Aim of this paper is to analyse body’s role in cognitive processes, moving from the relationship between humans and machines. An AI that increases its own complexity –from machine learning to cyborg structure – probably loses its function as a machine created in order to support human’s objectives. If an AI can be enhanced through a synthetic body, it creates disorientation in humans’ approach to the machine itself – so the artificial intelligence loses the social-support purpose for which it was programmed. This thin line between a useful and a useless machine has been drawn by Masahiro Mori’s idea of “Uncanny Valley”.

L’IA onnipervasiva e i limiti dell’autonomia
Da quando l’IA (Intelligenza Artificiale) si è resa sempre più funzionale agli scopi dell’essere umano, uno degli effetti evidenti è quello di una presenza estesa. Dallo smartphone sempre più ergonomico all’assistente vocale, dai sistemi di riconoscimento facciale alla domotica, dall’ambiente privato a quello pubblico, l’IA è ormai onnipervasiva. Questo pone non pochi interrogativi a livello etico (privacy e violazione di diritti, bias e discriminazioni, sicurezza), ma allo stesso tempo mira a riconfigurare il paradigma della relazione inter-soggettiva. L’assenza del corpo va a modificare questo paradigma privilegiando una struttura relazionale dis-incorporata, nonché unilaterale; infatti, l’IA non risponde ma obbedisce.
Questo livello di relazione come obbedienza – che è anche un ritorno al pensiero magico-mitico, un animismo in cui tutto è sottoposto al delirio del narcisismo individuale (Oddo 2018) – che piega il prodotto della tecnica all’essere umano, tenta di deviare dal pericolo dell’obsolescenza (Anders 2007), asservendo la macchina al suo creatore. In un movimento parallelo e inverso, l’IA diventa sempre più complessa, passando da un livello di semplice presenza vocale a presenza corporea.
La possibilità di imitazione della macchina (Turing 1956) passa, infatti, da un primo tentativo di simulazione a-somatica, che quindi non comprende la dotazione di un corpo – questo, infatti, è un’aggiunta della robotica che segue alla basilare progettazione algoritmica (machine o deep learning) (Rossi 2019, 70).
Dunque, l’IA si dà in forme molteplici, da quelle che presentano un livello di complessità e interazione minimo, a quelle che, amplificate grazie all’intervento di altre scienze, permettono di migliorare questa interazione anche solo per mezzo della semplice presenza.
Questo processo che tende ad articolare la macchina, di fatto, parte dalle forme più basilari – la cosiddetta narrow o weak AI – che trovano la loro prima imitazione nei processi cognitivi di base: immagazzinare e sintetizzare dati, ma anche fornire risposte e soluzioni per raggiungere determinati obiettivi (Russell 2020).
Nel suo specializzarsi, l’IA – e chi ovviamente la programma – presenta questa forte spinta mimetica; basti pensare al timbro e tono di voce di Siri, o all’insieme di risposte a domande ironiche e/o ad affermazioni umoristiche che le si possono sottoporre. L’intelligenza artificiale diventa una presenza assente, una coscienza senza corpo che domina l’ambiente domestico e quello pubblico; così «la funzione dell’intelligenza (software) separata dal suo supporto (hardware), allora, potrà essere resa disincarnata e immortale» (Oddo 2018, 42).
L’utente medio oggi, entrando in casa, può chiedere a una fantomatica Alexa di obbedire senza palesarsi. Questa forma di relazione permette di percepire l’IA come ancora eteronoma. Di fatto, si può considerare l’aumento esponenziale dell’autonomia della macchina, proprio basandosi sul modo in cui non solo riesce a prendere decisioni indipendentemente dalla presenza umana (potenziamento delle abilità cognitivo-computazionali), ma anche in base a come riesce ad agire nel mondo – si pensi ai robot-killer o ai veicoli autonomi.
La macchina diventa sempre più performativa man mano che il sistema cognitivo, incarnandosi, riesce a estendere la propria influenza sull’ambiente. Le intelligenze artificiali nel loro sviluppo – dal semplice algoritmo al robot umanoide – innescano un processo di aumento della complessità che oggi trova il proprio punto di culminazione in macchine di protesi corporee.
La funzione del corpo tenta di essere qui riprodotta, arrivando anche alla creazione di reti neurali artificiali. Questa idea delle RNA prende le mosse da un livello di semplice percezione ed elaborazione (machine learning), passando a una forma più complessa di livelli (layers) interni al sistema algoritmico (deep learning) (Domingos 2020). Più il sistema è complesso (quindi maggiore è il numero di livelli su cui viene elaborata l’informazione), maggiore sarà la possibilità di feedback forniti dal sistema, che in base all’insieme di dati immessi sono indotti all’auto-apprendimento.
