Lo Spinoza di María Zambrano

Sembra che tra le poche cose che la filosofa María Zambrano portò con sé quando fu costretta all’esilio (a partire dal 1939) c’era anche l’Etica di Spinoza. L’opera del filosofo isolato, come lo definisce la Zambrano, rappresenta dunque una sorta di àncora, un punto fermo intorno al quale edificare una certa identità filosofica, o almeno uno dei riferimenti da tenere sempre a portata di mano. Sono più o meno le stesse cose che un altro grande filosofo del Novecento, morto pochi anni dopo l’esilio della giovanissima Zambrano, Henri Bergson, scrisse a un suo collega. Bergson diceva anche che, pur avversandolo, quando rileggeva l’Etica (e lo faceva con una certa continuità) sapeva di trovarsi nel vero spirito della filosofia.

Come spiega bene l’introduzione di Ludovica Filieri alla pubblicazione del breve saggio della filosofa spagnola La salvezza dell’individuo in Spinoza (Castelvecchi, 2021), il pensatore olandese è per la Zambrano un’isola nel mare del Moderno. Quest’ultimo ha subordinato la vita e la verità alla ragione, dimenticandosi in un certo senso l’uomo. Spinoza, invece, pur muovendo da premesse radicalmente moderne, ha cercato di rispondere alla prepotente domanda esistenziale e non solo a quella gnoseologica. 

Ma è interessante – cosa che si evince nel saggio introduttivo di Filieri – capire quando e come Spinoza opera all’interno del pensiero della filosofa. Il saggio appena tradotto (che nel libro si trova anche in versione originale, in lingua spagnola) è scritto in età giovanile, quando la Zambrano sta  ancora cercando di strutturare una visione filosofica che la conduca a una ricerca ben definita. Un periodo critico, in realtà, nella formazione della coscienza filosofica della pensatrice che, di lì a poco, inizierà a tematizzare in maniera sempre più determinata il proprio approccio legato a categorie distanti rispetto alla filosofia spinoziana. 

La salvezza dell’individuo

Già dal titolo del saggio si può intendere l’inclinazione con la quale la Zambrano affronta il “percorso” all’interno dei cinque libri dell’Etica. Non si parla infatti di una felicità o di una beatitudo dell’individuo, bensì di una sua salvezza. Questo presuppone un punto di partenza che, forse, in Spinoza non è così esplicito o almeno non coincide con quello della filosofa. La Zambrano muove infatti da una convinzione ben evidente: l’uomo è su un crinale attraversato dal rischio di cadere, di perire. La salvezza è dunque un evitare la caduta, è la possibilità di una sorta di strana redenzione. Se in Spinoza si incontra il tema della “salvezza” essa non è mai ricondotta a una visione cristiana, dove tale si dà solo fuoriuscendo dal mondo, tutt’altro. 

L’interpretazione che giustamente Filieri definisce «religiosa (quasi cristianizzante)» (p. 31) della Zambrano non è però un limite alla sua lettura. Credo che questa postura renda semmai ancora più evidente quanto Spinoza si differenzi nel contesto della modernità razionalistica occidentale. Nel rapporto con Cartesio – che la Zambrano richiama più volte – il filosofo olandese sembra emergere per distacco, viaggiare in una direzione opposta. 

«Ma ecco che Spinoza fa un passo indietro e, molto oltre il dubbio cartesiano, afferma una causa sui, qualcosa la cui essenza implica l’esistenza» (p. 45) scrive la filosofa rintracciando già in questo una prima, pressoché incolmabile, distanza che mette in pericolo l’individuo. L’uomo infatti, secondo la Zambrano, anche in Spinoza vive ed esperisce una “separazione” con Dio e la Natura; separazione che però a livello ontologico non sussiste. «Quindi non c’è nulla di radicalmente estraneo oltre l’uomo. C’è un’identità tra la natura, Dio e gli essere umani. Pertanto, come si spiega la separazione?», si chiede. «Questa separazione sarà una mera incomprensione», risponde la Zambrano dando corpo al “percorso” spinoziano all’interno dell’Etica. (pp. 59-60). 

La conoscenza allora è il sentiero che conduce alla “salvezza” dell’individuo. Una conoscenza che per la Zambrano è sì il termine di un percorso che riconduce l’individuo, però, al punto di partenza. La proposizione XXX di Etica V ci riporta al punto iniziale, «agli stessi luoghi del pensiero, della prima definizione che apre l’opera, solo però da un punto di vista diverso» (p. 60). 

