Guy Debord, La società dello spettacolo, Traduz. Italiana di Paolo Salvadori, Baldini e Castoldi, Milano, 2008.
Debord scrive il suo saggio La Società dello spettacolo nel 1967: decisamente troppo presto. Non per capire i suoi tempi, ma per essere capito dal pubblico di quei tempi e probabilmente di quelli a venire. Chi è Guy Debord? E’ un uomo schivo, che non si lascia quasi mai fotografare, e che per suo stesso volere tenta di restare in una sorta di semi-anonimato, anche se scrive due testi autobiografici. Non ha mai posseduto né un telefono, né un televisore. Vive nascosto; solitario (avrà una sola donna, Alice), non frequenta convegni o conferenze; si definisce “dottore in niente”, ma conosce benissimo gli intellettuali del suo secolo e spesso i suoi giudizi non lasciano spazio all’immaginazione. Definisce Heidegger come “il povero nazista”, Sartre come “l’inqualificabile”, Lyotard come “raccattabriciole a rimorchio”. Debord è uomo di straordinarie intuizioni ma straordinariamente umile; dice di sé: “Quello che so fare al meglio, è bere”. Sarà spesso in Italia, paese che ama, per incontrare amici e intellettuali, ma verrà espulso dal governo Andreotti (Ministro dell’Interno , all’epoca, è Cossiga), accusato di fomentare attività insurrezionali nel nostro Paese. Si dichiara nato “virtualmente rovinato”, poiché i genitori hanno subito dissesti economici a causa della crisi del 1929.
E’ noto, tra chi lo può frequentare, per il suo disincanto e per una diffidenza al limite della brutalità. Prima dei commenti a un suo film, dichiara: “Il cinema è morto. Passiamo, se volete, al dibattito”. E’ il 1952. A renderlo così drastico non è lo spettro della povertà ereditata dai genitori, ma la consapevolezza, dispensatrice di una quotidiana e insopportabile amarezza, di vivere in un’epoca in cui la finzione, o meglio la rappresentazione della realtà, hanno soppiantato la realtà stessa. E’ questa la tesi fondamentale della Società dello spettacolo. Se si volesse intraprendere un viaggio nel passato, alla ricerca delle tappe che hanno condotto a questo esito, si scoprirebbe che la società dello spettacolo è quella società nata quando, dopo il passaggio dall’essere all’avere, si è compiuto il passaggio dall’avere all’apparire. Resta però da spiegare perché un simile passaggio sia avvenuto. La risposta è semplice: dopo l’avvento del capitalismo, nella nostra società contano solo l’economia e il denaro. L’economia ha trasformato il mondo, facendolo diventare esclusivamente mondo dell’economia; tale mondo, però, è solo un mondo di merci. Si badi bene: merci, e non oggetti. Le merci sono prodotte con l’unica intenzione di venderle ai consumatori, e non sono prodotte perché vengono ritenute utili. Esse hanno valore solo perché possono essere scambiate, e così devono essere costantemente caricate, a forza, di significati e valori aggiuntivi, del tutto immaginari (e che devono colpire l’immaginario della massa consumatrice). Così, le menti si abituano a operare su elementi astratti, anziché concreti; ideali, anziché reali. Ciascuno di noi pone l’attenzione verso le qualità rappresentate delle cose, e non più alle qualità reali. Ed ecco allora che si scivola progressivamente nella palude dell’irrealtà, abbandonando pericolosamente la realtà.
Ciò spiega l’uso della parola “spettacolo”: che significa appunto apparenza, rappresentazione. Non a caso, a preambolo della prima sezione, Debord cita un famoso pensiero di Feuerbach, tratto da una prefazione dell’Essenza del cristianesimo: «E senza dubbio il nostro tempo (…) preferisce l’ immagine alle cose, la copia all’ originale, la rappresentazione alla realtà, l’ apparenza all’essere (…)» (p. 51). Debord ripete: «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione» (p. 53).
Ora: lo spettacolo, secondo Debord, ha trionfato su tutta la linea. Ciò significa che, cominciando col prestarsi a rappresentare le merci, si è poi prestato alla rappresentazione di qualsiasi fenomeno, oggetto, idea, forma d’arte, pensiero politico, attività o altro. Esso si sottomette agli uomini solo nella misura in cui l’economia li ha totalmente sottomessi (non dimentichiamo che tutto si sviluppa dall’avvento dell’economia di mercato). Non solo: lo spettacolo ha impregnato di sé qualsiasi discorso di critica sociale, fino a prenderne il posto e a creare un monologo elogiativo di se stesso e della società che lo accoglie come padrone, eliminando così, come già aveva intuito Barthes parlando delle mitologie del post-moderno, ogni autentico dibattito politico o progetto alternativo.