Qui si riscontra un’importante intersezione con le neuroscienze. Damasio stesso già introduceva la funzione del “marcatore somatico” come un indicatore essenziale nello sviluppo dell’agire umano – partendo proprio dal valore della percezione esterna. Scrive l’autore: «quando viene alla mente, sia pure a lampi, l’esito negativo connesso con una determinata opzione di risposta, si avverte una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco. Dato che ciò riguarda il corpo, ho definito il fenomeno con il termine tecnico di stato somatico» (Damasio 1995, 245).
Gli studi di Damasio a proposito del marcatore somatico hanno trovato un importante sviluppo nella teoria della embodied mind. I modelli di mente incorporata, infatti, «Delineano una mente le cui funzioni sono intrinsecamente vincolate dalle specificità della relativa organizzazione materiale, che, secondo alcune teorie dell’incorporazione, non risiede esclusivamente nella piattaforma cerebrale, ma comprende il nostro corpo, i nostri strumenti, le nostre tecniche» (Dumouchel & Daminao, 60).
Il corpo costituisce un veicolo dalle funzioni attivo-passive rispetto all’ambiente circostante, e per questo è fondamentale nello sviluppo dell’individualità; esso situa il soggetto in una specifica condizione. Il corpo, come percezione dell’ambiente esterno, è fonte di conoscenza (nella formula che è ben nota già dall’empirismo) e favorisce i processi di apprendimento. La macchina, in questo senso, non possedendo questo sistema articolato di interazione diretta con il mondo, si allontana dal modello delle specie naturali.
Anche la possibilità stessa di acquisizione di autonomia dipende strettamente dal modo in cui l’apprendimento permette all’organismo di svilupparsi per adeguarsi all’ambiente (Dumouchel & Damiano 2019).
Come si diceva, il corpo ha una funzione passiva che permette di creare un sistema di relazioni con altre soggettività nel momento in cui le percepisce nello spazio; allo stesso tempo, però, gioca un ruolo attivo in quanto esercita sul mondo, e quindi sugli altri, un’influenza non indifferente anche solo per mezzo della semplice presenza.
Èric Sadin propone due interessanti osservazioni a proposito del rapporto macchina-corpo:
La prima è che queste architetture computazionali sono prive di corpo; esse non sono altro che delle macchine calcolatrici la cui funzione si limita alla semplice elaborazione di flussi informativi astratti. E nel caso in cui esse si trovino collegate a dei sensori [cibernetica], non fanno altro che ridurre certi elementi del reale a dei codici binari, trovandosi escluse da un’infinità di dimensioni che invece la nostra sensibilità coglie e che sfuggono ai principi di una modellizzazione matematica […]. La seconda ragione è che non esiste intelligenza che viva isolata, chiusa nelle proprie logiche; e penso al principio di progressione che consiste nell’esercitarsi da solo “contro sé stessi” come in una bolla, conformemente alla logica detta per “rafforzamento” […]. Perché l’intelligenza è indissociabile da rapporti aperti e indeterminati con gli esseri e le cose, da un contesto epigenetico, da un ambiente, cioè, composito nel quale evolvere e distinguersi (Sadin 2019, 23)
Raggiungere l’imitazione di questo sistema, tale che una macchina diventi un agente autonomo, in grado di affinare il proprio sistema di risposta all’ambiente, pare essere il punto di arrivo ultimo che porterebbe alla creazione di una super-intelligenza. Il corpo assente dell’IA è uno dei limiti più importanti che si possono riscontrare nella progettazione delle intelligenze artificiali. Tuttavia, la creazione di robot umanoidi, dalle sembianze umane, anche se non completamente autonomi, produce un effetto di non poco rilievo nel sistema relazionale uomo-macchina: un senso di disorientamento. Su questo tema, Masahiro Mori progetta un grafico con una particolare curvatura che chiama “valle del perturbante” [En. uncanny valley] (Mori 1970; Rank 1971; Freud 1989). Qui, il confine fra familiarità e non-familiarità rappresentato dalla macchina produce uno straniamento che porta a percepire l’IA come una minaccia.
