I due corni dell’orrore metafisico di Kolakowski

Conosciuto come grande storico delle idee e dei movimenti religiosi del ‘600, Leszek Kolakowski (1927-2009) è anche filosofo dalle posizioni eccentriche, inizialmente marxista ma poi espulso dalle file del movimento per le sue tesi radicali (che poi finirono per diventare realtà, come l’approdo necessariamente staliniano del marxismo). Anche la sua metafisica, consegnata in un testo del 1988 dal titolo Orrore Metafisico, è semplice quanto radicale: l’idea cioè che con la nozione di perfetto, che ha sostituito quella di creazione, il pensiero greco fu il primo a scoprire nella filosofia una dimensione nullificante. Si tratta in altre parole di quella dimensione che da Parmenide fino a Spinoza, passando per il neoplatonismo di Damascio, giunge ad un Ultimo che coincide con l’ente posto al di là di qualsiasi concettualizzazione. Tale prospettiva ha sostituito tutte quelle mitologie poietiche e quelle religioni che si fondavano sul cruor dei, il sangue divino frutto di violenza, facente perno su una teologia che prefigura un Dio che ama talmente la sua creazione da offrirsi in sacrificio per salvare il mondo. Al suo posto, dopo il fallimento dell’Assoluto, il pensiero ha voluto fondare la nozione di Cogito dando vita però allo stesso medesimo risultato: l’orrore metafisico.

 

I dilemmi dell’Assoluto
Il primo corno dell’orrore metafisico è la nozione di assoluto dietro la quale deve esserci, secondo Kolakowski, una sorta di coazione mentale che si divarica in due direzioni. Da una parte si va in cerca di una causa o del creatore; dall’altra in quella del fondamento necessario. In entrambi i casi l’esistenza di un Ultimo è necessaria fino a rendere la sua mancata esistenza come qualcosa di contraddittorio. Se la ricerca della verità è così concepita, allora essa non potrà essere soddisfatta che dall’Assoluto. In che modo a questo Ultimo può essere attribuito la qualità di persona e riconoscergli amore e benevolenza? Proclo ad esempio identifica l’Uno con il bene ma si stenta a comprendere in cosa consista, in quanto esso ha la stessa ampiezza dell’Essere che non spiega affatto la sua benevolenza. Il problema dell’Assoluto allora, insiste Kolakowski è che esso, anche a causa delle mitologie, è sempre stato cruor, cioè sofferente. Soltanto due neoplatonici sono riusciti ad andare al di là di questo schema, spogliandolo di tutte le sue qualità personali e mitologiche: Damascio e Spinoza.
Per Damascio l’uno diventa secondario e al suo posto subentra un’oscurità senza nome che nessun concetto può raggiungere. Anche dicendo che una realtà è completamente ineffabile si cade nell’antinomia e nell’autoreferenza. La filosofia di Damascio si risolve con una doppia negazione che è di fatto un’antinomia dove si ritrovano due specie di nulla: uno è principio di ogni cosa, l’altro è un nulla più basso che giace sotto la materia. Per Damascio il nulla è l’unico principio dell’Universo ben riassunto da Hegel secondo cui il puro essere e il puro non essere sono identici.
Con Spinoza invece e con il determinismo moderno viene costruito un “randello” con cui giustiziare tutte le teologie tradizionali tra cui il Dio della revelatio.
La cristianità, con sforzo inutile per difendersi da questo attacco, non ha fatto altro che fondere la tradizione del Padre biblico con quella dell’Assoluto ineffabile con il risultato, evidente nello Pseudo Dionigi e poi in Cusano, di far crollare il linguaggio. La conclusione, per Kolakowski, è che l’Assoluto è come un monarca costituzionale che, nonostante la sua importanza, non riesce più a governare le menti degli uomini.

