I recenti sviluppi della situazione politica del nostro Paese, unitamente alla elezione del nuovo Presidente della Repubblica, evidenziano in tutta la loro drastica chiarezza un fenomeno che si trascina da decenni nel nostro sistema istituzionale : lo scardinamento sostanziale del disegno costituzionale relativo alla forma di governo del nostro Paese (…)(Segue qui).
Rawls è poco machiavellico
Come è possibile gestire un insieme eterogeneo di individui all’interno di un contesto sociale? Qual è lo strumento, la legittimazione, il mezzo, attraverso cui una autorità politica può (e deve) mantenere l’unità di una società? In ultima istanza: come si può conciliare la molteplicità degli individui con la necessaria unità della giustizia e dell’ordine sociale e politico?
Queste domande sono l’Anfang, il cominciamento, di ogni teoria filosofico-politica che voglia costruire un sistema teorico applicabile alla realtà sociale. Prima di porre queste domande, ogni teoria filosofico-politica deve descrivere la natura dell’uomo.L’opera e gli studi di John Rawls (1921-2002) hanno sostanzialmente tentato di rispondere a tali questioni. Continue Reading
Ricerche cosmologiche
Nella sezione De Infinito, un dialogo su forze originarie, Big Bang e sistema solare (clicca qui).
Togliere la sordina a Machiavelli
Il 2013, come ormai noto, sarà dedicato alla celebrazione dei cinquecento anni dalla pubblicazione del Principe di Machiavelli. Ormai dall’inizio dell’anno, ogni settimana, è un susseguirsi di convegni, seminari, trasmissioni radiofoniche, saggi e articoli sul tema in questione. L’ultimo è quello apparso oggi sul Foglio di Giuliano Ferrara. Due pagine scritte da Stefano Di Michele il quale vuole tratteggiare una lettura sui caratteri biografici e intellettuali del segretario fiorentino. Nel sottotitolo si dice che Il Principe è «il libro più importante dei tempi moderni, un impasto di arte della politica, filosofia della storia, scienza e tattica del potere, psicologia dell’esistenza affacciata sul vuoto». L’articolo, costruito in gran parte sugli aspetti biografici, si sofferma essenzialmente sulla disgrazia di Machiavelli impegnato, suo malgrado, nelle bettole e nelle osterie nelle quali trascorse la seconda parte della sua vita a causa dell’esilio nel quale fu condannato a partire dal 1512. Di Michele ricorda così come il Principe sia nato da una grande ed umanissima disperazione, «quella di un genio stanco e umiliato che tentava di tornare al centro delle cose».
E tuttavia anche questo articolo, come molti contributi che fin qui abbiamo letto in questo inizio di centenario, dimentica (chissà se più o meno consapevolmente, vista l’impostazione dichiaratamente “devota” di quel giornale) il fatto che Machiavelli è stato essenzialmente e prima di tutto un autore anticristiano. E questa verità, da cui non si può prescindere se si vuole davvero affrontare il pensiero di questo autore, ce l’ha ricordata in una recente trasmissione su Radio 3 proprio Gennaro Sasso, il più grande ed acuto studioso di Machiavelli che abbiamo oggi in Italia. Machiavelli non è tanto e solo un pensatore anticlericale (anzi si può in realtà dubitare che esso lo sia effettivamente), quanto un pensatore che ha messo in crisi i fondamenti del pensiero cristiano. Trascriviamo, perché lo merita, la parte finale del dialogo dello studioso con l’intervistatore:
Sasso: Mi sono convinto di una cosa: che questo autore non è mai stato letto nelle cose essenziali (…). È possibile che non abbiamo capito che per Machiavelli l’Italia non esisteva, non riusciva ad esistere e che bisogna fondarla in modo profondo? E che per fondarla in modo profondo bisognava realizzare una serie di riforme etico-politiche in cui il problema fondamentale fosse il rapporto con la Chiesa? Perché questo è il nocciolo del pensiero di Machiavelli. Lei prima citava la Svizzera: ma Machiavelli dice che se noi trasportassimo la sede della Chiesa romana nella incorrotta Svizzera in capo a due generazioni la Svizzera sarebbe corrotta come noi. E questo anticipa il punto per cui la storia italiana è nata…(interrotto, ndr)
Intervistatore: Ma allora questa ferita è originaria, intatta!
