepoli?». A questa acuta contro-domanda, che scopriva le loro segrete intenzioni, quelle cioè di voler essere come Gesù, i farisei persero la ragione e finirono per insultare prima e cacciare poi il cieco guarito. La Chiesa sembra oggi essere come quei devoti religiosi, desiderosa, ma incapace, di essere autentica discepola della verità. Ed è proprio questa sua impossibilità a generare la violenza.
All’infuori di qualche timido cinguettio, non sappiamo se alcuni tra agnostici o filosofi abbiano risposto al papa. Certo, la filosofia non ha un pontefice che può parlare ex cathedra avvalendosi di potenti strumenti di comunicazione. La religione tuttavia, nonostante tutte le apparenze contrarie, è più debole nei confronti della filosofia così come il mito è più debole della verità e la tecnica più debole della necessità (e la tirannia più debole della democrazia).

Pinocchio, Cuore e l’arretratezza italiana

Nel Domenicale del Sole 24 ore del 9 dicembre scorso, sotto il titolo “Un’etica per l’Italia”, si da notizia della pubblicazione nell’edizione nazionale delle Opere di Collodi delle Avventure di Pinocchio. Corrado Augias, in relazione ad una lettera sullo spirito civico italiano inviata da un lettore di Repubblica il 13 dicembre scorso, risponde indicando come esempio da seguire il romanzo Cuore di De Amicis.
Fatto salvo il grandissimo valore editoriale, letterario e storico di quelle due opere, che tra l’altro hanno hanno avuto il merito di avvicinare migliaia di persone alla lettura concorrendo in modo decisivo alla costruzione dell’identità nazionale, il problema (come spesso in quasi tutti i problemi e le ambiguità italiane) è che Pinocchio e Cuore sono state le espressioni più insidiose della nostra arretratezza civile, politica e culturale. Un’arretratezza che coinvolge il modo con il quale la scuola e in generale l’istruzione è percepita nel nostro paese. (continua a leggere)

Fare gli italiani con lo Stato, la scuola e la letteratura “per l’infanzia”

L’identità nazionale italiana e la dottrina dei due popoli.
La letteratura per l’infanzia, nella quale in modo atipico vengono classificati Pinocchio del 1883 e Cuore del 1886, si inquadra nel tema più generale della costruzione dell’identità nazionale italiana. A livello di cultura politica, il processo unitario dello Stato si era caratterizzato per alcuni elementi fondamentali: essere stato un fatto elitario del ceto borghese in cui le classi popolari non hanno sviluppato una propria idea di Stato ma ne sono state sempre subalterne; mancato allargamento della rappresentanza politica; contrapposizione e scontro con la Chiesa cattolica, ovvero la principale e più radicata fonte di legittimazione civile presente in Italia. La prima di queste caratteristiche discende dalla dottrina dei due popoli di stampo positivistico, ripresa e legittimata in particolare, nella seconda metà dell’ottocento, dall’hegelismo napoletano (Verra, Meis, Spaventa). Lo Stato etico è portatore di una visione superiore a quella della società civile e lo Stato si fonda sul principio oligarchico. Nasce la visione autoritaria e pedagogica: i ceti popolari sono come dei bambini ed il primo compito dello Stato non è istruire bensì educare attraverso la trasmissione di valori morali imposti dall’alto. Il ceto popolare non può per principio ambire a responsabilità politiche: le plebi devono solo sfuggire all’abbrutimento a cui sono destinate ma non a porre richieste di rappresentanza e di emancipazione nei confronti di un ceto borghese, quello italiano, profondamente diverso, in senso reazionario e decisamente avverso allo sviluppo delle libertà, da quello europeo. La teoria dei due popoli, che separa le classi colte da quelle popolari, è la cifra decisiva della costruzione dell’identità civile e politica italiana. In questo modo il modello religioso della Chiesa cattolica, fondato sulla distinzione tra preti e laici, viene sostanzialmente reintrodotto nello Stato: l’anticlericalismo viene di fatto utilizzato per l’elaborazione di un nuovo clericalismo laico. I ceti popolari, come dirà Crispi, sono “pupille” e si guarda ad esse come a delle fanciulle da educare e da riscattare. In tal modo si è ben lungi dal considerarle come interlocutrici alla pari: la cittadinanza è debole, continuamente sorvegliata, e la democrazia, intesa come uguaglianza di dignità e opportunità, inesistente. La cittadinanza debole dei ceti popolari, a sua volta, non si riconoscerà mai nello Stato visto sempre con il volto della forza pubblica, della coscrizione obbligatoria, della scuola paternalistica.

