Verità, certezza e realtà oggettiva (II)

Abbiamo concluso il precedente articolo dicendo che tra il dire e l’intenzione del dire sussiste una divaricazione, che però non appare. Dico di me e intendo dire della cosa; dico di me dicente, ma intendo dire della cosa detta da me dicente.

L’apofansi “‘S è p’ è certo” dice che “io” sono certo di “S è p”, così che il suo oggetto non è “S è p”, ma il mio stato di certezza nei suoi confronti: si predica la certezza dell’apofansi e solo impropriamente del termine dell’apofansi in questione.

La certezza, infatti, concerne lo stato di colui che dice “S è p” e consiste appunto nell’espressione di costui sul proprio stato nei confronti di “S è p”.

Così, la dichiarazione della certezza è per sé stessa una riflessione: essa non è una conoscenza se non come un’attività della coscienza che riflette su sé medesima.

Se non che, dicendo di essere certo che “S è p”, intendo dire che “‘S è p’ è vero”. L’essere vero viene intenzionalmente detto di “S è p”, ossia indirettamente di “S” e direttamente di “p” detto di “S”.

Questa intenzione, e il punto è fondamentale, sottintende che “S è p” sia vero per sé stesso, ossia indipendentemente dalla mia certezza intorno alla sua verità, tale insomma che la mia certezza dipende dalla sua verità e non viceversa: l’intenzione è che lo stato psicologico sia conseguenza dello stato ontologico.

Se l’essere certo mi concerne nel mio rapportarmi a “S è p”, l’essere vero concerne “S è p” nel suo sussistere indipendentemente dal mio saperlo sussistente.

Così, se l’“essere certo” significa l’“essere vero per me”, l’“essere vero” coincide simpliciter con l’essere (“S è p”), ossia coincide con lo stato autentico delle cose.

Orbene, l’asserto è il luogo teorico in cui si compie il capovolgimento della verità in certezza: ciò che è vero “solo per me”, dunque vale come certezza soggettiva, per sua natura psicologica, diventa invece una verità oggettiva che io semplicemente accolgo e riferisco, giacché la mia intenzione, che è sempre intenzione di verità, si trasforma immediatamente, in forza appunto dell’asserzione, in pretesa che la verità sia nel modo in cui io la colgo e la dico.

La sede della certezza è comunque l’io. Dunque, non eccede l’io nel suo dirsi certo, ma costituisce anzi il suo stato effettivo come “io”.

In tal modo, attraverso la certezza ogni significato, posto o detto dall’io, gli appartiene come posto o detto.

Per quanto sia diverso dall’io, insomma, ogni significato gli appartiene, così che non vi sono propriamente significati estranei all’io significante, poiché lo sarebbero alla significazione.

Che è altro modo per dire che ogni “realtà” esterna alla coscienza (empirica) è una “realtà” posta dalla coscienza come esterna, anche se essa mantiene una sua relativa indipendenza dalla coscienza stessa, e ciò in ragione del modo ordinario di assumere la relazione, la quale pone “oggetto” e “coscienza” come suoi termini.

Se, invece, la “realtà” venisse intesa per come essa effettivamente è, cioè non come realtà oggettuale ma come realtà oggettiva, allora essa verrebbe colta come autenticamente esterna, ossia come assolutamente indipendente dal soggetto, cioè dall’io. Precisamente per questa ragione, essa non potrebbe mai venire saputa[1] e, quindi, non potrebbe mai venire detta.

Il nodo cruciale, pertanto, è il seguente: la realtà, intesa nella sua oggettività, non può in alcun modo venire saputa (detta). Di contro, l’esperienza, ad un primo approccio, sembra che possa venire saputa, non essendo totalmente altra dal soggetto.

Per precisare questo punto, insistiamo sul fatto che la realtà, intesa nella sua oggettività, non può in alcun modo venire saputa (detta).

Di contro, l’esperienza, ad un primo approccio, sembra che possa venire saputa, non essendo totalmente altra dal soggetto.

Se non che, definire “saputa” l’esperienza, in un qualche suo aspetto, non tiene conto del fatto che, in questa definizione, ci si riferisce ad un sapere formale, così che la distanza tra sapere e saputo viene necessariamente mantenuta, in modo tale che ciò che si sa non è mai effettivamente saputo.

[1] Ribadiamo che la realtà, intesa nella sua oggettività, non può in alcun modo venire saputa (detta). Di contro, l’esperienza, ad un primo approccio, sembra che possa venire saputa, non essendo totalmente altra dal soggetto. Se non che, definire “saputa” l’esperienza, in un qualche suo aspetto, non tiene conto del fatto che, in questa definizione, ci si riferisce ad un sapere formale, così che la distanza tra sapere e saputo viene necessariamente mantenuta, in modo tale che ciò che si sa non è mai effettivamente saputo.

 

Precedenti articoli di questa serie già pubblicati
La dialettica di certezza e verità (I) (13 aprile 2025)

 

Foto di Steve Johnson su Unsplash

Università per Stranieri di Perugia e Università degli Studi di Perugia · Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Filosofia teoretica - Filosofia della mente - Scienze cognitive

Lascia un commento

*