Le due montagne e l’estetica del paesaggio


Henri Maldiney (1912-2013) è stato uno tra i maggiori rappresentanti della corrente fenomenologica in Francia. In linea con gli aspetti più innovativi di questo movimento, volto alla rettifica della teoria della percezione da possibili pregiudizi idealistici, qui mi concentrerò su alcuni dei caratteri più originali della sua teoria estetica. In particolare, lo farò sulle descrizioni di Maldiney offerte allo studio del paesaggio nel quale il soggetto della sua fenomenologia può trovarsi calato. Ritengo che ciò si renda rilevante perché il filosofo francese ha dedicato alcuni saggi all’apprezzamento del senso di spaesamento e vertigine che l’osservatore può sperimentare al cospetto di luoghi maestosi. Ciò rappresenta, inoltre, un elemento di novità rispetto ai lavori dei pensatori del suo tempo.

Osservazioni preliminari
Nel fare questo Maldiney ha avuto il merito di sottolineare una dualità latente e a tratti inespressa all’interno del pensiero fenomenologico, ovvero quella relativa ai termini di progetto e apertura. Con progetto, in fenomenologia, si definisce generalmente la possibilità di azione intesa come indirizzo delle scelte di vita che un soggetto detiene in virtù del possesso di un corpo. I riferimenti teorici, da questo punto di vista, sono da individuarsi nelle riflessioni di Husserl nei volumi delle Idee, di Heidegger in Essere e tempo e di Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione. Il progetto codifica i nessi intenzionali del soggetto fenomenologico; il suo delimitare progressivo degli abbozzi di oggetti; in breve, il suo continuo acclimatarsi alla familiarità offerta dalla tipica dell’ambiente circostante. Per apertura, invece, Maldiney sembra riferirsi a un concetto più primordiale, logicamente precedente rispetto a quello di progetto, e, per certi versi, fondante quest’ultimo. L’apertura si ascrive infatti, secondo il filosofo francese, a una sorta di disponibilità primaria dell’ambiente o del mondo a manifestarsi sensibilmente, e quindi a offrire la sua accessibilità alle differenti progettualità dei soggetti che in questo si trovano inscritti. Si tratta però di una disponibilità, quella dettata dal carattere di apertura del mondo all’esplorazione estetica, dal carattere ambiguo e alle volte chiaramente ostile. Ciò appare più evidente, per Maldiney, quando ci confrontiamo con luoghi in cui la presenza umana è più rarefatta, luoghi da scoprire e, talvolta, da conquistare. Questo, come intuibile, espone al pericolo, al rischio di abbandonarsi a una dimensione inedita della nostra corporeità i cui risvolti sono del tutto imprevedibili.

L’obiettivo che mi propongo in questo articolo è quello di restituire piena dignità concettuale a questa seconda accezione di apertura, più sinistra rispetto a quella prospettata come corollario alla definizione di progetto. La prospettiva che in questa sede scelgo per indagarla è quella di concentrarmi sullo studio di alcuni luoghi che Maldiney prende a titolo di esempio per esplicitarne l’incidenza sulla sua teoria estetica. Mi riferisco, in particolare, alla montagna Sainte-Victorie, situata a Aix-en-Provence e resa celebre dal ciclo di dipinti di Paul Cézanne, e al Monte Cervino, cui Maldiney ha dedicato le sue considerazioni nella fase più matura della sua riflessione.

La montagna Sainte-Victoire via Cézanne
Perché Maldiney sceglie di concentrarsi su queste vette? Come mai queste e non altre? Cosa possono offrire la Sainte-Victoire e il Cervino alla sua teoria estetica? Per Maldiney tali luoghi provocano un sovvertimento profondo nel corpo dell’osservatore. La visione della montagna, infatti, ha il potere di far scaturire una nuova configurazione ecologica, quest’ultima offerta da una particolare forma di intimità repulsiva che essa pare curiosamente offrire a chi vi si accosta.