Sasso: Sì…sì…In questo senso Machiavelli è veramente un autore rivoluzionario che è stato messo tra parentesi, che è stato allontanato…Perché io sono convinto che anche i più grandi estimatori di Machiavelli, nel dettaglio, non hanno mai veramente detto che Machiavelli non è uno scrittore cristiano. Potrà piacere, potrà dispiacere, uno può anche rimanere indifferente per rispetto a questa questione. Scientificamente però uno ne prende atto. Machiavelli non è uno scrittore cristiano e lo dice, lo dice…e lo scrive e sposa dottrine che sono definite anti cristiane nell’ambito della cultura teologica. In un capitolo dei Discorsi Machiavelli scrive sulla eternità del mondo. Ora, quando uno dice che il mondo è eterno, vuol dire che non è creato e se il mondo è eterno non c’è Dio che lo crea. Adesso, per dire le cose in maniera molto, molto…(interrotto, sigh, ndr)
Intervistatore: Ma allora Gennaro Sasso sta elevando la categoria del non cristianesimo o anticristianesimo di Machiavelli ai fondamenti…
Sasso: Guardi, avendo avuto la ventura di studiarlo per molti e molti anni e di esserci tornato spesso, mi sono reso conto tardi di questa cosa, me ne sono reso conto tardi. Perché? Ma perché c’era un condizionamento a tenere in sordina questo tema, a considerarlo una nota di anticlericalismo…(nuovamente interrotto, sigh, ndr)
Intervistatore: Soprattutto qualcosa legato ai tempi, alla particolare corruzione, i Borgia…
Sasso: Se uno considera l’atteggiamento di un altro grandissimo personaggio contemporaneo di Machiavelli, Francesco Guicciardini, nei confronti della Chiesa, beh le pagine di Guicciardini sono ancora più potenti di quelle di Machiavelli nella esecrazione della Chiesa. Chiesa che poi, d’altra parte, il Guicciardini era costretto a servire a differenza di Machiavelli…Ma non si può dire che Guicciardini sia anticristiano…per Machiavelli sì e su questo bisogna battere l’accento: può piacere, può dispiacere ma Machiavelli è questo. Ed è per questo che non è un autore della letteratura italiana e chi si è avvicinato a Machiavelli, anche laicamente, ha messo la sordina su questo punto.
Intervistatore: Allora questa sordina l’abbiamo strappata!
Sì l’abbiamo proprio strappata, aggiungiamo noi. Ora deve decidersi a farlo anche la cultura e il pensiero storico-filosofico italiano (e possibilmente anche quello della divulgazione quotidiana) se non si vuole condannare al permanente esilio post-mortem questo straordinario pensatore.
De infinito
Scienza e filosofia, da ormai più di due secoli, per una serie di ragioni che cercheremo di indagare, hanno separato, con pregiudizio per entrambe, i rispettivi cammini. Noi di RF lavoriamo per una loro riconciliazione. In questa nuova rubrica apriamo il nostro sito ad articoli, saggi e dialoghi che intendono rendere conto delle implicazioni filosofiche degli enormi progressi compiuti dall’uomo nell’ambito della ricerca scientifica in generale ed in quella fisica e cosmologica in particolare. Il nome della sezione rende omaggio ad una delle grandi opere italiane di Giordano Bruno, il De l’infinito universo e mondi pubblicato nel 1584. Numerosi saranno i nostri ambiti di interesse. Tra i tanti ci piace segnalare quello legato alla missione del satellite Keplero messo in orbita dalla Nasa, grazie al quale sono stati scoperti milioni di pianeti simili alla terra.
La sezione sarà curata, nella parte più propriamente cosmologica, da Giammarco Campanella, dottorando in fisica astronomica alla Queen Mary University di Londra e già autore, nonostante la giovane età, di articoli e libri in ambito non solo accademico. Non mancheremo di sgombrare il campo da errori e superstizioni che, come spesso accade quando si tratta di temi non legati all’interesse quotidiano del grande pubblico, albergano copiosi nella mente della cosiddetta opinione pubblica.
Cominciamo dunque con un articolo, a mo’ di dialogo, sulla vera natura del calendario Maya: Il calendario Maya: la cattiva divulgazione e la buona scienza.