Quali sono le conseguenze? Secondo Debord l’avvento della società dello spettacolo porta con sé manifestazioni tanto inconfondibili quanto inestirpabili. In primo luogo, poiché ogni individuo si riduce a spettatore di un universo non di cose, ma di rappresentazioni delle cose; ciascuno di noi, per dirla con Freud, sospende la propria incredulità, così come si fa verso tutte le rappresentazioni (a teatro, al cinema, leggendo un romanzo). Ogni individuo è quindi più propenso a credere a ciò che non dovrebbe essere creduto.
In secondo luogo, ciascuno di noi, come detto poco sopra, si riduce a spettatore che contempla la vita, convincendosi sempre di più che la contemplazione, e non l’azione, è l’essenza della vita stessa. Domina quindi negli animi un senso di pigrizia intellettuale e morale, unita a un senso di ineluttabilità degli eventi.
Terzo aspetto: poiché tutto è merce, nei nostri animi non accade altro che un susseguirsi di entusiasmi, opportunamente indotti da chi gestisce lo spettacolo (ossia i governi, di concerto con le industrie dei vari generi), verso ogni genere di merce, specie se dotata dell’aura della novità. Nel momento, poi, in cui la massa delle merci scivola verso l’aberrante, l’aberrante stesso diventa una merce speciale. Si tratta dell’abominevole invenzione del gadget.
Quarto elemento: dato che la vita di ogni singola persona è fondamentalmente orientata alle merci e ai discorsi su di esse, lo spettacolo ha generato una falsa società, in cui non esistono autentici rapporti tra le persone, e in cui domina la solitudine, poiché il rapporto con le cose ha acquisito un valore preponderante.
Trascurando altri aspetti, per ragioni di spazio, bisogna almeno aggiungere un ultimo elemento, decisamente fecondo per ulteriori riflessioni sul discorso debordiano: nella società dello spettacolo la rappresentazione, ovunque padrona, contamina l’analisi e il racconto degli eventi più rilevanti per la società stessa, dando origine alle famigerate versioni ufficiali dei fatti, che ovviamente celano il reale svolgersi degli avvenimenti, così come il loro significato autentico. Debord pone l’attenzione sulla versione ufficiale del rapimento di Aldo Moro, mostrando come le contraddizioni logiche e le incongruenze, da parte di chi ha ricostruito e giudicato la vicenda, confermino come la verità sulle questioni di Stato sia regolarmente e intenzionalmente cancellata dai mass-media. Essi producono, riguardo a tali questioni, narrazioni demenziali le quali, come allude Debord, sono anche responsabili della sempre più diffusa demenza che caratterizza la società odierna.
L’analisi di Debord si pone tra filosofia e sociologia: è un’analisi della società fatta con strumenti e concetti filosofici (il linguaggio ha un sapore hegeliano-marxista), ma le argomentazioni latitano, non perché l’autore non le sappia trovare, ma perché egli incontra costantemente nei fatti e nella storia le conferme delle proprie affermazioni, potendo orgogliosamente affermare di essere l’unico intellettuale mai smentito, neppure una sola volta, dal futuro, che ha saputo mirabilmente anticipare. Un esempio per tutti: Debord afferma che il segreto domina la società dello spettacolo, e il fatto che oggi tutte le più importanti questioni, di qualsiasi carattere esse siano, siano coperte più o meno parzialmente da segreto (dall’11 settembre ai “misteri” dell’economia, dalla morte di Bin Laden, il cui corpo è stato provvidenzialmente gettato in mare, alle stragi più discusse, come quella di Bologna), è la conferma delle intuizioni di Debord. E ciò senza contare l’ampio spazio di segretezza che ogni governo mondiale si riserva, potendo agire al di fuori di un controllo e, in sostanza, di una vera democraticità. Non dimentichiamo che Debord scrive questi pensieri nel 1967.
Ecco dunque la più solida motivazione a leggere La società dello spettacolo: vi si troverà illustrato un criterio per orientarsi nel nostro tempo e per comprenderlo. Un criterio che ha retto, indubitabilmente, alla prova dei fatti e del tempo. Non è poco.
Chi si sentisse disorientato dallo stile a volte oscuro dell’autore, non si scoraggi: troverà nei Commentari alla società dello spettacolo, presente nell’edizione cui qui si fa riferimento, una riesposizione più chiara dei concetti fondamentali esposti nella prima edizione dell’opera.
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