La scuola italiana e la figura del maestro.
Dalla teoria dei due popoli discende una precisa progettualità scolastica e culturale che si struttura nelle varie riforme che hanno caratterizzato la storia italiana fino ad oggi. L’educazione dei ceti popolari farà leva sui sensi e la fantasia insieme ai necessari doveri morali; l’educazione della borghesia sulla razionalità e sul modello dialettico hegeliano natura-filosofia-religione. Da ciò discende, nel primo caso, una scuola elementare imperniata sullo scrivere, leggere e far di conto; nel secondo caso, una scuola liceale elitaria fondata sulla cultura classica. Figura fondamentale, vero e proprio anello di congiunzione tra queste due classi sociali, è il maestro. Egli, come si legge nei Programmi del 1888, è l’esecutore della disciplina scolastica intesa come strumento più poderoso per educare gli allievi ai propri doveri. La sua figura deve essere esemplare in modo da infondere in tutte le occasioni i valori della concordia, della laboriosità e dell’onestà educando al senso di cittadinanza. A fronte di questo ruolo, il maestro non ha diritto di voto e la sua condizione economico sociale è poco più di quella di un reietto. In questo senso lo stesso De Amicis scrisse delle pagine esemplari in un’altra opera, Il romanzo di un maestro del 1890, rimasta purtroppo oscurata dal successo dell’opera maggiore di quattro anni prima. Nel romanzo di un maestro è descritta, attingendo a fonti giornalistiche, ministeriali ed epistolari, la condizione di miseria e le umiliazioni alle quali sono spesso esposti i maestri elementari, da sempre mal pagati e oggetto dei soprusi di preti, sindaci e autorità ministeriali. I numerosi ritratti fatti da De Amicis sono illuminanti della reale condizione dei maestri e delle maestre. La svalutazione professionale dell’insegnante elementare era avvenuta già con la legge Casati del 1859 la quale aveva abolito l’equiparazione con gli insegnanti di scuola secondaria e lo aveva ridotto a semplice esecutore di direttive ministeriali. La legge, pensata per la realtà piemontese-sabauda, venne estesa al territorio italiano ed applicata attraverso circolari configurando così uno dei peccati d’origine della scuola (e di tutto lo Stato italiano): la preminenza del diritto amministrativo sul diritto pubblico.  Come scrisse Gaetano Mosca in quegli anni, molto spesso in Italia l’insegnamento è svolto da persone che ripiegano sulla scuola dopo i propri fallimenti professionali. Curioso allora notare come la scelta di fare l’insegnante sia ben lungi dall’essere quella scelta vocazionale che la retorica ufficiale utilizza per esaltare la professione.

La letteratura per l’infanzia.
Uno degli strumenti più efficaci nella formazione dell’identità nazionale è la letteratura per l’infanzia. Da un punto di vista storico essa si sviluppa in Italia sulla scia di un testo del 1859 che ebbe grande successo in Inghilterra, Self help di Samuel Smiles, il quale diede vita al cosiddetto “filone lavorista”. Pubblicato in Italia nel 1865 con il titolo Chi si aiuta, Dio l’aiuta, il libro ebbe una fortuna enorme arrivando a ben 55 edizioni. La traduzione è però interamente adattata alla cultura paternalistica italiana. Se nella società inglese ed europea il self help è sinonimo di realizzazione sociale e prevede la mobilità delle classi fondata sul merito, strutturandosi sulle qualità individuali che ad essa sono imprescindibili, molto diverso è il caso del lavorismo italiano. In questo caso infatti l’ideale dell’ascesa sociale si infrange su un sistema ostile che la giudica come “rampantismo” ed “arrivismo”: il lavoro ha il solo significato di strumento per conseguire una certa agiatezza personale attraverso l’ottenimento di una posizione di privilegio. Al contrario, il lavoro non è mai strumento di crescita civile e sociale: il passaggio dall’una all’altra classe, se e quando avviene, si ha sempre e solo sotto forma di cooptazione, mai sotto l’egida dell’autonomo sviluppo delle capacità individuali. Il “lavorismo” italiano finisce così per legittimare le differenze sociali e partorisce una vera e propria fascinazione per chi comanda: nasce il mito dell’emulazione delle classi agiate da parte delle classi popolari che altro non è se non il mantenimento nascosto delle differenze sociali. Continua a mancare quella mentalità in base alla quale, anche in presenza di differenze economiche e reddituali, i cittadini hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri. Lo spirito della democrazia è ancora alieno alla nostra cultura.
I romanzi di Collodi e De Amicis hanno anch’essi un successo clamoroso con Cuore che vende più di un milione di libri. Non può sfuggire l’osservazione per cui i due libri italiani di maggior successo sono libri per bambini ad uso degli adulti. Non si esce dall’ottica dei due popoli: ci si rivolge ai maggiorenni con gli stessi modi usati verso i minorenni. Se poi le due opere contengano messaggi esoterici, come una certa parte dei critici sembra avallare facendo leva sulle personali attitudini illuministiche degli autori, si tratta di un altro discorso. Troppo forte è l’uso che le stesse autorità politiche hanno fatto dei romanzi in questione. Pinocchio, con le figure stereotipate della fatina, dei cattivi, dell’orco buono, insiste sulla dimensione della disciplina, delle regole, del perbenismo (con il quale si chiude il romanzo stesso: “come ora son contento di esser diventato un ragazzino per bene!”). Cuore, propone di fatto un’idea di cittadinanza a due velocità: da una parte la classe elitaria della buona borghesia, dall’altra la massa indistinta delle classi popolari che spesso si sacrifica per la prima. E’ vero che Cuore soppianta l’educazione religiosa. Ma lo fa in nome di valori sentimentalistici e moralistici che ripropongono i medesimi schemi di quelli religiosi. Il diario di Enrico Bottini, sul quale si sviluppa il romanzo di De Amicis, è lo strumento con il quale viene veicolata nella scuola e nel Paese una precisa idea della cittadinanza: i buoni sentimenti al servizio della conservazione sociale; i personaggi che incarnano veri e propri idealtipi della nostra società, la povertà dignitosa, l’irrilevanza del merito, il perbenismo, il paternalismo. Il tutto avvolto dalla fatalità e dalla rassegnazione. Cuore, nonostante i suoi indiscussi meriti, ha in realtà instillato un vero e proprio veleno nelle giovani generazioni. Non a caso esso fu ripreso ed esaltato dallo stesso fascismo e poi dalla Democrazia cristiana nei primi quarant’anni della nostra repubblica. Indicarlo oggi come esempio di civismo significa mancare ancora una volta l’appuntamento con la crescita libera e responsabile degli italiani.