Rivoluzione digitale e Uncanny valley
Il corpo è dunque un mezzo che permette lo stabilirsi di una comunicazione continua con l’esterno, favorendo la graduale acquisizione di una certa autonomia al soggetto – partendo dal semplice orientamento spaziale nel mondo. Allo stesso tempo, però, rispetto a questo dato antropologico, si pone il problema delle relazioni inter-soggettive e del loro ruolo nel tempo dell’iper-tecnica.
Il nuovo paradigma della relazione trova un punto in comune tra intelligenza artificiale e social media – e in entrambi i casi, la riflessione si declina in senso fortemente psicoanalitico. Nelle relazioni virtuali, infatti, il corpo ha un carico simbolico forte, in quanto spazio-tempo definito in cui si concretizza l’individualità. Oggi, si tratta di comprendere come «la dimensione storica, la complessa unità di vincoli e di plasticità, patrimonio del nostro passato biologico, psichico e culturale, interagisca con la funzionalità prestazionale del nuovo soggetto cognitivo ed emotivo modellato dalla rete, definendo nuovi scenari di soddisfazione e appagamento e nuove forme di alienazione e sofferenza» (Oddo 2018, 31).
Il corpo scompare (a) sia nella relazione fra la fisicità umana e le intelligenze artificiali che dominano l’ambiente, (b) sia fra esseri umani, diventando sempre più fatiscente, trasformato, falsato, nascosto dalle relazioni vaporose dei social media:
viene rotta la relazione complessa fra il corpo e l’ambiente, soggetto e oggetto divengono enti assoluti, cioè sciolti dalle pratiche e da significati che li costituiscono e caratterizzano […]. La valenza prospettiva e simbolico che pone in continua relazione fra loro, inconscio e conscio, corpo e mente, viene disarticolata nella dimensione artificiale dell’intelligenza, staccata dalla sua matrice corporea e affettiva, isolata alla sua valenza immaginifica e creativa (Ivi, 37-38)
Questa de-somatizzazione dell’essere umano – che sia tramite le relazioni virtuali, che sia tramite la creazione di intelligenze artificiali più complesse – proietta il bisogno umano di neutralizzazione della vulnerabilità della specie. Questa fragilità, che si manifesta primariamente nel corpo come spazio storico-simbolico corruttibile, si idealizza così nella forma dell’identità virtuale e della proiezione verso uno stato di singolarità tecnologica. La spinta estrema della produzione artificiale, dunque, si configura come una creazione/produzione che mira a superare l’essere umano nel suo percepirsi come intrinsecamente limitato.
Il nuovo motto è dunque “Deus est machina”: l’intelligenza artificiale è spoglia delle vesti mortali, espressione assoluta della precisione e della mancanza di errori; questa è la stessa che minaccia il pluralismo in quanto espressione dell’assolutismo tecnocratico, a cui oggi si contrappone la necessità di un avanzamento tecnologico nell’ottica di un progetto umanistico (Donatelli 2020). Si, pensi, di fatto, che il grafico di Masahiro Mori ipotizza, nell’ultimo stadio, l’idea di un Cyborg Buddha come assolutizzazione totale dell’umano, modello di perfezione ideale e inimitabile – in poche parole, una divinità creata dall’uomo, eterea: «Il corpo, stretto nei vincoli della sua conformazione biologica, diventa una gabbia, da cui la tecnologia informatizzata ci può e ci deve liberare, potenziando, oltre i limiti mentali di elaborazione, le nostre capacità operative» (Oddo 2018, 125). Dunque, l’IA si trova in continuità con questa idea di dis-incarnazione già presente nella dimensione digitale, diventando massima espressione di incorruttibilità e affidabilità matematica.
Prima di arrivare allo stadio del Cyborg-Buddha, però, si configura un momento intermedio che qui interessa maggiormente: quello del robot umanoide. Questo diventa un’individualità il cui corpo artificiale, vuoto di una vera storicità, svolge un ruolo attivo attraverso la semplice presenza. È proprio qui, quando la somiglianza è troppa ma non eccessiva, nel confine fra noto e ignoto, simile e dissimile, corpo storico e corpo simulato che Masahiro Mori individua la uncanny valley, la valle del perturbante.
Bene, questo, lo rappresentano le narrazioni della serialità contemporanea. Si prenda il caso della seconda puntata della prima stagione di Black Mirror, che porta il titolo “Torna da me”, in cui un giovane marito rimane tragicamente vittima di un incidente. La morte improvvisa, unita all’impossibilità di metabolizzare un lutto così inatteso, porta la moglie a servirsi di un’azienda che riproduce integralmente la coscienza dell’uomo, attingendo dalle informazioni delle sue identità digitali e restituendola in un corpo sintetico. Dunque, un software-coscienza in un hardware-corpo. Tuttavia, questo ritorno dell’uomo produce un forte turbamento emotivo, uno spaesamento o, ancora meglio, un senso del perturbante che impone alla giovane vedova di rinchiudere il robot nell’attico.