Dio come physìs e l’uomo solo

In altre parole, l’approdo finale dell’Etica è il suo inizio; Spinoza non fa che offrirci – per la Zambrano – la visione di un pensiero totalizzante e sistemico da tutti i luoghi di osservazione. Se questo, per parte nostra, appare come il grande merito del filosofo olandese, la sua eccentrica modalità di intraprendere un sentiero diverso nella modernità, per la Zambrano è la condizione per cui l’uomo rimane isolato, interdetto, indeterminato. 

In Dio – Dio che in quanto Natura la pensatrice spagnola accosta alla physìs greca – l’uomo è solo, quindi. Nonostante l’Etica mostri la potenza della conoscenza (una conoscenza che è “dall’interno” di Dio, si guarda Dio con gli occhi di Dio, avrebbe detto ancora una volta Bergson) la Zambrano rimane convinta che l’uomo non possa che soffrire di non essere Dio. «L’indeterminazione individuale, la solitudine, il naufragio, è la condizione dell’uomo. E davanti a lui si para un mondo di enti, di cose in cui si imbatte e che sono compatibili o contrari rispetto al suo “desiderio di conservazione”» (p. 62). 

La scissione tra l’uomo e il mondo, per Spinoza, non sussiste eppure la Zambrano continua a manifestarne il dolore. Per questo può dire che «tutta l’Etica è lo sforzo di ricomprendere l’uomo nel mondo» (p. 63) e che in quanto moto di Dio e non sua creatura preferita, l’uomo «è in lui, separato da lui e prigioniero suo allo stesso tempo» (p. 64). 

La pensatrice spagnola, dunque, non si stacca mai dalla sua prospettiva iniziale, da quel vizio tutto occidentale, aristotelico, di considerare l’uomo come sostanza che si contrappone a quella più voluminosa del mondo. Lì, piuttosto che in Spinoza, sta la scissione originaria, il divario e la necessità di escogitare una salvezza. Spinoza rimane al di qua di questa scissione e resta anche il filosofo grazie a cui chiunque può mettere in discussione ciò su cui fonda il proprio pensiero. 

Anche María Zambrano nell’esilio umano e spirituale che ha vissuto, in una condizione di separatezza e scissione che ha attraversato prepotentemente anche la sua riflessione, ha visto in Spinoza un diamante di pura luce. Per questo il saggio appena pubblicato ha un importante valore: da un lato ci mostra uno dei tasselli su cui si è formato il pensiero di una delle intellettuali più importanti del Novecento europeo, dall’altro ci conferma come il «filosofo isolato» sia una voce ineludibile per ogni pensiero filosofico. 

Il soggetto e la conoscenza

Che il mondo reale si trovi a debita distanza da noi è un fatto apparentemente rassicurante. Dal nostro – in potenza claustrofobico – esilio del pensiero lo si può influenzare, se ne può modificare la struttura. Ciò, inoltre, ci garantisce un rifugio da tutto quello che di spiacevole accade: la mente è dunque rappresentata come una casa dentro la quale, in fondo, non piove – rovesciando il famoso adagio che Calvino aveva ripreso da Dante. 

«Il soggetto pensante, è l’oggetto della Psicologia; il complesso di tutti i fenomeni (il mondo) l’oggetto della Cosmologia» scrive Kant nella Critica della ragion pura (Kant 2005, 258) mentre è impegnato a trovare il collante fra queste due parti, l’anello mancante che permetta di farle dialogare. Il solco che le separa sembra spostarsi sempre un centimetro più in là e Kant ha la necessità di costruire un’enorme fortezza che, come dirà Schopenhauer, si può davvero solo scardinare se non passando da sotto, grazie al potere dell’intelletto.  Continue Reading

Cos’è la filosofia monista?