La montagna, per sua struttura, ingloba da ogni lato l’osservatore. Quando quest’ultimo vi si approssima, la montagna diventa il suo mondo, il suo sfondo vitale ineludibile, l’elemento di apertura che è prodromo a tutti i suoi progetti. Nessuna mappa, infatti, nessun ricordo o esperienza precedente può aiutarlo a raccapezzarsi al suo cospetto. Lo spettatore che si avvicina alla dorsale montana non può dominare il suo paesaggio, a cui è esposto in tutta la sua fragilità. Per orientarsi al suo interno, egli deve perciò cercare di sintonizzarsi con il ritmo segreto della montagna, sperimentando come un effetto di vertigine. Questo introduce lo spettatore alla dimensione verticale e più segreta della montagna stessa. Solo aderendovi in questo modo lo spettatore può diventare un tutt’uno con essa, scoprendone l’altitudine.

Tale aspetto di perversione e riconversione delle nostre coordinate esistenziali, determinata dall’apertura improvvisa dello spazio alpino al nostro passaggio è ben raccolto, a parere di Maldiney, dalla pittura di Cézanne e dalle sue rappresentazioni della montagna Sainte-Victoire. Ciò che colpisce l’autore è l’elemento arcaico, come pre-umano, che Cézanne riesce a cogliere nelle sue opere. Prima della dimensione di frequentazione e d’uso, infatti, prima del progetto di cui l’uomo è portatore, c’è l’apertura, cioè la presentazione inedita di uno di spazio estetico e non operativo che funge però da palcoscenico a tutte le operazioni che a partire da esso si distaccano e prendono forma.

Das Château Noir und die Montagne Sainte-Victoire di Paul Cézanne (Künstler_in) – Albertina, Austria – Public Domain.
https://www.europeana.eu/item/15508/24081

Si tratta di un’istanza alla quale Maldiney aderisce pienamente in Existence. Crise et création (2001) e in Art, l’éclair de l’être (2012), due saggi dove l’oggetto specifico sono le implicazioni percettive che l’apparizione della montagna Sainte-Victoire provoca nell’osservatore. Quest’ultima, infatti, sfugge alla formula tradizionale dello sguardo, allo spazio dell’azione, perché rappresenta piuttosto un momento «aperturale» della percezione (Maldiney 2001, 105, traduzione mia, qui e nel seguito). Essa costituisce un’attrazione che impone una trasformazione, una torsione del corpo in relazione all’ambiente cui è mostrato. Nelle parole di Maldiney e nel suo commento delle opere di Cézanne, la montagna è un paesaggio in rapporto al quale ci troviamo nei pressi di un «orizzonte che ci avvolge», di un «qui assoluto ed esclusivo», in opposizione a ogni evento «passato o futuro» (Maldiney 2012, 24). Costantemente regolati dal «ritmo generativo» della Sainte-Victoire, ci troviamo come avvolti da una sensazione di «vertigine», che ribalta la nostra situazione e la nostra visione, arrivando persino a «portarci via da noi stessi» (Maldiney 2012, 26).

La montagna Sainte-Victoire è una figura «senza sfondo», un «abisso» abbagliante, l’esercizio di un movimento alla cui «sistole» (avendo qui in mente un famoso luogo merleau-pontyano della Fenomenologia) risponde una «geometria sorda di forme legate ai piani, che ne basa il fondamento geologico, un momento effettivo senza il quale la sua diastole sarebbe una dispersione irreale» (Maldiney 2012, 249-250). La sistole qui evocata rende possibile la diastole. Il primo movimento di distensione e aperturale rende possibile quello successivo e conseguente, di contrazione progettuale e soggettiva, proprio come avviene per i movimenti eponimi dei muscoli cardiaci, che questa metafora raccoglie. Le cartografie, i disegni, i “piani” di percorso devono il loro fondamento alla fisicità della montagna. Essi sono, in un certo senso, la sua traduzione nel nostro linguaggio umano. La sordità della geometria e della rappresentazione pare rispondere in qualche modo al richiamo primitivo della Sainte-Victoire e alla sua apertura primigenia.