Il calendario Maya: la cattiva divulgazione e la buona scienza
RF: Cosa diceva esattamente la profezia dei Maya sulla fine del mondo? La questione aveva a che fare con fenomeni di carattere interplanetario?
CAMPANELLA: Il calendario Maya non è terminato il 21 Dicembre 2012 e non ci sono profezie Maya che preannunzino la fine del mondo in quella data. Come il calendario che abbiamo a casa non cessa di esistere dopo il 31 Dicembre, così il calendario dei Maya non cessa di esistere il 21 Dicembre 2012. Questa data segna la fine del periodo di lungo conto dei Maya, però poi – proprio come il nostro calendario che ricomincia da capo dall’1 gennaio – un altro periodo di lungo conto ricomincia per il calendario dei Maya. Il calendario di lungo conto dei Maya fu pensato per tener conto di lunghi intervalli temporali. Infatti, la cultura mitologica rilevabile dalle rovine della civiltà Maya presenta riferimenti ad epoche ben più lontane del nostro Big Bang avvenuto, secondo la scienza, 13.7 miliardi di anni fa. Tal calendario di lungo conto assomiglia al contachilometri delle nostre auto ed è il sistema più complesso mai sviluppato dall’uomo. Infatti, è un sistema costruito su base 20 nel quale le cifre che ruotano rappresentano potenze di 20 giorni. Dato che le cifre ruotano, il calendario può azzerarsi e ricominciare da capo. In particolare, secondo la mitologia Maya il mondo fu creato 5125 anni fa, nella data che l’uomo moderno indica come 11 Agosto 3114 aC. Tale data nel calendario Maya viene indicata come 13.0.0.0.0 e nello stesso modo viene indicato il 21 Dicembre 2012. Tredici Baktuns come direbbero gli studiosi Maya, oppure tredici volte un ciclo di 144 000 giorni è il periodo temporale tra le due date. Questo era un intervallo significativo nella teologia Maya ma non di certo uno distruttivo: nessuna delle migliaia di rovine, tavolette e materiali in pietra esaminate dagli archeologi predicono una fine del mondo. Al massimo, molti Maya credevano che il 21 Dicembre 2012 le divinità che avevano creato il mondo 5125 anni prima sarebbero ritornate. Una di queste in particolare, un’enigmatica divinità chiamata Bolon Yokte K’uh, sarebbe tornata per condurre antichi riti di passaggio, per rimettere in ordine il tempo e lo spazio e per rigenerare il cosmo. Anche l’associazione Maya Oxlaljuj Ajpop afferma che in questa data ci sarebbero stati grandi cambiamenti a livello personale, familiare e sociale, così da ricreare quell’armonia ed equilibrio tra l’uomo e la natura. Il mondo si sarebbe rinnovato, no distrutto. Ci sono quindi similarità con la cultura occidentale quando inizia il nuovo anno e la gente cerca con entusiasmo di portare avanti le proprie risoluzioni per l’anno nuovo. Ma allora, da dove nasce la storia che il mondo sarebbe finite nel 2012? Tutto è iniziato qualche tempo fa quando su internet girava la diceria che Nibiru, un fantomatico pianeta scoperto dai Sumeri, si dirigeva contro la Terra. Questa catastrofe venne inizialmente prevista per il Maggio 2003, ma quando non si verificò nulla il giorno del giudizio venne spostato in vanti al Dicembre 2012 e collegato alla fine di uno dei cicli dell’antico calendario Maya previsto per il solstizio di inverno: il 21 Dicembre 2012.
Prospettive panoramiche
In una recente puntata di una trasmissione televisiva dove si discute, per soli 25 minuti (perché non più?), in modo alto ma comprensibile ai più, di un libro, spesso di saggistica, e dove è sempre presente una classe di un Liceo d’Italia, ho ascoltato il presentatore (noto giornalista e scrittore) dire ai ragazzi presenti in sala, più o meno, queste parole: «in Italia abbiamo bisogno che voi giovani non guardiate la situazione politica italiana ed europea con uno sguardo limitato ai giorni nostri. C’è la necessità di prospettive panoramiche sui fatti e sulle vicende che ci circondano».