Pensare la storia della filosofia come un confronto fra dottrine che, fatte salve alcune differenze, possono identificarsi entro due “schieramenti” opposti, è una pratica riduttiva. Tuttavia questa semplificazione può aiutarci a riconoscere delle tendenze, dei temi che si ripropongono e restano attivi in seno ai cambiamenti culturali che la storia mette in atto. Nella storia della filosofia moderna, tra gli altri, sono riconoscibili due tronconi di pensiero in fondo inconciliabili. Da una parte coloro i quali danno per scontata l’idea per cui la realtà sia un oggetto esterno al soggetto che ne fa esperienza; dall’altra coloro i quali mettono in discussione questa scissione. I primi consegnano alla conoscenza un ruolo di “scoperta dell’altro da sé”, il riconoscimento di un’alterità con la quale venire in contatto unicamente per vie esterne. In altre parole: non c’è che una solidarietà apparente fra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto, le “sostanze” rimangono in definitiva scisse. I secondi, invece, in misura ogni volta diversa – più o meno radicale – considerano i due fuochi della conoscenza come sullo stesso piano, due “elementi” solo apparentemente separati. La moltitudine – anche se solo attraverso un elemento di continuità intrinseca, “l’identità del diverso” – si ricolloca interamente entro un unico (infinito) campo ontologico, facendo così collassare il senso di una distanza fra soggetto e oggetto. 

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Dovremmo rinunciare alla metafisica?

La metafisica, per sua stessa definizione e per come nei secoli la filosofia occidentale ha inteso tale “disciplina”, ha sempre avuto un rapporto diretto con concetti quali Tutto, totalità, infinito, assoluto.
La fisica al contrario, e quindi le scienze in generale, in quanto dottrine specializzate di un particolare settore del reale, hanno invece sempre avuto a che fare col finito. Con il reale, appunto, ovvero con una dimensione tangibile per lo spirito conoscitivo dell’uomo.
Questa può sembrare una semplicistica divisione dei lavori e degli ambiti di indagine, o meglio una separazione dei compiti che non tiene conto delle possibili sovrapposizioni. Possiamo accogliere un’osservazione di questo tipo solo in maniera parziale poiché, se è vero che questa suddivisione netta non dà ragione di una serie di possibili convergenze, e se è vero che sono plausibili alcune rivendicazioni della scienza di indagare la natura e la conformazione del Tutto, non possiamo negare l’indissolubile legame della metafisica con l’infinito. Continue Reading

Rensi e il suo Spinoza al contrario

Le vicende umane e politiche di Giuseppe Rensi e Piero Martinetti, all’inizio del ventennio fascista in Italia, si sono intrecciate e testimoniano più di un carattere comune. Entrambi allontanati dal regime perché uno firmatario del manifesto degli intellettuali antifascisti, l’altro perché rispose al giuramento di fedeltà al regime fascista, richiesto dal ministro dell’Educazione nazionale, Balbino Giuliano, con una straordinaria lettera sulla libertà di coscienza. Martinetti pagò aspramente quest’ultima scelta, ritirandosi già nel 1932 a Spineto, una frazione nel canavese, dove oltre a scrivere numerosi saggi e articoli pubblicati principalmente sulla Rivista di filosofia, faceva l’agricoltore. Continue Reading

Il cervello, l’organo della sopravvivenza individuale

In occasione del lancio del nuovo Call for papers dedicato a «Il corpo», ripubblichiamo l’articolo di Saverio Mariani che, a partire dal libro Percezioni del neuroscienziato Beau Lotto, mette in questione alcune caratteristiche fondamentali nel processo di “riscoperta della corporeità” e il suo rapporto con “il mondo”. L’articolo è stato pubblicato nel febbraio 2018

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Che ci sia un mondo fuori di noi sembra una cosa banale perfino da dover giustificare. Dovremmo essere, in teoria, meno certi dell’affermazione secondo cui questo mondo fuori di noi sia una realtà che conosciamo in maniera oggettiva. Come spiega, in maniera quasi didattica e penetrante, Beau Lotto in Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo, la realtà che noi vediamo è parziale e finalizzata all’azione.

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La filosofia senza individui

La filosofia, come diceva Deleuze, ha sempre a che fare con il pensiero comune. Non solo perché è necessario porre in questione le certezze che indirizzano l’ampio agire umano, ma anche perché a volte quello stesso pensiero comune (doxa) è guidato da convinzioni filosofiche, scientifiche, tecniche. In un processo di auto-correzione, potremmo dire, la filosofia è per statuto impegnata a problematizzare la realtà e lo strato più superficiale rappresentato da ciò che noi definiamo come realtà. Infatti, è sempre la filosofia che ha l’onere di occuparsi di quello spazio che Berger e Luckmann definivano “proprio” della sociologia della conoscenza (Berger-Luckmann 1966). Astraendo dall’interpretazione teoretica, i due sociologi si concentravano su un livello diverso e complementare. Perché, scrivono: «Le formulazioni teoretiche della realtà, siano esse scientifiche o filosofiche o anche mitologiche, non esauriscono ciò che è “reale” per i membri di una società. Tenendo presente questo fatto, la sociologia della conoscenza deve anzitutto occuparsi di quello che la gente “conosce” come “realtà” nella vita quotidiana a livello pre-teoretico o non-teoretico. In altre parole, il principale centro d’interesse della sociologia della conoscenza deve essere la “conoscenza” del senso comune piuttosto che le “idee”» (Berger-Luckmann 1966, p.30).