Verso una rinnovata comprensione della spazialità montana
La montagna Sainte-Victoire rappresenta in Maldiney una tentazione dello spazio che unisce «radicamento terrestre» ed «emergenza» celeste (Maldiney 2012, 27). Stagliandosi oltre l’orizzonte la montagna produce un varco, un’apertura: in essa terra e cielo si ritrovano legati. Come anticipato, vicino e lontano sono coordinate del mondo fisico che qui hanno perso di valore. Rispetto a qualsiasi altro riferimento possibile, la Sainte-Victoire rappresenta «ciò attraverso cui ogni essere è» (Maldiney 2012, 29). Come scrive ancora Maldiney, questo mondo nuovo, offerto dalla presenza della montagna, è qui «prima delle cose» che sono in esso contenute. La sua realtà è il fondamento della loro. Una cosa è una cosa solo «se esprime questo mondo, e non le nostre proiezioni» che abbiamo su di esso. Il paesaggio di Cézanne non fornisce un ingresso o un punto di vista: al contrario, esso è «intraversabile» . Esso è, ogni volta, «il luogo unico in cui siamo presenti con tutte le potenzialità del nostro corpo proprio, in un abbraccio reciproco» (Maldiney 2012, 29).

Si tratta della descrizione della fusione, della generazione di uno spazio, di una radiosità immanente a qualsiasi estensione concepibile. L’aspetto della montagna, il suo volto, è per Maldiney un «evento-avvento» che ci «travolge e ci costringe», aprendo lo spazio del nostro sguardo e aprendo così «il proprio» (Maldiney 2012, 34). In questo contesto la nostra visione è come «messa in moto da una sorta di chiamata e risposta che ci dispone ad accogliere ciò che non ci aspettiamo» (ibid.). Qui l’apertura della montagna sembra frapporsi alle prerogative del progetto, la contemplazione all’azione. Il progetto, come azione essenzialmente umana legata al futuro, alla prassi, è estraneo all’intuizione, all’apprezzamento del paesaggio nella sua componente più originale, teorica e fondativa. È per questo motivo che in un luogo del genere non c’è orientamento, non si dà dominio. Al contrario, afferma Maldiney in Ouvrir le rien. L’art nu, un «sito» (Maldiney 2000, 44), ovvero un luogo artificiale, può essere visitato e percorso, trovandosi già da subito antropizzato.

L’apertura dello spazio montano precede dunque il progetto relativo alla sua possibile scalata. Il progetto, qui, si fonda sull’apertura: il progetto, l’azione, è la ricaduta, la “diastole” del primo momento aperturale, come chiarito dall’esempio della sordità della geometria cartacea, introdotto precedentemente nella lettura di L’art, l’écair de l’être. La progettualità è l’altra faccia, il rovescio dell’apertura. La distensione porta all’intenzione, alla centratura soggettiva. Il progetto comanda la sostituzione dell’«unità ritmica» con una «sintesi che, abolendo la forma, ne snatura gli elementi formativi» (Maldiney 2012, 35). Questo può accadere quando lo spazio viene addomesticato, quando l’enigma offerto dalla percezione viene decifrato dalla pratica. Consideriamo ora un caso in cui apertura e progetto possono coesistere in modo altrettanto eloquente.

