Fenomenologia della nuova onda

Se il cinema è in grado di portarci nel mezzo, nella transizione, c’è una vera e propria corrente cinematografica che tenta di fare del cinema l’espressione della complessità del reale. Questo movimento, forse il primo ad avere una base intellettuale forte e una struttura culturale coerente e sistematica, è la Nouvelle vague. Nata nella Francia intellettualmente e politicamente engagé degli anni 50 del ‘900 – una Francia esistenzialista, dominata dalla personalità di Jean-Paul Sartre, dai pantaloni a sigaretta, dalle magliette a righe in stile bretone e dal fumo di Gitanes – la Nouvelle vague si vuole svincolare dalla tirannia del visivo, dell’immagine per l’immagine, dal concreto oggettivabile per trasformare il cinema in un mezzo di comunicazione flessibile al pari della scrittura. La macchina da presa usata come una stilografica in grado di lasciare schizzi di inchiostro sul muro delle emozioni umane e vedere quelle emozioni sempre da angolazioni diverse. Il film diventa forma temporale, non una semplice somma di immagini, diventa un tutto che restituisce totalmente il senso della realtà: un tutto che è più della somma matematica delle sue parti. 

Anche il percorso che porterà autori come Francois Truffaut o Jean-Luc Godard alla regia è un percorso originale e particolare. Se il nome Nouvelle vague deriva da un articolo pubblicato nel 1957 sul settimanale L’Express che ha per argomento i giovani francesi della fine degli anni ‘50 del ‘900, visti appunto come un’onda nuova che sta travolgendo la società francese del periodo, il termine stesso viene poi utilizzato per identificare tutti i registi francesi che, in molti casi, parteciperanno al Festival del cinema di Cannes nel 1959, ma che erano arrivati a dirigere film dopo una serie di esperienze diverse. Infatti, l’esperienza che accomuna tutti i registi è l’attività di critici all’interno di una rivista cinematografica, Cahiers du Cinema. Prima che registi, prima di confrontarsi direttamente con le immagini, questi autori si confrontano con la scrittura, con il giudizio sul lavoro altrui. I Cahiers rappresentavano una sorta di manifesto programmatico del movimento in cui ogni recensione, ogni articolo ma anche ogni film diventa uno sguardo sempre in divenire sulla realtà. Il regista diviene come uno scrittore per immagini in movimento che trafigge lo splendore del vero in modo inedito, emotivo, esistenziale. 

Ad esempio, c’è il tentativo di strutturare il racconto in maniera inaspettata. Spesso accade infatti che i ricordi che abbiamo, riguardanti i vari momenti della propria esistenza, siano in realtà parziali, tronchi, e così, quando si riguarda un album di vecchie foto, i ricordi possono riaffiorare in modo disordinato e caotico, con dei salti temporali. Allora come rendere questa condizione che coinvolge tutti? Come riportare in campo cinematografico questa situazione che è parte del nostro modo di affrontare le nostre memorie? Non ha senso ricostruire un ricordo in maniera cronologica perché di solito non ci ritorna in mente cronologicamente. 

Jean-Luc Godard: il linguaggio a-cinematografico
In À bout de souffle, ad esempio, opera prima del 1960 di Jean-Luc Godard c’è un dialogo significativo, in cui il regista taglia tutti i vuoti, i silenzi, spezzando il racconto e dando evidenza solo al parlato di quel discorso, proprio come avverrebbe in un ricordo il tempo accelera in modo inaspettato. Al contrario in Week End – una donna e un uomo da sabato a domenica, film del 1967, c’è una lunghissima carrellata che dura oltre 9 minuti in cui i protagonisti si ritrovano in un ingorgo e impiegano tutto questo tempo per percorrere solo 300 metri. Il tempo in questo caso rallenta, si ferma quasi, anche il più piccolo movimento, rumore di clacson, incidente automobilistico, impressione viene preso in considerazione e non lasciato a se stesso o superato e considerato inutile. Godard è forse il regista più eclettico, capace, contraddittorio e in grado di mettere in discussione qualsiasi tradizione per poi riaffermare quella stessa tradizione che aveva negato in un’opera successiva. È quello che fa del rifiuto un’affermazione, che tenta di creare un linguaggio a-cinematografico con i mezzi e la sintassi del cinema. Che sfonda lo schermo per descrivere lo splendore del vero.

È anche un regista in grado di girare tre o quattro film in uno stesso anno (solo tra il 1960 e il 1967 ne girerà quindici) con una qualità altissima e con argomenti, propositi e tecniche completamente opposti. In Vivre sa vie, pellicola del 1962, Godard è come se volesse affermare che la realtà basta a se stessa, completa in ogni sua sfaccettatura. Lunghi piani sequenza che si sistemano addosso ai personaggi, li ascoltano, li assecondano, come se li seguissero: tutto avviene sotto l’occhio vigile della macchina da presa che non giudica, non si intromette, registra solamente il potente evolversi del divenire.