Questo articolo è frutto della selezione e della rielaborazione di appunti personali presi in un corso di storia della pedagogia dal titolo “Scuola e costruzione dell’identità nazionale in Italia dall’Unità all’età crispina” tenuto dal prof. Roberto Sani all’Università di Macerata nell’anno accademico 2007/2008.

Alla Fiera del libro di Francoforte

La Buchmesse di Francoforte, la fiera del libro più grande del mondo, si è svolta quest’anno dal 10 al 14 ottobre. Cominciata nel XV secolo, già nel 1574 veniva descritta in questo modo: «La quantità di libri antichi e moderni che si trovavano era indescrivibile. Sembra una fiera nelle fiere che poteva ben dirsi delle Muse. Gli stessi italiani dovevano rimanere stupiti: dovevano dubitare della propria superiorità nel chiedersi che cosa avrebbero saputo opporre di simile» (Henry Etienne, Encomium Nundinarum Francofordiensium). Lo stesso Giordano Bruno, come ricorda Anacleto Verrecchia nel suo libro sul filosofo nolano, fece stampare e mise in vendita due sue opere nella fiera del 1591, testi che costituirono, proprio per la pubblicità che ebbero, l’inizio della sua rovina.

Oggi la filosofia corre il rischio dell’indifferenza. Lo spazio espositivo a lei concesso è minimo ed è comunque circoscritto alle case editrici che la prevedono nel proprio catalogo. Questo a differenza della religione, che ha invece un proprio ambito tematico proprio, con decine di case editrici che pubblicano sia libri tradizionali che libri di spiritualità in genere. Proprio quest’ultima tendenza ha il richiamo più forte con scrittori che, in vere e proprie prediche all’interno degli stand, assicurano che i loro libri sapranno istruire i lettori su  come vivere in pace, con amore e nel pieno benessere psico-fisico (ovviamente a casa e sul posto di lavoro). Interessante e di grande pregio la sezione antiquariato, simpatica quella riservata ai bambini, vastissima quella dedicata al turismo. In crescita la presenza della Cina fresca del nobel per la letteratura.

L’Italia, come al solito, dà il meglio di sé con espositori indipendenti, soprattutto nell’ambito dell’editoria artistica. Lo stand ufficiale, promosso dall’Associazione Italiana Editori e dal Ministero dello Sviluppo economico, è una miscellanea di nomi più o meno noti con tante case editrici cattoliche. Migliore l’allestimento della Libreria Vaticana con uno stand, posto vicino a quello italiano, curato, sobrio e attraente. Ospite di quest’anno la Nuova Zelanda.