 

La montagna Sainte-Victoire, d’inverno – Foto di Thomas Aubaud su Unsplash

L’apparizione del Cervino
C’è un’altra famosa montagna a cui Maldiney ha dedicato la sua attenzione: il Cervino. Egli lo fa, in particolare, in Ouvrir le rien. L’art nu (2000). Il Cervino presenta molte analogie con la Sainte-Victoire: anche il Cervino, infatti, appare, si innalza, apre lo spazio attorno a sé. L’«apparizione della montagna» è «un tutt’uno con l’apertura dello spazio e del tempo» di nuovo riferimento (Maldiney 2000, 38). Il Cervino interrompe il normale flusso dell’esperienza; esso è contrario alla possibilità di controllo, alla localizzazione del sorvolo, come direbbe Merleau-Ponty, giacché esso ha il potere di spostare «lo spazio unico di tutto ciò che avviene» al suo interno (Maldiney 2000, 35). Il Cervino rifiuta lo stile e la presa di chi cerca di renderlo domestico, cioè umano e prevedibile. Qui non c’è spazio per il riempimento oggettivante, per lo spazio operativo, per le identità, le continuità, le congetture della prassi: al suo «apparire la volontà è tutta silenzio» (Maldiney 2000, 35). Qui la tenacia si piega alla precarietà del vuoto, alla vertigine della montagna, a una «indeterminatezza il cui fondamento non può essere oggettivato» (Maldiney 2000, 43).

Il Cervino non prevede confini stabili alla sua estensione. Il suo «aspetto non ha nulla al di fuori di sé, da cui o sullo sfondo del quale appare. Tutto ciò che accade è accaduto al suo interno» (Maldiney 2000, 40). Contro l’originalità dell’estasi del soggetto, la sua rilevanza temporale e la sua attualità esistenziale e proiettiva, il Cervino pone il proprio essere come assoluto, prima di qualsiasi intenzione o polarità egologica. Così non è possibile istituire un vero «faccia a faccia con la montagna», dal momento che è con tutto il corpo che mi trovo esposto, da tutti i lati, estaticamente… alla cosa… al puro dove» (Maldiney 2000, 43). Qui si fa spazio anche un altro aspetto, qualcosa che forse non era emerso dalla lettura delle pagine dedicate alla Sainte-Victoire. Infatti, il sentimento di brancolamento che il Cervino risveglia nel cuore del vero alpinista smuove, dice l’autore, un rinnovato desiderio di «conquistare l’Assoluto […] scoprendo questo momento di realtà, in risonanza con il quale egli sente improvvisamente di esistere» (Maldiney 2000, 39) al suo cospetto. Si risveglia così in lui la fede primordiale nell’apparire, che cerca di fare i conti con un’esperienza al limite.

Vicino alla montagna, la manifestazione di «uno spazio di turbolenza» instaura, commenta l’autore, «lo spazio della vertigine» (Maldiney 2000, 44). Quando questo si verifica, come in risposta a tale senso di spaesamento, questo momento privativo è «sempre seguito da un altro, interrogativo. Lo sguardo dell’osservatore cerca di fissare questo spazio sfuggente in lontananza, la cui consistenza solleva domande. Cerco lo sguardo di questo volto che mi assedia e la cui circonferenza del nulla irrompe nel centro che è ovunque» (Maldiney 2000, 44). Lo cerco, conclude, «nel paesaggio furtivo o nella taciturna ritirata di un lampo o di un’ombra, che subito scompaiono nella vertiginosa fissità dell’intero spazio dove i segni hanno cessato di essere operativi» (Maldiney 2000, 44, enfasi mia).

Il Monte Cervino
Il Monte Cervino – Foto di Angelo Burgener su Unsplash

Il ritmo e la forma. Come si declina la manifestazione del paesaggio
In questo passaggio la volontà sembra riapparire, il desiderio di verifica ci ricorda la possibilità di riunirci in uno spazio dato come parte del tutto. Poche righe dopo, in Ouvrir le rien, viene infatti riportato un passaggio cruciale in cui Maldiney sostiene che, sebbene «i nessi topologici siano possibili solo nell’en-face, dove abbiamo a che fare con oggetti su cui possiamo operare, (…) la percezione reale non si limita all’en-face, dal momento che essa implica apprensioni oblique e marginali di momenti inattuali ma reali in cui siamo presenti» (Maldiney 2000, 44). Ancora una volta, «l’oggetto […] non sarebbe altro che un oggetto intenzionale senza corpo, se non fosse per l’emergere in esso di un mondo con cui siamo originariamente connessi» (Maldiney 2000, 44).