Intendo prendere questo accaduto come spunto per una riflessione, se possibile, più ampia. Ammetto fin da subito che mi sono trovato in accordo con la frase sopra espressa, ho visto in questa idea un che di utile e buono alla comprensione. Limitare lo spazio di veduta è pur sempre un limitare. È altresì vero che allargare il campo visivo può portare alla perdita di un focus preciso sul quale porre l’attenzione.
Bisogna, però, intendere l’idea di prospettive panoramiche come un atteggiamento mentale che sia volto all’indagine nient’affatto superficiale dei fatti storici. Alzare lo sguardo alla serie delle cause che hanno preceduto un determinato fatto storico ci permette di comprendere molti lati nascosti e reconditi del presente, che magari ha oramai disvelato e reso a-problematiche questioni che nel passato invece erano o ancora velate, o ancora problemi da risolvere.
Facciamo un esempio, forse banale, ma esemplificativo: non si può capire lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale senza sapere cosa comportarono i Trattati di Pace di Versailles, del 1919, alla fine della Prima Grande Guerra.
Oppure: è impossibile comprendere a pieno il pensiero di Marx se non si è compreso, in parte, il pensiero idealista di Hegel.
Non si può, infatti, non interrogare e investigare il passato, alla scoperta di ciò che è accaduto dopo. Capire, comprendere, analizzare, investigare, scoprire, formulare tesi, argomentare, sono tutte azioni del pensiero che debbono avere una stretta relazione con una prospettiva panoramica, non solo storica, ma anche culturale, intellettuale e filosofica.
Perciò è necessario rivalutare positivamente lo studio della storia (non uno studio asettico e fatto di mere date ed eventi), lo studio della storia della filosofia e della storia dei movimenti culturali e artistici. Tutti questi soggetti (e forse anche altri) sono collegati l’uno all’altro, ed in parte riverberano se stessi nel presente – perlomeno per il fatto che sono parte del passato e quindi hanno segnato la linea causale fino a noi.
La necessità (nel suo duplice senso di serie di causa-effetto e di bisogno) del passato è la stessa del presente, e del futuro. Solo la sintonia con la necessità permette allo sguardo umano di comprendere il suo presente, ed il suo futuro; senza dover prospettare qualcos’altro oltre a se stesso per vincere l’angoscia che il timore e la speranza gli affidano.
Anche di questa sfida deve farsi carico la filosofia, nel suo essere conoscenza del vero.
Per fortuna, nel passato, molti filosofi hanno già aperto la strada che conduce a questa sfida.
PS. La foto di apertura è di Saverio mariani e la trasmissione televisiva a cui si fa riferimento all’inizio dell’articolo, per i curiosi, è Le storie – Diario italiano, condotto tutti i giorni (dal lunedì al venerdì), alle ore 12.45 su Rai3, da Corrado Augias.
Messico: tradizione e futuro
Il Messico è uno stato federale di 110 milioni di abitanti di cui un quinto nella sola capitale. Diviso in 32 Stati dotati di ampia autonomia e molto diversi tra loro non solo geograficamente, è uno Stato in forte crescita, molto influenzato dalla vicinanza con gli USA e al tempo stesso assai diverso da questo.
Il tour di due settimane ci ha permesso di scoprire sia la immensa capitale Città del Messico sia i due stati più meridionali, Chiapas e Yucatàn, simili per origini ma con uno sviluppo storico ed economico completamente diverso.
Anche noi, come Maurizio Greganti in Egitto, abbiamo avuto modo di conoscere le origini della civiltà messicana e l’attuale stato sociale ed economico. Anche qui i contrasti emergono in maniera evidenti ma con impressioni completamente diverse da quelle tratte in terra egiziana, in particolare per il dinamismo della società messicana, concentrata sulle possibilità di crescita del Paese.
Il Messico precolombiano
Il Messico prende nome dai Mexicas “figli della Luna” meglio conosciuti come Aztechi, una delle tante civiltà mesoamericane che si insediò in questa terra del nord e centro America.
Gli Spagnoli che nel 1521, alla guida di Hernan Cortes, conquistarono queste Terre, si trovarono di fronte proprio gli Aztechi di Montezuma II, i quali, a partire dal VIII secolo d. C., estesero gradualmente il loro dominio sull’America centro-settentrionale, sottomettendo le altre civiltà mesoamericane. A Sud gli Spagnoli trovarono quel che restava della civiltà Maya, costituita da tanti piccoli imperi, sempre in lotta tra loro, e per questo facilmente sopraffatti dagli spagnoli.