Tantissimi, come al solito, i visitatori accorsi nelle giornate di sabato e domenica (quelle aperte al pubblico) nella cornice di uno spazio fieristico vasto e funzionale. La città in questi giorni si muove attorno alla sua Fiera. Le piazze del centro e la grande arteria commerciale dello Zeil è animata da stand di vario tipo con venditori giunti da varie parti d’Europa. Di seguito il servizio fotografico di RF.

 

Tutti gli argomenti a difesa della libertà di pensiero

Nell’ultimo mese abbiamo assistito a diversi casi che hanno riportato in primo piano il problema della libertà di pensiero e di espressione. La reazione violentissima contro le vignette satiriche su Maometto che ha portato all’uccisione di un ambasciatore americano; la sentenza di condanna al carcere per reato di diffamazione nei confronti del giornalista Sallusti; la querela di un noto scrittore, Carofiglio, contro un critico che si era permesso di scrivere delle valutazioni negative sulle sue qualità letterarie sul proprio profilo Facebook. Casi diversissimi tra loro che meritano di essere discussi e analizzati soprattutto su un sito, come il nostro, che vuole fare filosofia non solo in ambito teoretico ma anche in quello pratico.

La libertà di pensiero è il grande principio posto a fondamento della nostra civiltà occidentale. Come ci insegna il nostro amico Spinoza, si tratta della libertà prima ed irrinunciabile e che, allo stesso tempo, è anche quella più facilmente e nascostamente manipolabile. Cardine posto a fondamento del Trattato teologico politico, la libertà di pensiero non è mai scontata ed è nostro compito capire quali sono oggi i pericoli che essa corre. Gianluca e poi Mauro hanno già scritto alcuni contributi in merito. Con questo articolo vorremmo aprire uno spazio aperto per tutti gli argomenti razionali a difesa del diritto di espressione e di opinione.

Cominciamo dalle vignette satiriche su Maometto. A questo proposito segnalo un intervento apparso sulla rubrica Opinionator del New York Times dal titolo: “Cosa c’è di sbagliato nella blasfemia?” di Andrew F. March, professore di scienze politiche alla Yale University. Come dice il titolo, l’articolo si concentra sul tema della cosiddetta blasfemia indicata implicitamente come generica critica del sacro (senza però darne definizione e questo costituisce un grave limite dell’articolo). Il prof. March inizia con l’elenco di tre premesse da cui svolgere l’intera argomentazione:

  1. gli esseri umani hanno un fortissimo interesse nel sentirsi liberi di esprimersi;
  2. il sacro è un oggetto proveniente da una costruzione umana e quindi il fatto che qualcosa sia chiamata sacra è insufficiente in se stessa per spiegare perché tutti gli esseri umani debbano rispettarla;
  3. il rispetto si dà alle persone ma non a qualsiasi cosa esse venerino, anche se alcune persone non distinguono questa differenza.

A partire da queste premesse l’autore confuta sei argomenti che giustificano la soppressione o la limitazione della libertà di espressione nei confronti delle religioni:

  1. La blasfemia trasgredisce un limite e vìola il sacro. Di fronte a questa frase, l’autore risponde con una domanda: quale ragione si dà ad altre persone di non violare il sacro se esse non sono d’accordo che x o y è sacra o ha qualche valore? Risposta: nessuna ragione.
  2. Dovremmo rispettare qualsiasi cosa le persone considerano come sacro o trattano come qualcosa di religioso. Certamente il fatto che qualcuno chiama sacro qualcosa mi deve dare l’occasione per pensare bene a quello che sto dicendo. C’è tuttavia un problema fondamentale di cui tener conto:  il fatto cioè che ammettere un principio simile fornirebbe un diritto di veto ad altre persone che possono dichiarare sacro ciò che io non ritengo tale;
  3. La gente è profondamente scossa dalle violazioni al sacro o agli oggetti nei quali c’è un forte investimento emotivo.  Si tratta di un argomento che ha la sua rilevanza. Tuttavia la sofferenza non può spiegare da sola la totalità delle nostre relazioni morali. La gente soffre per una varietà di cose diverse e non può essere invocata per restringere la libertà di espressione.
  4. La blasfemia è pericolosa. Il grande Hobbes giunse a dichiarare gli insulti come una violazione del diritto naturale, anche prima del contratto sociale. Egli non sarebbe stato sorpreso dalla reazione ai cartoni animati danesi: ogni segno di odio e disprezzo è più generativo di lotte e contese di ogni altra cosa, così che gli uomini preferiscono perdere le loro vite piuttosto che soffrire un insulto. In tal modo il fatto che una parola offensiva contribuisca ad uno scoppio di violenza è una buona ragione per non pronunciarla, spesso una ragione sufficiente. Il problema è: che tipo di ragione? Se pensiamo infatti che le nostre parole siano ragionevoli e che non intendano provocare, e nonostante ciò ci autocensuriamo, noi agiamo in nome della prudenza o della paura, trattando l’altro come irrazionale. Gli esseri umani non sono forse capaci di stabilire relazioni migliori di quelle fondate sulla paura reciproca?
  5. La blasfemia è un discorso che copre sentimenti d’odio. Certamente ciò è avvenuto ed avviene tuttora. Ma questo non significa che tutti i discorsi sui musulmani siano discorsi che mascherano sentimenti d’odio.
  6. La blasfemia rompe l’armonia sociale. Si tratta di un argomento diverso da quello delle pericolosità della blasfemia. Prendiamo l’esempio della satira protestante circa i vescovi cattolici che mangiano i bambini. Lì si tratta di un assalto ben più pericoloso di un attacco alle istituzioni cattoliche in quanto prende di mira i cattolici non come credenti ma come persone.