Come avviene nella teoria della percezione di Merleau-Ponty, sono lo sfondo e la sua latenza, la generalità, a dettare i limiti e le condizioni dell’esperienza della percettibilità particolare come processo continuo di manifestazione sensibile. Maldiney enuclea piuttosto i caratteri di questa percepibilità attraverso le nozioni di ritmo e forma, operanti in seno alla montagna e al suo paesaggio. Il ritmo, qui, è un esistenziale che si oppone al tempo spazializzato della cadenza. Il ritmo crea la vertigine, una caratteristica dell’elevazione che paradossalmente definisce l’orizzontalità della montagna, il suo essere orizzonte per noi che la frequentiamo. La forma della montagna, nel suo apparire, provoca una profonda riconversione di tutto l’ambiente circostante, nato assieme al suo sorgere. Maldiney scrive che, quando la montagna appare, tutte «le dimensioni (altezza, larghezza, profondità) si combinano in una tridimensionalità dinamica, le cui linee di forza opposte (…) costituiscono il ritmo» (Maldiney 2000, 47) del suo declinarsi percettivo.

È qui che entra in gioco la forma, che esprime il ritmo della manifestazione della montagna, il processo attraverso il quale le sue dimensioni oggettive si rendono distintive. La forma sembra essere la figura responsabile di questa perversione, dell’apparizione del progetto all’interno dell’apertura che permette al visitatore di stare, in modo particolare, sul suo bordo, di occuparla con il proprio corpo. La comparsa della montagna «esclude qualsiasi equilibrio indifferente, qualsiasi euritmia. Lo spazio in espansione radiale è ancora solo lo sfondo e solo la sua forma esiste di per sé» (Maldiney 2000, 47).

Verticalità e altitudine. La possibile sintonia con la montagna e la sublimazione della vertigine
La forma segna l’ingresso del Cervino, il suo costituirsi come spazio di presenza insormontabile. Lo spazio che si estende, come si può dedurre, è quello dello sfondo della corporeità generale a partire dalla quale le forme prendono posto. Le forme, però, si separano senza mai staccarsi completamente dallo sfondo generale. Esse si sviluppano avvolgendosi, senza mai perdere il contatto con la loro origine, la loro generalità.

Tuttavia, qualcosa è accaduto, l’unità è diventata molteplice. In effetti, le dimensioni costitutive della montagna «cospirano in questa emersione. Esse contribuiscono alla sua manifestazione perché sono investite da un’evidenza più brusca, più significativa, perché a emergere qui è ciò che è più caratteristico dell’esistenza umana: la verticalità» (Maldiney 2000, 47). «Nell’apparizione del Cervino siamo afferrati dalla nostra stessa esistenza, dalla manifestazione di un’essenza il cui arrivo in noi si rivela improvvisamente. La forma è il luogo d’incontro tra l’essenza che appare e l’essenza che esiste. (…) La verticalità è la dimensione secondo la quale, esistendo la sua forma, essa chiama in causa tutto lo spazio» (Maldiney 2000, 48, enfasi mia).

Qui fa la sua comparsa un altro termine, forse il più importante per il tema qui in oggetto, quello che ci permette di individuare il punto di contatto tra apertura e progetto, senza sacrificare l’uno a vantaggio dell’altro. Dopo il ritmo e la forma la verticalità designa la dimensione propria all’uomo e alla montagna, necessaria alla scoperta e alla conquista dell’altitudine. È in questa rinnovata prospettiva che l’apertura viene propriamente convertita alla progettualità. Così continua Maldiney, ammettendo che:

«Lo slancio [della montagna] manifesta il modo in cui la forma, formandosi appunto, muove lo spazio. […] La sua verticalità ascendente e discendente si impone prima di qualsiasi fissazione della parte superiore e inferiore. […] Il ritmo è la dimensione autogenerativa della forma, che […] può pretendere di interiorizzare lo spazio aperto della montagna solo se esprime l’essenza della montagna: l’Altitudine» (Maldiney 2000, 48).