L’approccio esistenziale al cinema
È importante a questo punto mettere in evidenza queste radici culturali forti della Nouvelle vague che risiedono principalmente nell’esistenzialismo fenomenologico proposto da Maurice Merleau-Ponty. Secondo il filosofo francese, infatti, se la filosofia e il cinema vanno d’accordo, se la riflessione e il lavoro concreto del regista cioè procedono nello stesso senso, tra i due si crea una comune maniera d’essere, una stessa visione del mondo. Il film, secondo il pensatore esistenzialista, non può essere ridotto a semplice somma di immagini, ma da quella che apparentemente sembra essere una semplice addizione nasce una nuova forma temporale. In questo modo il senso di un’immagine, il suo essere lì in quel momento, il suo stacco perentorio, è connessa con le immagini che la precedono, giungendo a creare una realtà nuova. È insomma una questione di percezione. Il senso del film è incorporato nel suo ritmo, proprio come il significato di un gesto è leggibile nel gesto stesso, un film non vuol significare altro che se stesso. Solo grazie alla percezione possiamo capire il significato del cinema: «il film non si pensa, ma si percepisce» (Merleau-Ponty 2016, 80). La vera novità di questo tipo di approccio, secondo Merleau-Ponty, sta nel fatto che quando percepisco non penso il mondo, ma è il mondo a organizzarsi davanti a me. Come la melodia non è una somma di note, la mia percezione non è una somma di dati visivi, tattili, uditivi. Io percepisco in modo univoco con il mio essere totale, colgo una struttura unica della cosa: un’unica maniera di esistere che parla contemporaneamente a tutti i miei sensi. Ogni nota musicale, proprio come ogni percezione, non conta se non per la funzione che svolge nell’insieme ed è la motivazione per cui la melodia non è sensibilmente mutata se la si traspone, cioè se non si cambiano i rapporti e la struttura dell’insieme. Al contrario cambiare i rapporti e l’equilibrio dell’armonia melodiosa basta a modificarne la fisionomia totale.

Se si va ad analizzare nel profondo questa fenomenologia della percezione ci si rende conto che l’uomo non è un intelletto che costruisce il mondo, «ma un essere che è gettato nel mondo e che vi resta attaccato come in virtù di un legame naturale» (Merleau-Ponty 2016, 75). Dobbiamo rinunciare a distinguere corpo e spirito, ma essere consapevoli che il mondo, gli altri, noi stessi e i film li percepiamo come un intero, un unico gettato nel mondo e che fa di questa gettatezza il senso più profondo del proprio essere nel mondo.

L’uomo insomma ha un bisogno disperato di realtà, di entrare di prepotenza nell’attuale, avendone un rapporto totale e totalizzante. Ha bisogno di vedere descritta la vita come essa si dà, nel sogno e nella realtà, nella sua assurdità e nella sua incomprensibilità, ma anche nel suo totale divenire. Se l’esistenza è un farsi continuo, mai determinato, nel quale io sono dentro con tutto me stesso, solo il cinema può riprodurre questo flusso perpetuo di tutto ciò che esiste e che entra nella mia contingenza. Questa sete di realismo è stata placata dalla pittura e dall’arte prima, dalla fotografia dopo e infine dal cinema. Il cinema arriva però dove non era mai arrivato nessuno e per parafrasare Merleau-Ponty potremmo dire che quel film che io guardo, seduto in un cinema buio, non è altro da me, sono io stesso che divento immagine che mi muovo pur stando fermo, personaggio reale, diverso da me ma parte di me e interno allo spettro di tutte le mie percezioni fenomenologiche che fanno sì che io sia quello che sono. 

C’è poi anche un altro aspetto che deve essere evidenziato: il cinema diventa una presa di coscienza della propria condizione. Le immagini cinematografiche hanno come fine il rappresentare esternamente, come fosse dipinta nelle cose stesse, l’irreversibilità del tempo. La scienza tenta di insegnarci il senso di questo movimento incessante, di cui però non abbiamo sempre percezione. C’è in questo qualcosa di fatale, di insopportabile. Prendendo parte alla proiezione noi viviamo una tragedia che si presenta come una marcia a tappe obbligate verso la catastrofe. Nessuno può invertire il corso degli eventi in divenire, neppure il regista: ogni movimento, ogni gesto ci spinge sempre ogni volta più in là in questa gara verso l’abisso. Non c’è niente che faccia sperare in un attimo di tregua, in uno stop per prendere respiro, ma tutti i personaggi, qualsiasi cosa dicano o facciano, avanzano inesorabilmente verso la loro fine. E così i protagonisti delle pellicole, noi stessi che guardiamo affondiamo sempre più nel fango e ogni nostro movimento, ogni tentativo di uscire fuori è destinato al fallimento. Non possiamo tirarci indietro.

Il cinema, dunque, è proprio l’arte che più di tutte può esprimere l’uomo attraverso il suo comportamento visibile. Il cinema ci mostra il pensiero nei gesti, la persona nel comportamento, l’anima nel corpo. Esso verifica la psicologia del comportamento e questa psicologia ci fa capire il fascino singolare del cinema.

Come scrive Gilles Deleuze nel secondo dei due saggi che ha dedicato al cinema: «Lo schermo stesso è la membrana cerebrale in cui si affrontano immediatamente, direttamente, il passato e il futuro, l’interno e l’esterno senza distanza assegnabile, indipendentemente da qualsiasi punto».

 

Riferimenti bibliografici

  • Merleau-Ponty, Maurice. 2016. Senso e non senso. Milano: Il saggiatore.

 

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L’immagine inserita in questo articolo è tratta dal film Jules et Jim (1962) ed appartiene al titolare dei diritti. Viene qui utilizzata in forza dell’articolo 70 comma 1 della legge 22 aprile 1941 n. 633, modificata dalla legge 22 maggio 2004 n. 128, poiché trattasi di «citazione o […] riproduzione di brani o di parti di opera […]» utilizzati «per uso di critica o di discussione» nonché per mere finalità illustrative e comunque per fini non commerciali in quanto la presenza su Ritiri Filosofici non costituisce in alcun modo «concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera».

Insegnante di Filosofia e storia nei licei umbri, è autore del libro "L'amore, la violenza e la filosofia", pubblicato nel 2022 da Arcana edizioni. Il suo interesse è concentrato soprattutto sul rapporto tra i mezzi d'intrattenimento e la filosofia.

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