L’articolo si sforza poi di trovare degli elementi di appeasement con il mondo religioso sulla base di generiche obbligazioni di carattere sociale e politico. In questo caso però le argomentazioni non convincono soprattutto perché esse sembrerebbero rimettere in campo le affermazioni 2. e 3. che invece sono state confutate.

Riguardo al caso Sallusti la cosa è apparentemente più complicata. Qui non siamo in presenza di un reato di opinione ma di un reato di diffamazione, cioè di un deliberato tentativo di gettare discredito su altre persone affermando il falso. Non esiste un diritto d’opinione alla calunnia e quindi la sentenza contro il direttore del Giornale è giusta.
Le ragioni sono diverse. Prima di tutto perché chi ha scritto quell’articolo, contenente informazioni e fatti non veri, conosceva la legge e sapeva bene (a meno che non si voglia  presupporre nell’estensore dell’articolo un atteggiamento di sfacciata quanto poi ingenua impunità) a cosa andava incontro. La realtà è che il caso Sallusti non si sarebbe creato in un Paese sano che rispetta le leggi nella certezza della loro applicazione e dove la libertà di pensiero è scambio di idee anziché materia per attacchi personali. Chi, animato da spirito di ricerca della verità, avrebbe scritto un articolo del genere? La risposta è evidente: nessuno.
L’articolo incriminato poi non solo conteneva informazioni non veritiere, ma si caratterizzava per la violenza dei toni e delle parole: come è possibile, in nome della difesa del diritto alla vita, invocare apertamente la pena di morte? Tutto si può dire meno che quello scritto contenesse delle opinioni dette con animo semplice e senza ira e che invece sia stato scritto, come diceva Spinoza, «per accusare il magistrato di iniquità e renderlo odioso al volgo» (TTP XX, 7). Propriamente dunque il contenuto di quell’articolo  non rientra nel campo delle opinioni ma piuttosto delle opinioni sediziose che, in quanto tali, non possono essere permesse in un ordinamento che voglia dirsi democratico.

Vorrei segnalare infine un recentissimo articolo apparso sulla medesima rubrica del New York Times, nella quale si evidenzia, facendo riferimento ad un articolo apparso su Filosofie magazine, come l’Islam abbia causato indirettamente, in Olanda, un grande ritorno della filosofia sulla scena pubblica. Molti caffé e locali pubblici tengono regolari letture e discussioni e i libri di filosofia diventano regolarmente dei best-seller. Domande quali Che cos’è l’illuminismo?  Quali sono i valori dell’Occidente? La democrazia è antitetica alla religione? ecc. stanno riguadagnando la scena pubblica. Ogni commento sul legame di questa nazione con Spinoza è ovviamente superfluo.

Un breve dialogo su antichità e modernità

Proponiamo una parte di un denso scambio epistolare tra due grandi filosofi ebrei del novecento, Karl Löwith e Leo Strauss, pubblicato per la prima volta dalla rivista Micromega nel 1991 e poi dall’editore Donzelli nel 1999. Le lettere da noi scelte sono quelle dell’agosto del 1946 e si riferiscono al rapporto tra alcune categorie del pensiero della modernità rispetto a quelle dell’antichità. Il dialogo è stato da noi ristrutturato, notevolmente semplificato e reso più colloquiale con alcune aggiunte che servono a comprendere anche dal punto di vista dell’oggi le questioni che ne sono alla base. I nomi sono stati come al solito italianizzati.