La vista è insopportabile, il “sosia” si impone come un residuo, una figura fantasmatica, un’individualità la cui semplice presenza disturba.
Il robot non è, quindi, solo un’intelligenza a-somatica, eterea, impalpabile; una macchina così complessa condiziona fortemente l’ambiente partendo dal fatto che possiede un corpo che si situa concretamente in un contesto fatto di relazioni. Nel campo di applicazione della robotica sociale, questo muta notevolmente le cose:
La presenza fisica tridimensionale dei robot distingue radicalmente dagli agenti virtuali. Questi ultimi, in definitiva, non costituiscono più di uno schermo e possono svolgere il loro ruolo solo se lo spettatore accetta – solo se ciò che vede gli interessa […]. Il robot si impone alla nostra attenzione in un modo completamente diverso. Fa irruzione nello spazio fisico in cui viviamo. Certamente è molto più difficile negare o ignorare la presenza di un agente la cui complessità si esprime anche, in certa misura, nell’assumerci come suo oggetto di attenzione. Mentre le interazioni con agenti virtuali si inscrivono agiatamente nel paradigma del rapporto tra il pubblico e i media o le arti dello spettacolo, gli scambi con i robot sono di altro ordine. Non c’è alcuna zona perturbante (uncanny valley) per gli agenti virtuali, dato che questi sono chiusi nello schermo e non possono irrompere nel nostro mondo, nell’universo fisico tridimensionale in cui viviamo (Dumouchel & Damiano, 59)
La valle del perturbante di Mori rimane una delle intuizioni più importanti che entra nel merito della robotica sociale, ma anche nello specifico campo psicoanalitico del valore della corporeità come elemento essenziale all’individuazione. Nell’ottica di un’IA che tende a diventare sempre più complessa, la dotazione corporea – seppure costituisca un importante progresso imitativo e può anche dire molto sui processi cognitivi ed emotivi umani – rimane un esperimento che, rispetto al valore dell’IA, potrebbe diventare contro-producente. La macchina perde infatti la propria funzione specifica diventando un sostituto vero e proprio dell’essere umano (Nida-Rümelin & Weidenfel, 2018), senza svolgere il ruolo di semplice supporto per cui è originariamente programmata.
Riferimenti bibliografici
- Anders, Günther. 2007. L’uomo è antiquato, 2 voll. Torino: Bollati Boringhieri.
- Damasio, Antonio. 1995. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Milano: Adelphi.
- Domingos, Pedro. 2020. L’algoritmo definitivo. La macchina che impara da sola e il futuro del nostro mondo. Torino: Bollati Boringhieri.
- Donatelli O. 2020. La filosofia e la vita etica. Torino: Einaudi.
- Dumouchel, Paul & Damiano Luisa. 2019. Vivere con i robot. Saggio sull’empatia artificiale, Milano: Raffaello Cortina Editore.
- Nida-Rümelin, Julian & Weidenfeld Nathalie. 2019. Umanesimo digitale. Un’etica per l’epoca delle intelligenze artificiali. Milano: FrancoAngeli.
- Oddo, Letizia. 2018. L’inconscio fra reale e virtuale. Dopo Jung. Visioni della comunicazione informatica. Bergamo: Moretti e Vitali.
- Turing, Alan. 1956. Computing Machinery and Intelligence. “Mind”: 59; 236. Oxford: Oxford University Press, pp. 433-460. 1950.
- Rossi, Francesca. 2019. Il confine futuro. Possiamo fidarci dell’intelligenza artificiale?. Milano: Feltrinelli.
- Russell, Stuart. 2020. Human Compatible. Artificial Intelligence and the Problem of Control. London: Penguin.
- Sadin Éric. 2019. Critica della ragione artificiale. Una difesa dell’umanità. Milano: LUISS.
- Rank, Otto. 1971. The Double. A Psychoanalytic Study. Chapel Hill: University of North Carolina Press.
- Freud, Sigmund. 1989. Il perturbante. In S. Freud, Opere, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri.
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Lettura scorrevole, argomenti molto interessanti. Faccio una domanda – Dove andrà l’umanità con la IA incontrollata? Cordiali Saluti