Conclusione. Voci umane
La verticalità si relaziona con l’altitudine, nel superamento, o meglio nella sublimazione dell’orizzonte estetico nell’apprezzamento di un sentire comune. Ciò attesta l’unicità che lega la montagna a tutti coloro che vi si avvicinano, che gravitano intorno alla sua quota e che contribuiscono alla formazione della quota stessa.

Assumendo quest’ultimo carattere essenziale e fondendosi con la fisicità della montagna, anche gli alpinisti più timorosi testimoniano la loro particolare appartenenza a un unico spazio, montano e generale. In conclusione, per Maldiney nella scoperta della verticalità, apertura e progetto sembrano coincidere, poiché l’uomo, in questo contesto rinnovato, ascolta la montagna, risponde alla sua chiamata e alla sua richiesta di essere abitata, raggiunta nella comprensione dell’altitudine. Frédérick Jacquet ha definito questa particolare forma di “abitare” in Maldiney «l’aprirsi al mondo secondo un ritmo singolare, in un sentimento che si dispiega su uno sfondo di potenzialità – scoprendo così – l’unità in tensione che è la molla stessa del ritmo inteso come unità che non disperde le faglie e le rotture che costituiscono la sua stessa dinamica» (Jacquet 2017, 93).

Se anche il paesaggio più inabitabile, come il Cervino di Maldiney, rimanda e parla dell’essere umano, se anche nell’indifferenza mostra il suo “volto”, se «espellere un essere è ancora, in un certo senso, ratificare la sua esistenza, confermarlo nell’Essere» (Dardel 1990, 60), l’urgenza teorica di una rinnovata comprensione del paesaggio non può non trovare uno “spazio” e un’attenzione particolare nel pensiero contemporaneo in relazione alla riflessione sui luoghi e alla loro geografia abitativa.

 

Riferimenti bibliografici

  • Dardel, Eric. 1990. L’Homme et la Terre. Nature de la réalité géographique. Paris: Éditions du CHTS.
  • Jacquet, Frédéric. 2017. La Transpassibilité et l’événement. Essai sur la philosophie de Maldiney. Paris: Classiques Garnier
  • Maldiney, Henri. 1986. Art et existence. Paris: Klincksieck.
  • Maldiney, Henri. 1991. Penser l’homme et la folie. Gronoble: Millon
  • Maldiney, Henri. 2000. Ouvrir le rien. L’art nu. La Versanne: Encre Marine.
  • Maldiney, Henri. 2001. Existence, crise et création. La Versanne: Encre Marine.
  • Maldiney, Henri. 2012. L’art, l’éclair de l’être. Paris: Les Éditions du Cerf.
  • Maldiney, Henri. 2012. Notes sur le rythme, in J.-P. Charcosset (éd.), Henri Maldiney. Penser plus avant, Actes du Colloque de Lyon (13 et 14 novembre 2010), Chaton, Les Éditions de la Transparence.
  • Maldiney, Henri. 2012. Regard, parole, espace. Paris: Les Éditions du Cerf
  • Maldiney, Henri. 2012. «Sur le Vertige», in J.-P. Charcosset (éd.), Henri Maldiney. Penser plus avant… Actes du Colloque de Lyon (13 et 14 novembre 2010), Chaton, Les Éditions de la Transparence

Foto in evidenza di Angelo Burgener su Unsplash

Dottorando in Filosofia presso le Università Ca' Foscari di Venezia e Paris I Panthéon-Sorbonne. Precedentemente laureato in Scienze Filosofiche presso l'Università degli studi di Firenze e in Filosofia presso l'università di Trento.

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