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Strausso
Caro Lovitto,
riguardo alla questione antichi contro moderni io dico che la filosofia moderna, avendo in comune degli elementi essenziali con quella medievale, è per questo già in contrasto con la filosofia antica. Secondo me tuttavia il vero tema del dibattito, di cui la querelle antichi/moderni è soltanto una copertura, è quello tra antichità e cristianesimo. Gente come Swift e Lessing non dubitavano che l’antichità, cioè l’autentica filosofia, fosse una possibilità eterna. Noi dobbiamo superare la modernità (e quindi il cristianesimo). Ma per fare ciò dobbiamo imparare dagli antichi. In questo senso è decisivo lo studio della storia; uno studio fatto però non in modo esistenziale o con atteggiamento di superiorità, ma in modo pratico e interrogativo.

Riguardo alla politica, io credo realmente che l’ordine politico perfetto sia quello di Platone ed Aristotele. La piccola città-stato, la polis, è superiore, per ragioni politiche, sia allo stato feudale che a quello moderno. Da una parte però mi rendo conto che la polis oggi non si può più ricostituire. E tuttavia il suo modello mi aiuta a denunciare la soluzione moderna, che è quella di aver escogitato delle società chiuse, cioè gli Stati, che sono contro natura e da cui provengono i mali peggiori (vedi la bomba atomica, l’organizzazione delle città, le ideologie).

Contro Platone e Aristotele c’è solo un’obiezione: il factum brutum della rivelazione o del dio personale. E dico factum brutum perché a favore della fede non c’è nessun argomento teorico, pratico o esistenziale. E non mi si venga a parlare di cristianesimo come “paradosso”, come cianciano alcuni intellettuali cristiani, perché un paradosso è in quanto tale contestabile dall’intelletto (come dimostra Kierkegaard). Per questo è necessario superare il cristianesimo, altrimenti saremo sempre preda della violenza più cieca.

Lovitto
Caro Strausso,
riguardo al Suo discorso che da anni porta avanti sulla natura, anch’io trovo che il cristianesimo abbia modificato radicalmente la naturalità antica. Tuttavia credo che il problema sia nel fatto che nell’uomo la storia è qualcosa di troppo più forte rispetto alla sua natura e dunque la storicità prevale sulla naturalità. In altri termini: l’uomo è un essere diveniente e progettante, non naturale.

Circa il problema del dolore, nel quale si trova un esempio del contrasto tra antichi e moderni, può darsi (come Lei scrive da qualche parte) che Prometeo sia più comprensibile di Cristo, ma semplice e naturale Prometeo non lo è nemmeno lui: in questo modo è difficile dire fino a che punto la nostra snaturalizzazione sia legata al cristianesimo. Io direi che ciò che è cambiato non è la coscienza storica, ma il nostro essere storico.

In merito ai punti specifici toccati dalla sua ultima lettera Le rispondo in modo sintetico:

  1. sono d’accordo anch’io che lo Stato moderno è contro natura, ma non dimentichiamoci che contro natura è anche la polis.
  2. Il disagio della modernità nasce da questa coscienza storica, dall’avere cioè la nozione di tempi “altri”, migliori, escatologici e quando questa coscienza si smarrisce la modernità non si supera più.

Ma una cosa mi preme chiederLe più di tutte: come si fa a tracciare il confine tra naturale e innaturale? Per i greci era del tutto naturale avere rapporti con donne, fanciulle e animali; il matrimonio borghese è altrettanto innaturale della pederastia, ecc. Instaurare un ordine perfetto, sia a livello sociale che politico così come nella morale privata, è sempre un’impresa carica di innaturalità.

Strausso
Caro Lovitto,
è stupefacente come noi, che fino ad un certo punto ci capiamo molto bene, dopo finiamo per non capirci più.

Riguardo a questo ultimo punto Lei scambia l’uomo della strada greco con il filosofo greco. Platone e Aristotele non hanno mai creduto di avere dalla natura delle risposte naturali alle loro “innaturali“ domande. Platone fugge dai pragmata nei logoi, cioè dai fatti ai discorsi: i primi non danno nessuna risposta diretta, ma sono solo degli enigmi. Per quanto riguarda la sessualità essa è solo un mirabile mistero e la moralità non ha un’importanza maggiore per i filosofi. Da qui deriva l’atteggiamento pratico di questi filosofi verso la sessualità.

In generale però, Lei non coglie il vero senso della filosofia: essa è il tentativo di sostituire le opinioni sul tutto con una conoscenza del tutto. Per lei invece la filosofia non è altro che autoconoscenza o autointerpretazione dell’uomo. Per dirla platonicamente, Lei riduce la filosofia alla descrizione dell’arredamento della caverna del momento intendendo per caverna l’esistenza storica. La sua concezione rimane troppo attaccata all’idealismo-storicismo. E interpreta la filosofia nel senso dell’inevitabilità del condizionamento storico, identificando la filosofia con Weltanschauung (cioè una certa visione del mondo) e quindi facendola dipendere dalla cultura del momento.

