Vero pensiero è l’unità di pensante e pensato (III)

L’atto di coscienza come fondamento
Come dicevamo nella seconda parte del presente lavoro, nella misura in cui il pensiero poggia sulla differenza, e dunque vale come relazione tra pensiero pensante e pensiero pensato, esso si fonda sull’atto noetico del suo sapersi (che costituisce l’essenza autentica del pensiero pensante) e si esprime come procedura dianoetica che lo dispone come discorso, cioè come linguaggio.
Da un certo punto di vista, il linguaggio rappresenta la differenza dal pensiero, che tuttavia non si oppone ad esso, ma che anzi lo esprime in forme determinate. Quelle forme determinate che poggiano sulla relazione, la quale costituisce l’essenza stessa delle forme o la loro struttura.
Da un altro punto di vista, l’atto di pensiero vale come visione del noema (del contenuto di pensiero) e solo in quanto tale esso fonda la possibilità che il pensato possa venire determinato e descritto, cioè esposto dianoeticamente.
Ecco l’aspetto decisivo: per il primo punto di vista, il sapersi del sapere è conseguenza del processo di differenziazione, giacché viene interpretato come la relazione che sussiste tra il sapere che sa e il sapere che viene saputo; per il secondo punto di vista, invece, il sapersi del sapere vale come la condizione incondizionata che lo fonda, quell’atto di pensiero che è indice della trasparenza del pensiero a sé stesso, il suo essere autocosciente. Se il pensiero non fosse presente a sé stesso, nulla potrebbe essere presente al pensiero.
Il senso formale, che valorizza il momento procedurale del pensiero, deve venire superato dal senso trascendentale, che valorizza il momento attuale del pensiero, momento che ne decreta l’immediatezza – un’immediatezza che non va intesa, appunto, in senso empirico-formale, ma trascendentale –, laddove la mediazione coincide con la relazione.
L’atto, per le ragioni addotte, non può venire inteso come un atto tetico, un atto che pone le figure che costituiscono i pensieri pensati; così inteso, infatti, esso si vincolerebbe ai pensati e cesserebbe di valere quale condizione incondizionata.
L’atto, di contro, trascende nel porre o, che è lo stesso, pone trascendendo. L’atto di pensiero, cioè l’atto di coscienza, è un cogliere il limite del determinato; dunque, è l’atto del trascendere quel limite che fa essere il determinato.
In questo senso, esso è originario: non necessita, infatti, del determinato, perché del determinato esprime lo stesso trascendersi in atto, cioè il suo non essere veramente.
Per chiarire ulteriormente, si potrebbe dire che l’atto del togliersi del finito – ossia il togliersi della pretesa del suo valere come assolutamente vero – è precisamente l’atto di coscienza, perché solo la coscienza, intesa in senso trascendentale, coglie il limite del finito e, dunque, sa la sua consistenza solo relativa.
Del resto, l’atto di coscienza coglie il finito nella sua effettiva finitezza solo perché è illuminato dall’assoluto, dall’infinito, il quale vale anche come ciò verso cui l’atto di coscienza si orienta.
L’atto coincide, infatti, con l’intenzione di essere uno con l’assoluto (infinito), ossia esprime lo slancio verso l’infinito del finito, e per questa ragione emerge oltre la stessa coscienza empirica, della quale rileva il limite nel cogliere il vincolo che la subordina al campo dei suoi contenuti. L’atto di coscienza, insomma, costituisce il compimento trascendentale della coscienza empirica nonché la sua essenza autentica.
Per comprendere adeguatamente tale atto, non si può non insistere sul suo rapporto con la procedura nonché sul concetto stesso di “rapporto”.
L’emergenza del pensare, deve venire detto con forza, non va intesa nel senso del suo configurarsi come una molteplicità di “pensieri”, che però non si siano ancora configurati come linguaggio: cioè come pensieri che precederebbero il linguaggio, pur essendo pensieri determinati.
A nostro giudizio, i pensieri pensati sono già linguaggio, proprio in quanto determinati. Di contro, il pensiero pensante è il pensiero in atto, cioè è quel pensiero che si esprime come l’atto di coscienza o come il sapersi che è proprio del sapere, nel senso che il sapere (pensiero) non può non sapere di essere sapere (pensiero).
Il pensiero (sapere), insomma, non può non essere trasparente a sé stesso, così che il suo essere cosciente non va inteso nella forma della dualità, ma dell’unità dell’atto, il quale, a sua volta, non può venire inteso nel senso di quella determinatezza che è propria di ciò che viene pensato.
Se, infatti, il sapere fosse sapere in forza del saputo, allora senza il saputo non sarebbe un vero sapere, perché sarebbe un sapere soltanto astratto.
Poiché, però, anche il saputo senza il sapere sarebbe, a sua volta, astratto, allora si dovrebbe concludere che il concreto è la somma di due momenti astratti e ciò è palesemente insensato.
Inoltre, poiché il sapere è vero sapere solo allorché perviene interamente a sapere il proprio saputo, se ne deve concludere che solo l’unità di sapere e saputo è vero sapere o, detto altrimenti, solo l’unità di pensante e pensato è vero pensiero.
E tale unità trova espressione soltanto nell’atto di pensiero (atto di sapere, atto di coscienza).

Photo by Greg Rakozy on Unsplash

Università per Stranieri di Perugia e Università degli Studi di Perugia · Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Filosofia teoretica - Filosofia della mente - Scienze cognitive

Lascia un commento

*