La metafisica, per sua stessa definizione e per come nei secoli la filosofia occidentale ha inteso tale “disciplina”, ha sempre avuto un rapporto diretto con concetti quali Tutto, totalità, infinito, assoluto.
La fisica al contrario, e quindi le scienze in generale, in quanto dottrine specializzate di un particolare settore del reale, hanno invece sempre avuto a che fare col finito. Con il reale, appunto, ovvero con una dimensione tangibile per lo spirito conoscitivo dell’uomo.
Questa può sembrare una semplicistica divisione dei lavori e degli ambiti di indagine, o meglio una separazione dei compiti che non tiene conto delle possibili sovrapposizioni. Possiamo accogliere un’osservazione di questo tipo solo in maniera parziale poiché, se è vero che questa suddivisione netta non dà ragione di una serie di possibili convergenze, e se è vero che sono plausibili alcune rivendicazioni della scienza di indagare la natura e la conformazione del Tutto, non possiamo negare l’indissolubile legame della metafisica con l’infinito.
La metafisica è tale perché si proietta in un orizzonte infinito che sembra sfuggirle.
Inoltre questo modo di descrivere i campi propri di metafisica e fisica, si richiama evidentemente alla nascita del termine metafisica. Com’è noto, è abbastanza probabile che sia stata un’esigenza editoriale a portare alla coniazione del termine metafisica. Si trattava degli scritti di Aristotele che venivano dopo i libri di Fisica. I posteri approfondirono invece quell’espressione, dandole significati più profondi, sicuramente meno collegati a un’organizzazione editoriale e con connotazione speculativa. Metá può alludere sia a “dopo” ma anche al concetto di “sopra”. In ogni caso l’oggetto della metafisica è oltre quello della fisica. E nello stesso testo di Aristotele lo Stagirita sembra corroborare sia l’idea secondo la quale la metafisica è la scienza che studia le realtà che vengono dopo quelle fisiche, ovvero quelle realtà più lontane da noi rispetto a quelle della fisica; sia l’idea che l’oggetto della metafisica siano le cose sopra-sensibili, quelle che risiedono sopra di noi.
Scrive Aristotele stesso che la metafisica è fra tutte le scienze «la più divina e la più degna di onore. Ma una scienza può essere divina solo in questi due sensi: (a) o perché essa è scienza che Dio possiede in grado supremo, (b) o, anche, perché essa ha come oggetto le cose divine. Ora, solo la sapienza possiede ambedue questi caratteri: infatti, è convinzione a tutti comune che Dio sia una causa e un principio, e, anche, che Dio, esclusivamente o in grado supremo, abbia questo tipo di scienza. Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore» (Metafisica, A 2, 983 a 6-12).
Vi è però un ulteriore aspetto a cui attiene lo sguardo metafisico, ed è quello relativo alla costituzione del rapporto fra finito e infinito. Infatti, il passaggio che vi è fra i due “momenti” è sempre stato decisivo nella definizione dei momenti stessi, poiché l’interfaccia che si costituisce ha un effetto ineludibile su ciò che intendiamo per infinito e finito, sulle possibilità dell’uno e dell’altro.
La metafisica della modernità
Il tentativo di rendere scientifica la metafisica, ovvero la definizione matematica, geometrica, dell’assoluto, è il cuore della modernità insieme alla “fede” che il moderno ha sempre avuto nei confronti del metodo. Infatti, da Bacone fino a Kant, la sfida gnoseologica della modernità è racchiudere tutto in un metodo, affinché la natura possa essere modificata, plasmata e rivolta verso gli interessi dell’uomo. Perché, come già sembra accennare Aristotele nel passo riportato poco sopra, ci saranno certamente scienze più necessarie della metafisica — ovvero scienze che gli uomini possono utilizzare per i propri scopi, al fine di piegare il corso degli eventi — ma nessuna sarà superiore — ovvero nessuna raggiungerà un senso profondo come la metafisica, nessuna sarà capace di portare la conoscenza umana a scoprire l’ambito più profondo del reale.
Ma non è solamente la matematizzazione della natura il tallone d’Achille della modernità, quanto la sovrapposizione fra fenomeno e noumeno, per usare un linguaggio kantiano. Sta nella ricerca di un realismo che la scienza può interamente indagare e approfondire, il vero abbandono della metafisica da parte del pensiero moderno.
Analisi e sintesi
Proviamo a fare chiarezza su questo punto — anche nel tentativo di dimostrare quanto si sostiene — facendoci aiutare da una straordinaria lezione che un giovane Henri Bergson tenne tra il 1884 e il 1885 a Clermont Ferrand. In questa lezione, intitolata L’analisi et la synthèse, Bergson tenta di uscire da una situazione più che consolidata nel pensiero occidentale a fine ottocento, e soprattutto in ambito francese; una situazione che vede nell’osservazione, nello studio della natura e dei suoi fenomeni, la ricongiunzione fra ambito metafisico e scientifico.
Per Bergson l’analisi è il processo attraverso il quale si può semplificare la conoscenza, dividendo i problemi e le questioni in unità singole da indagare una per volta. Ha il ruolo, scrive, di «semplificare enormemente lo studio» di ciò che ci appare sotto forma di una moltitudine.
La sintesi ha dunque svolto, finora, un ruolo di verifica dell’analisi. Quest’ultima, dunque, è il vero processo conoscitivo poiché è l’unica che ci permette di “entrare nel reale”, mentre invece attraverso la sintesi la scienza moderna (e anche la filosofia moderna) ha controllato i passaggi effettuati e sistematizzato ciò che ha indagato.
Bergson però, già alla metà degli anni ottanta dell’800, comincia a ricucire un ruolo nuovo alla sintesi. Scrive, a conclusione della lezione, che se la scienza consiste in un’analisi dell’oggetto da conoscere che viene poi convalidata dalla sintesi, «è dalla sintesi al contrario che comincia la metafisica».
La sintesi, innanzitutto, tiene conto del passaggio, del rapporto, della continuità, che vi è fra l’infinito e il finito, fra il tutto e la parte — cosa che l’analisi si perde nel suo processo gnoseologico. In questo, la sintesi poiché è sguardo complessivo ed estraneo alla riduzione del sapere, al fenomeno naturale, è lo strumento della metafisica. La ricerca metafisica è una traccia che sembra sovrapporsi a una certa forma di misticismo indicibile, sembra accostarsi ad un sentire che mal si concilia con il linguaggio e che è immediatamente tradito dalle parole che provano a descriverlo. In tal senso la filosofia può velocemente diventare non-filosofia, e questo è quello che tutti noi vorremmo sempre evitare.
Ma questa consapevolezza, così come questo “rischio” di cadere in un sapere non-filosofico, deve ritrarci dalla sfida metafisica? La presa di coscienza di ciò, che può sganciare il pensiero dalla supremazia dell’atteggiamento scientifico ed evitare così che la filosofia si schiacci sul fenomeno e sull’esperibile, deve farci ritrarre da quel pensiero che difficilmente si riesce a dire?
No; la metafisica rappresenta una tendenza del pensiero a cui non possiamo rinunciare. Sul crinale fra metafisica e fede si svolge tutto il dramma di una disciplina la cui necessità sembra sfuggire ai più ma che resta una dimensione a cui porre l’attenzione, più originaria, dello spirito filosofico, anche per evitare di lasciare campo libero a quella non-filosofia che può rapidamente espandersi negli animi.