Il cogito, inutile rimedio
«L’orrore consiste in questo: se nulla esiste tranne l’assoluto, l’Assoluto è nulla; se nulla esiste tranne me stesso, io sono nulla»: ecco il secondo corno dell’orrore metafisico, la nozione cartesiana del cogito. Nato a difesa del concetto di esistenza (Cogito ergo sum) esso dilegua come unità concettuale separata e non può essere ammesso come aveva fatto Cartesio. Kolakowski fa riferimento all’argomento del sogno di Cartesio con il quale non si ha nessuna garanzia che io non stia sognando e che il sogno continui. In verità la nozione di Cogito, dimostrato attraverso un esperimento mentale, un compito lo assolve. Supponiamo dice Kolakowski che riuscissimo a produrre un mondo attraverso un semplice atto di volontà (l’Himalaya, Parigi, un deserto lunare): tali mondi sarebbero sì irreali ma loro irrealtà non differirebbe dalle percezioni che abbiamo di quelli reali. In particolare, si chiede il filosofo, la consapevolezza della loro irrealtà sarebbe un motivo di inquietudine per noi? La risposta è no a meno che non si prendano in considerazione le persone: in quel caso il sentimento della nostra solitudine ci turberebbe in modo insopportabile, allo stesso modo se sapessimo di incontrare soltanto degli automi. Tale esperimento suggerisce che la parola esistenza è riferita a due specie di intuizioni. Da una parte l’aspetto comunicativo, in cui reale è ciò che è tale entro le regole stabilite dalla comunicazione umana: in questo modo l’esistenza cessa di essere un problema metafisico con tutta la realtà esterna che diventa un gioco linguistico volto a soddisfare bisogni pratici in merito all’organizzazione del mondo. Dall’altra parte l’esperimento mentale suggerisce la domanda sul perché sia importante avere l’intuizione dell’esistenza: la risposta, affidata a Nietzsche, è che essa altro non è che un segno della debolezza umana.
Anche il cogito dunque si trasforma nel nulla e a nulla sono valsi i tentativi della filosofia di salvarlo. Anzi, al cogito è stato per ultimo imputato la responsabilità di avere fatto a pezzi la soggettività radicalizzando, così come aveva fatto la riforma luterana, l’attacco agostiniano alla volontà umana, considerata il principio del male. L’Ego insomma ha finito per essere un Assoluto anch’esso sprofondato nel Nulla (in questo caso con il suo continuo fare a pezzi la realtà). A niente valsero i tentativi di Spinoza la cui pretesa di esprimere l’Assoluto tramite il linguaggio fu, per Kolakowski, resa vana dall’empirismo che mandò in fumo il suo monumento.

Il problema del linguaggio e la sconfitta della filosofia
Quella di Kolakowski è una posizione che rientra a pieno titolo nella grande tradizione dello scetticismo il quale non finisce mai di segnalare le sconfitte della filosofia. A questo proposito sono due i grandi argomenti polemici, desunti dal modo stesso in cui i filosofi si aggirano oggi nel mondo. Da una parte quelli che si dedicano all’auto-martirio il quale consiste in una duplicità di atteggiamenti: da una parte coloro che dichiarano che alcune questioni metafisiche sono insensate e addirittura non questioni (tipiche di certa filosofia del linguaggio); dall’altra coloro che hanno affermato che non è possibile andare al di là di norme culturali o di sistemi di pensiero: da questo punto di vista la soluzione del primo Wittgenstein sarebbe quella auspicabile, smettere cioè di fare filosofia per darsi ad altre occupazioni. Il secondo argomento che segnala la sconfitta della filosofia è quello dell’auto-derisione, ovvero l’idea secondo cui essa può sopravvivere al sicuro soltanto tenendosi occupata a provare la propria morte. Da Hegel fino ad Heidegger ed oltre, anche in questo caso non mancano esempi.
Il problema per Kolakowski è che la filosofia è andata alla ricerca di un linguaggio assoluto che fin dall’inizio era senza speranza perché, per esprimere le varie questioni, gli uomini sono costretti ad utilizzare un linguaggio contingente e non adatto per problemi metafisici: come enunciava il Cratilo di Platone, non esiste nessun cominciamento e nessun linguaggio assoluto. Kolakowski, pieno erede della tradizione scettica, intende la verità come rifiuto di tutte le verità.

 

Riferimenti bibliografici
L. Kolakowski, Orrore metafisico, Il Mulino, Bologna, 2007

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

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