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Vita attraverso le lettere

La vita di Spinoza è un argomento affascinante. Alcuni hanno pensato che lo stile posato e placido potesse rivelare molto della sua filosofia; altri l’hanno definita come attraversata da una falsa modestia. Quel che è certo è che Spinoza non ha condotto una vita frizzante, mondana o sopra le righe. È per questo che Borges tratteggia uno Spinoza curvo e in disparte, impegnato a superare di gran lunga lo strato della superficialità. «[…] Qualcuno costruisce Dio nella penombra. / Un uomo genera Dio. È un ebreo / Di tristi occhi e di pelle olivastra […]» (Borges, 2002). 

L’Epistolario spinoziano – ben più degli accenni biografici che si possono trovare sparsi fra le sue opere – è quindi un luogo interessante per ritrovare uno Spinoza privato, amichevole, che discute vivacemente di filosofia e di temi a lui cari. Come si fa notare in più di un’occasione nel recente Amice Colende. Temi, storia e linguaggio nell’epistolario spinoziano (De Bastiani, Manzi-Manzi, 2021), le lettere non possono leggersi come “parafrasi” dello spinozismo. Vorrebbe dire depotenziarle, renderle puro mezzo di speculazione. Ogni testo, invece, acquista una sua forma e una propria forza rispetto all’oggetto verso cui è diretto. Nella prassi del discorso (intendiamo qui la parola discorso nella sua accezione meno prescrittiva possibile) l’interlocutore non è mai neutro. Se non lo è per i libri, figuriamoci per l’epistolario privato. 

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La solitudine della scienza

La fiducia nella scienza, tranne che per qualche residuale gruppetto di persone, è uno dei pilastri  fondamentali sui quali si appoggia la società contemporanea. È innegabile, infatti, che il pensiero scientifico, e la fede nella tecnica, rappresentino una “oggettività” a cui la politica, così come i singoli uomini, difficilmente rinunciano. A meno di non allinearsi a coloro i quali intravedono nella scienza e nella tecnica un mezzo per governare subdolamente i popoli (posizione che non merita nemmeno il tempo di una breve contro-argomentazione), appare difficile contestare il valore del sapere e della ricerca scientifica. 

Tuttavia, appare sempre più necessario affrontare criticamente le aspettative che riponiamo nel pensiero e nella pratica scientifiche. Ciò non per svalutare il suo ruolo della scienza, ma soprattutto per evitare di affidarle un compito a cui non può rispondere. In altre parole, occorre mettere in dubbio l’atteggiamento fideistico nei confronti della scienza; questo per farla uscire dalla “solitudine” a cui l’abbiamo relegata. Ma in cosa consiste l’atteggiamento fideistico nei confronti della scienza?

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Tra natura e misticismo: società aperta e società chiusa in Bergson

Società aperta e società chiusa sono due concetti che hanno trovato una grande fortuna nella discussione filosofico-politica, dopo che Popper li ha utilizzati nel suo testo del 1945 La società aperta e i suoi nemici. In realtà questi due concetti erano stati introdotti qualche anno prima già da Henri Bergson, nell’ultima sua grande opera (se si esclude Pensiero e movimento che unisce una serie di saggi scritti negli anni precedenti), ovvero Le due fonti della morale e della religione (1932).

In quel testo Bergson completa idealmente il disegno filosofico-speculativo a cui aveva dato avvio con il Saggio immediato sui dati della coscienza. Dall’iniziale interesse gnoseologico e psicologico il filosofo francese si è, mano a mano, inserito all’interno delle dinamiche più propriamente ontologiche, nell’ottica di definire – come ha ribadito più volte e in maniera compiuta Rocco Ronchi – una nuova filosofia della natura. Intendendo per quest’ultima una filosofia della physìs, della natura nella sua accezione più totale e avvolgente. 

Società chiusa e società aperta, in Bergson, coincidono con due versioni della religione, rispettivamente: religione statica e religione dinamica. Due declinazioni del pensiero religioso che si innestano nel più ampio sistema bergsoniano. È perciò opportuno ripercorrere velocemente i cardini del bergsonismo. 

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