Se non ritorniamo ad Elea, ci fermiamo a Megara

La seconda sessione del 14esimo Ritiro Filosofico, il prof. Rocco Ronchi l’ha dedicata ad analizzare un concetto tanto equivoco quanto importante per comprendere il suo percorso: il processo. Ad un primo impatto, la tesi qui sostenuta dell’identità fra quel Reale pura affermazione già discusso nella prima sessione e il suo stesso carattere processuale, non sembra poi presagire a chissà quale carattere rivoluzionario da parte della teoria metafisica del canone minore. Eppure, la rigorosa sistematicità dell’impianto argomentativo non può non lasciare sorpresi.

Parte da un confronto con il senso comune l’azione di scardinamento della concezione tradizionale del processo promossa da Ronchi, e in particolare dall’identificazione di quest’ultimo con il divenire; quindi con la dimensione della temporalità. Secondo tale impostazione risalente al pensiero aristotelico infatti, l’unitarietà di ogni processo è garantita dal procedere della cosa, la quale appunto procede attraverso una successione di stati divisi muovendosi in una certa direzione. Perché, secondo Ronchi, sarebbe questa la visione che si afferma dopo Aristotele? Perché egli descrive l’ente come rispondente alla logica di potenza e atto. C’è un sostrato, la materia (poiché il divenire è sempre divenire di qualcosa, è predicativo), che partendo da uno stato di mancanza iniziale (non è causa sui) desidera e quindi si muove in direzione del compimento di tale desiderare.
Nulla di più distante dall’atto semplice e indiviso che costituisce il processo per Bergson (che in lui si chiama durata creatrice) o dall’entità attuale che ricapitola in sé tutto il proprio passato in un continuo farsi elaborata da Whitehead; due pensatori fondamentali per la definizione del canone minore. Perché però Aristotele pensa al farsi del reale come esercizio di una possibilità e non come immanenza assoluta?
La risposta di Ronchi passa attraverso l’analisi del fenomenologo Rudolf Bernet: ciò accade perché Aristotele pensa al divenire come ad un poiein, al fare umano artigianale che si realizza in un’opera trascendente la produzione stessa. Questo pensare al divenire come ad una capacità di produrre però, risponde ad un’esigenza ben precisa che emerge all’interno del libro IX della Metafisica, paragrafo III: liquidare la tesi dei filosofi Megarici intenta a negare il darsi di un “esser possibile” precedente l’atto. Per questi seguaci del socratismo infatti, c’è la potenza di qualcosa solo se quel qualcosa è già in atto, poiché è il suo stesso esercizio a renderlo possibile. Così Aristotele, facendo leva su alcuni esempi presi dal mondo delle technai, trasforma il darsi impersonale della possibilità in un “avere il potere di”, cioè in una capacità che necessita di un agente per esplicarsi; d’altronde si può forse dire che un architetto cessa di essere tale solo perché sta dormendo?
Questa svolta antropomorfizzante che assoggetta anche la natura costituisce non solo un passaggio chiave nella storia del pensiero occidentale, ma anche e soprattutto l’invenzione della soggettività intesa come esercizio di una potenza. Il passo immediatamente successivo è la nascita del potere politico come disponibilità di un potere che è tanto una potenza di fare quanto di non fare.
È evidente che una simile antropologizzazione della natura finisce per liquidare ogni forma unitaria e totalizzante del processo come ulteriore espressione della posizione megarica e del suo rifiuto di un possibile capace di non farsi atto. Eppure, è sempre rimanendo all’interno del libro IX della Metafisica che si trova l’apertura per una riflessione differente. Parlando dell’atto come praxis infatti, lo Stagirita delinea un’attività pratica assolutamente immanente a se stessa, il cui unico fine risiede nel suo stesso esercizio. Il passaggio è ormai aperto. Svincolata da ogni possibile associazione alla dimensione temporale, la praxis raggiunge il proprio compimento nel suo stesso darsi, venendosi perciò a costituire proprio come quell’atto semplice e indiviso che è la durata creatrice di Bergson. Se le attività poietiche sono radicate nella mancanza e finite, quelle pratiche sono complete in ogni istante e infinite nel loro senso; sono pura affermatività.
Eccoci dunque pervenuti alla chiusura del cerchio, figura regina della perfezione e della completezza nel suo infinito percorrersi e ripercorrersi che in ultima istanza esalta come meglio non si potrebbe la coincidenza della cosa con il proprio farsi. L’esperienza del reale, all’interno del canone minore, è un processo il cui fine è il soggetto stesso che in tale processo si compie, si fa atto, e con ciò rivela l’immanenza assoluta che governa l’impianto causale. Ora che tutto il cammino della seconda sessione è stato compiuto esso può finalmente costituirsi come la materia da cui partirà il nuovo processo di avvicinamento alla Verità, in fondo, come diceva Whitehead: «Bisogna morire per diventare immortali».

 

Ascolta “RF 14, con Rocco Ronchi: 2a Sessione” su Spreaker.

Laureato in filosofia con una tesi su Emanuele Severino e la lettura dell'Eterno Ritorno nietzschiano. Si è occupato di Nietzsche e di Giorgio Colli.

1 Comment

  1. Ma se la conclusione sta nell’ultima frase ancora si è in errore, dovrebbe invece vedersi che “Bisogna morire per essere eternità”. Non “per diventare immortali”.

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