Riguardo al rapporto Prometeo/Cristo, nel quale si trova esemplificato un particolare del più ampio rapporto tra antichi e moderni, Le ricordo che il mito di Prometeo è un mito, mentre il cristianesimo sta e cade con il presunto fatto reale che Cristo è risorto. Ebbene: che gli uomini si raccontino storie non vere, le quali hanno un senso, è secondo natura; la risurrezione invece è un miracolo ed in questo senso è completamente contro natura.

Le controribatto punto per punto alle altre due obiezioni:

  1. Il fatto che la polis sia contro natura è una tesi politica degli stessi greci, in particolare della sofistica. Io credo che a tale questione non si possa dare una risposta netta. E comunque il fatto che la polis abbia carattere istituzionale non è ancora una prova che essa sia contro natura: le istituzioni infatti aiutano le tendenze naturali. La polis antica è moralmente e politicamente la più ragionevole (e ciò non significa ancora che io vorrei vivere in una società del genere).
  2. Lei sostiene che il disagio della modernità nasce soltanto dalla coscienza storica; secondo il mio punto di vista invece, la coscienza storica è conseguenza del disagio della modernità.

Vorrei ricordarLe infine che la filosofia moderna consiste nel tentativo di sostituire la filosofia classica con quella giusta. In altre parole: la verità in cambio dell’efficacia. E questo è il contrario di quanto voleva l’unico antico tra i moderni, cioè Spinoza, il quale non pretendeva che la sua filosofia fosse quella migliore, ma soltanto quella vera.

Sulla necessità dello studio degli antichi

Il nostro sito reca la scritta “Noi siamo antichi”. A motivo di ciò, ci siamo imposti il compito di segnalare brani o testi che si pronunciano sulla necessità di studiare prima di tutto gli autori greci e latini. Questa volta presentiamo un filosofo, Schopenhauer, la cui dimensione antica deve ancora essere scoperta. Notare la sua condanna ante litteram delle storpiature linguistiche ed intellettuali di cui certi filosofi tedeschi del novecento si resero protagonisti.
«Le opere degli antichi sono la stella polare per ogni aspirazione artistica o letteraria: se la perdete di vista, siete perduti. (…) Uno dei maggiori benefici dello studio degli antichi è che esso ci preserva dalla prolissità, dato che gli antichi si sforzano sempre di scrivere in modo conciso e pregnante, mentre il difetto di quasi tutti i moderni è la prolissità, a cui i modernissimi cercano di rimediare sopprimendo sillabe e lettere. Bisogna quindi proseguire per tutta la vita lo studio degli antichi, sia pure limitando il tempo da dedicarvi. Gli antichi sapevano che non si deve scrivere come si parla, mentre i moderni hanno addirittura l’impudenza di far stampare le lezioni che hanno tenute. Molto opportunamente si dà allo studio degli scrittori dell’antichità il nome di studi umanistici, giacché grazie ad essi lo scolaro ridiventa prima di tutto un uomo, in quanto entra in un mondo che era ancora puro da tutte le smorfie del medioevo e del romanticismo, le quali penetrarono poi così a fondo nell’umanità europea, che ancor oggi ognuno viene al mondo intonacato con esse e deve prima raschiarsele di dosso per ridiventare prima d’ogni altra cosa un uomo. Non pensate che la vostra sapienza moderna possa mai rimpiazzare quell’iniziazione all’essere uomini; voi non siete come i Greci e i Romani, uomini nati liberi, figli ingenui della natura. Voi siete anzitutto figli ed eredi del rozzo medioevo e della sua assurdità, dell’ignominioso inganno pretesco e della cavalleria per metà brutale e per metà fatua (…). Senza la scuola degli antichi la vostra letteratura degenererà in chiacchiera volgare e piatto filisteismo. Per tutte queste ragioni dunque il mio consiglio benintenzionato è che si ponga subito fine ai sopra biasimati intedescamenti».  (Il Mondo come volontà e rappresentazione, II, cap.12)