A differenza di quello che si potrebbe pensare, tuttavia, la civiltà Maya, diversamente da quella Azteca, non è affatto scomparsa ed è sopravvissuta in maniera sorprendente a cinque secoli di sopraffazioni e tentativi di evangelizzazione forzata.
Tutte le culture native americane si contraddistinguono per una cultura in cui gli elementi naturali hanno assoluta preminenza tanto che ad ogni manifestazione della natura corrispondeva l’esistenza di un dio cui celebrare riti propiziatori.
I Maya, come si diceva, sono stati la civiltà più evoluta. Il loro calendario, utilizzato anche dagli altri popoli mesoamericani, fa risalire la fondazione della civiltà al 3113 a.C. Svilupparono grandi conoscenze in matematica, architettura e soprattutto astronomia. Conoscevano perfettamente la precessione degli equinozi ed il loro calendario civile di 365 giorni corrisponde al nostro. Ciò gli era necessario per esercitare nel modo migliore l’agricoltura e, in particolar modo, la coltivazione del mais.
Avevano anche un calendario religioso che intrecciandosi con quello civile dava luogo a cicli di tempo più lunghi al termine dei quali si praticavano feste, riti e si rinnovavano le strutture cerimoniali. Più in generale i Maya e le altre civiltà mesoamericane erano convinti che il mondo in cui vivevano non fosse che uno di una serie di mondi e questa natura ciclica delle cose permetteva loro di prevedere il futuro studiando il passato.
Come detto, nonostante l’oppressione e l’evangelizzazione forzata, in Messico sopravvive una consistente discendenza diretta dai Maya. Per essa il cristianesimo costituisce solo una facciata e in Chiapas abbiamo assistito a guarigioni e riti propiziatori (compreso soffocamento di una gallina) all’interno di una chiesa. Pare che lì (San Juan de Chamula) la Chiesa Cattolica si accontenti di amministrare una volta all’anno il battesimo ai nuovi membri della comunità, i quali lo ricevono come uno dei propri riti propiziatori. L’esercizio di tali riti in una chiesa si spiega con il fatto che gli edifici di culto sono di proprietà dello Stato (dopo si capirà perchè).
In pratica per facilitare l’evangelizzazione, assai difficile, le antiche divinità furono ribattezzate con i nomi dei santi cristiani ma le cerimonie sono più o meno le stesse di quelle precedenti alla conquista.
Anche qui i miti fondativi della civiltà sono simili a quelli di nostra conoscenza (lo spostamento verso la terra promessa ripreso anche nella bandiera con l’aquila che cattura il serpente come luogo indicato, la creazione ecc.).
È evidente ad ogni modo che i culti nativi, almeno alcuni, abbiano resistito all’evangelizzazione forzata, non sappiamo se per le caratteristiche intrinseche di questi culti, fortemente legati alla natura, e/o se per lo sviluppo politico dello Stato del Messico che già dal 1821 conquistò l’indipendenza.
Il Messico moderno
Conquistata l’indipendenza dagli Spagnoli il Messico oggi è un Paese di meticci e forti minoranze native (raramente di altri paesi). È uno Stato fieramente e orgogliosamente laico (tantissimi gli omosessuali nella Capitale, in alcuni Stati è consentito il matrimonio e l’adozione anche per gli omosessuali). Ciò lo si deve ad un passaggio importante della storia moderna messicana.
Il neonato Stato, fortemente diviso al suo interno e oppresso dal debito verso gli Stati europei, a metà del XIX secolo portò a termine una serie di riforme liberali grazie all’azione di Benito Juarez, primo e unico presidente indigeno della storia messicana, considerato padre della Patria (come Garibaldi per noi, a lui si deve il nome di Benito Mussolini).
Tra queste vi fu l’acquisizione di tutte le proprietà ecclesiastiche (comprese gli edifici di culto) e il pagamento delle tasse da parte della Chiesa Cattolica; l’assoluta libertà religiosa (sono tantissimi i culti praticati qui); il divieto assoluto per i chierici di esprimere preferenze politiche o fare campagna elettorale (si tratta di reato federale).