Il “bilioso” Schopenhauer e l’impudenza nascosta

Lo scorso 13 luglio è apparso un editoriale sul Corriere della Sera a firma di Ernesto Galli della Loggia dal titolo “Una perfetta impudenza” con la tesi in base alla quale in Italia, paese del “tutti innocenti”, ostacolo principale a qualsiasi progresso è l’oblio autoassolutorio e la mancanza di autocritica verso le pratiche di corruzione di cui tutti cittadini si sono resi responsabili a partire dal proprio piccolo. L’articolo iniziava con un riferimento al “bilioso” Schopenhauer (aggettivo utilizzato da Francesco De Sanctis in una sua opera) secondo il quale gli italiani rappresentano l’esempio di una perfetta impudenza.  Il giudizio di Schopenhauer nei confronti dell’Italia, nonostante quella valutazione, in realtà non è mai stato di particolare antipatia (come invece Galli della Loggia ipotizza). In una delle lettere scritte nei due viaggi fatti nel nostro Paese, Schopenhauer osservava che “con l’Italia si vive come con un’amante, oggi in lite furibonda, domani in adorazione: con la Germania invece si vive come con una massaia, senza troppa rabbia e senza troppo amore”. E questo è ancora niente a confronto con il giudizio espresso verso il  suo paese: “disprezzo la nazione tedesca a causa della sua esagerata stupidità e mi vergogno di appartenervi”.

Riguardo al tema del suo articolo, Galli della Loggia non è nuovo nel rimproverare che i mali della politica italiana risiedono prima di tutto e principalmente nel suo corpo sociale. Lo aveva sostenuto anche in altri articoli apparsi sul Corriere della Sera (in particolare “La corruzione e le sue radici“ del 17.02.2010 e  “Qualche domanda all’Italia ipocrita” del 21.02.2010). Quello che fa specie è però il giudizio di un docente universitario, qual è appunto Galli della Loggia, che nell’elenco delle responsabilità non menziona mai l’istituzione alla quale egli stesso appartiene, cioè l’Università. Egli parla dei partiti, dei sindacati, del sistema dell’informazione e poi di tutti gli italiani. Nessuna parola sull’Università, depositaria dell’educazione e della formazione del Paese e della sua classe dirigente. Un’istituzione di cui già dalla fine degli anni ottanta si denunciavano i mali endemici (ricordiamo in particolare le giuste analisi di Raffaele Simone sul Mulino relative al sistema di selezione feudale simile al mandarinato cinese) e di cui, negli anni successivi, è stata scoperta la cattiva gestione a tutti i livelli. Secondo il nostro punto di vista non basta additare sempre le responsabilità degli altri, divenendo così comodamente generici. Dove era il professore ai tempi della spartizione e della distruzione di cui è stata fatta oggetto l’Università italiana? I concorsi truccati, i posti assegnati su base clientelare, le cattedre create ad personam. Senza contare il fatto che, anche dal punto di vista finanziario, guardando i bilanci dei singoli atenei, l’università italiana si è rivelata nel suo complesso fallimentare. L’autocritica dunque si abbia il coraggio di farla a casa propria traendone le giuste conseguenze. Vorremmo poi aggiungere altre cose. Innanzitutto, pur non negando che il problema della corruzione risieda anche nel corpo sociale, vorremmo che si cominciasse a comprendere che si deve pur sempre denunciare partendo dall’alto. E questo in nome del principio realistico espresso da Machiavelli secondo il quale i popoli seguono i costumi di chi li governa (Discorsi III, 29: Che gli peccati de’ popoli nascono dai principi). Nella stessa direzione è giusto ricordare poi che soltanto le leggi fanno buoni gli uomini (Platone, Machiavelli, Spinoza) e che dunque è moralistico (questo sì) additare il popolo come fonte di tutti i mali. In secondo luogo, bisognerà pur dire che i processi mediatici che nel nostro Paese vengono periodicamente indetti contro la classe politica (che Galli della Loggia ha spesso giustamente denunciato) si fanno a motivo del fatto che in Italia non si svolgono i processi veri, quelli di fronte al giudice. Anche in questo caso Machiavelli aiuta: “usasi più questa calunnia dove si usa meno l’accusa, e dove le città sono meno ordinate a riceverle” (Discorsi I, 8): in tal modo il popolo è soddisfatto ed i politici restano impuniti. Infine osserviamo che non è vero, come dice Galli della Loggia, che tutti i cittadini sono responsabili di quanto accaduto. Esistono cittadini, intellettuali e gente comune che, a prezzo di notevoli disagi e di veri costi personali (senza ridursi a quella “minoranza di veri poveri senza diritti” di cui parla il professore), non hanno accettato e non si riducono alle pratiche clientelari e di corruttela vigenti. Nonostante ciò non vanno in piazza, non rompono niente e non fanno vittimismo ma continuano la loro opera lontano dalle luci della ribalta mediatica. Bisognerà prima o poi tenere conto di queste persone se si vuole una reale prospettiva di rinascita del Paese.