L’oppressione dei latifondisti e l’opposizione della Chiesa Cattolica portò nel 1910 alla scoppio di una nuova rivoluzione, dopo quella che aveva portato all’indipendenza, guidata da Zapata e Pancho Villa. Repressa nel sangue si concluse comunque con la promulgazione di una nuova costituzione.
Dal 1920 al 2000 vi è stata una democrazia monopartitica da parte del PRI (dal nome contraddittorio Partito Rivoluzionario Istituzionale) che nel 1940, con Cardenas, ha nazionalizzato le industrie nei settori strategici.
Dal 2000 il Paese ha conosciuto l’alternanza di governo e sebbene sia visibile una forte differenza tra alcuni Stati del Paese e tra i vari strati della popolazione, il Messico sembra avere le carte in regola per essere una delle nuove potenze mondiali.
L’illusione e l’economia
In un articolo apparso il 12 gennaio su Repubblica, il filosofo Maurizio Ferraris sostiene la tesi secondo la quale l’economia è l’ambito privilegiato in cui vige il principio secondo cui non ci sono fatti ma solo interpretazioni. “Se c’è un campo in cui i fatti sembrano di gran lunga superati dalle interpretazioni, questo non è, come futilmente sostenevano molti epistemologi del secolo scorso la fisica, ma l’economia”.
La tesi sembra paradossale. Non sono forse stati gli ultimi due secoli quelli nei quali buona parte della filosofia e delle scienze sociali (e basti citare soltanto l’esempio di Marx a questo proposito) ha sostenuto l’idea che l’economia sia la struttura e il fatto fondamentale sopra il quale si edificano tutti gli ambiti del sapere umano? Non è stata l’economia il terreno sul quale la filosofia ha potuto effettivamente esercitare l’eredità del suo glorioso passato tanto da poter dire che “i filosofi hanno diversamente interpretato il mondo mentre ora si tratta di cambiarlo?”
Ferraris precisa certamente “che nessuno si sognerebbe di negare che esista una realtà economica, proprio come esiste una realtà giuridica. Ma è anche necessario sapere che questa realtà, così come tutti gli ambiti in cui si assiste alla produzione di oggetti sociali, deve essere sistematicamente interpretata e relativizzata” in base al principio per cui ogni oggetto dipende dal soggetto. Per questo l’economia avrebbe, conclude il filosofo, al contrario di quello che avviene per gli oggetti naturali, un grande bisogno di ermeneutica al fine di contrastare la tirannia dei fatti economici.
L’articolo di Ferraris, che con tale affermazione sembra ritirare con una mano quello che aveva concesso con l’altra, conclude per una sorta di necessità ermeneutica che tenda a sospendere o a temperare quel movimento, chiamato neo-realismo (da lui stesso rilanciato) volto a ristabilire il primato della realtà esterna o dei fatti rispetto alla coscienza umana. Ferraris dovrebbe allora chiarire meglio in che modo il suo realismo debba essere compatibile con le esigenze di una giusta, migliore e favorevole interpretazione dell’economia (al di là della problematica affermazione della differenza tra oggetti naturali e oggetti sociali).
Il problema generale tuttavia, nel quale risiede il nido di contraddizioni nel quale il neo-realismo tende a cacciarsi, è che il tentativo di affermare l’autonomia della realtà esterna viene fatto in modo ingenuo, come cioè se dimenticasse la svolta copernicana di Kant, annunciata già da Cartesio e radicalizzata poi da Hegel, in base alla quale ogni fatto è prima di tutto il fatto ineludibile della propria coscienza e della propria soggettività. Se non saprà risolvere questo problema, che consiste nella verità dell’idealismo, e renderla compatibile con la tesi di chi sostiene l’esistenza di una realtà indipendente dalla coscienza, la filosofia non uscirà dal vicolo cieco nel quale è stata relegata all’inizio dell’età moderna.
L’agnosticismo intollerante
Nel discorso del 6 gennaio rivolto ad alcuni vescovi di fresca nomina, papa Benedetto XVI si è scagliato con inaudito vigore contro l’agnosticismo. «L’agnosticismo oggi largamente imperante ha i suoi dogmi ed è estremamente intollerante nei confronti di tutto ciò che lo mette in questione e mette in questione i suoi criteri». Ben diverso il tenore del discorso tenuto ad Assisi nel settembre del 2011 quando invece gli agnostici erano considerati «persone che soffrono a causa dei peccati dei credenti e più vicine al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli di routine». Se non si vuole attribuire incoerenza alle parole del papa, l’agnosticismo si compone ora di due categorie, quello buono e quello cattivo. Una strana partizione per coloro che si dichiarano scettici nei confronti della conoscenza prescindendo dalle categorie di bene e di male.
Quello del papa è in realtà un discorso che ripropone i tratti tipici della violenza religiosa. Questa volta però, grazie alla fortunata circostanza in base alla quale la Chiesa cattolica non esercita più direttamente il potere politico, il suo capo invoca eroismo per i vescovi tramite la capacità di attirare la violenza su di sé: «E tale valore o fortezza non consiste nel colpire con violenza, nell’aggressività, ma nel lasciarsi colpire e nel tenere testa ai criteri delle opinioni dominanti». Ammesso e non concesso che sia necessario ribadire concetti simili – chi ha mai pensato che il valore e la fortezza consista nell’aggressività? Forse il pontefice si riferisce a passate abitudini della Chiesa? – questo appello all’essere percossi colpisce, è il caso di dirlo, perché ripetuto più volte nel discorso, accentuando la sensazione di avere a che fare con qualcuno che parli con lo scopo di cercare deliberatamente la provocazione.
Vorremmo tranquillizzare il pontefice. La violenza di cui parla può essergli data, come purtroppo avviene in alcune parti del mondo, soltanto dalle religioni come la sua e non certo da agnostici o da coloro che sono gli autentici cercatori della verità, ovvero i filosofi. Per questi infatti non solo non esiste ricorso alla violenza (come ampiamente dimostrato dalla storia) ma, per molti di loro, non si dà nemmeno un cammino verso la verità. Questo per il semplice motivo, come diceva l’apostolo Giovanni, che noi tutti agiamo, ci muoviamo e siamo in Dio (1 Gv 4, 16) così che da sempre l’uomo dimora nella verità.
Eppure il papa insiste su questo tema. «La ricerca della verità era per loro – cioè i magi, ndr – più importante della derisione del mondo, apparentemente intelligente». Si ripropone uno schema classico, quello dell’audizione di San Paolo di fronte ai filosofi di Atene, narrato in Atti 17, 16-34: «Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: Ti sentiremo su questo un’altra volta». Ma si dimentica tuttavia che il vero discorso aeropagitico è oggi soltanto quello della filosofia che da duemila anni vive nella città dominata dalle religioni.
Il discorso del papa dimostra ancora una volta il grande complesso di inferiorità della religione nei confronti della filosofia. La ricca religione, pur avendo tutto dalla sua parte (dogmi, numeri, forza organizzativa, appoggi politici ecc.) manca dell’unica cosa di pertinenza della povera filosofia: la verità. E da sempre la prima tenta di sottrarre alla seconda questa sua prerogativa. Per una sorta di curiosa eterogenesi, i credenti e il papa finiscono per fare la figura dei farisei nei confronti del cieco nato, così come mirabilmente riportato nel lungo e straordinario brano del vangelo di Giovanni (Gv 9, 1- 41). Dopo le loro continue ed incredule indagini, prima tra la gente e poi con i genitori, i farisei finirono per domandare irritati al cieco guarito da Gesù: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi? E questi rispose loro: ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato: perché volete udirlo di nuovo? Volete diventare anche voi suoi discepoli?». A questa acuta contro-domanda, che scopriva le loro segrete intenzioni, quelle cioè di voler essere come Gesù, i farisei persero la ragione e finirono per insultare prima e cacciare poi il cieco guarito. La Chiesa sembra oggi essere come quei devoti religiosi, desiderosa, ma incapace, di essere autentica discepola della verità. Ed è proprio questa sua impossibilità a generare la violenza.
All’infuori di qualche timido cinguettio, non sappiamo se alcuni tra agnostici o filosofi abbiano risposto al papa. Certo, la filosofia non ha un pontefice che può parlare ex cathedra avvalendosi di potenti strumenti di comunicazione. La religione tuttavia, nonostante tutte le apparenze contrarie, è più debole nei confronti della filosofia così come il mito è più debole della verità e la tecnica più debole della necessità (e la tirannia più debole della democrazia).