Non v’è mai stato un servizio divino pari a quello greco: per bellezza, sfarzo, varietà e unità esso è unico al mondo e rappresenta uno dei prodotti più alti dello spirito universale. Il «Greco celebratore di feste» ne fa parte, è il soggetto adeguato a quell’oggetto
(Nietzsche 2012, 11)
Il Nietzsche filologo, poco conosciuto, o del tutto ignorato, costituisce un campo di studio scientificamente ricco che permette di comprendere in modo profondo il pensiero del filosofo di Röcken. L’opera Il servizio divino dei Greci raccoglie le lezioni sul culto greco che Nietzsche tenne durante i semestri invernali del 1875-76 e del 1877-78. Si tratta delle ultime lezioni della sua attività di professore presso l’università di Basilea (oltre che al ginnasio), ma non bisogna commettere l’errore di considerare tali lezioni come se si trattasse semplicemente dell’epilogo di quel rapporto difficile tra il filosofo e la filologia; rapporto problematico, certo, che non va mai letto, però, nei termini di un abbandono da parte di Nietzsche della dimensione filologica, come sostengono molti studiosi. La tesi che qui sviluppiamo, seguendo Montinari, Colli, Posani Löwenstein e Biuso, è che in Nietzsche si ha una filosofia filologica e una filologia filosofica, come vedremo, all’insegna del primato ermeneutico. Continue Reading
Che il mondo reale si trovi a debita distanza da noi è un fatto apparentemente rassicurante. Dal nostro – in potenza claustrofobico – esilio del pensiero lo si può influenzare, se ne può modificare la struttura. Ciò, inoltre, ci garantisce un rifugio da tutto quello che di spiacevole accade: la mente è dunque rappresentata come una casa dentro la quale, in fondo, non piove – rovesciando il famoso adagio che Calvino aveva ripreso da Dante.
«Il soggetto pensante, è l’oggetto della Psicologia; il complesso di tutti i fenomeni (il mondo) l’oggetto della Cosmologia» scrive Kant nella Critica della ragion pura (Kant 2005, 258) mentre è impegnato a trovare il collante fra queste due parti, l’anello mancante che permetta di farle dialogare. Il solco che le separa sembra spostarsi sempre un centimetro più in là e Kant ha la necessità di costruire un’enorme fortezza che, come dirà Schopenhauer, si può davvero solo scardinare se non passando da sotto, grazie al potere dell’intelletto.Continue Reading
Pubblichiamo parte della presentazione a cura dell’autore di Il cervello, il crimine e l’inconscio. Una prospettiva psicoanalitica su diritto e neuroscienze, il libro di Dario Alparone edito da Orthotes Editrice (2021, 314 pp.). Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.
Questo testo è stato sviluppato dalla mia tesi di dottorato che ho conseguito presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Catania.
Il cervello, il crimine e l’inconscio. Una prospettiva psicoanalitica su diritto e neuroscienze — Orthotes Editrice (2021, 314 pp.)
Si è trattato di un lavoro complesso, fatto di numerosi rimaneggiamenti e che trova origine da un iniziale progetto di ricerca la cui domanda fondamentale era se si potessero fare incontrare il discorso giuridico e le neuroscienze. In particolare, si è cercato di sviluppare tale questione iniziale a partire da un approccio teorico psicoanalitico lacaniano al soggetto. Prendendo le mosse dalla nostra esperienza, dal nostro incontro con la psicoanalisi si è potuto articolare una riflessione sul problematico incontro tra diritto penale e neuroscienze, offrendo peraltro un taglio innovativo a tale annosa e molto discusso dibattito.
È nostra convinzione, infatti, che l’applicazione delle conoscenze neuroscientifiche al diritto penale e alla criminologia sia per molti versi sviante e un fraintendimento di carattere logico e epistemologico. Questo testo, in particolare, cerca di mostrare come l’approccio riduzionista neuroscientifico alle scienze umane e sociali (diritto, psicologia, filosofia…) sia per molti versi un equivoco di carattere logico. Per dimostrare questo si è utilizzato in particolare la psicoanalisi di Lacan e, tramite essa, della filosofia di Wittgenstein.
La ricerca prende originariamente le mosse dall’approfondimento di quegli approcci neuroscientifici che si propongono di superare il dualismo cartesiano tipicamente costituito dal binomio “mente-corpo”, in una prospettiva riduzionista. Secondo questa linea metodologica ciò che è mentale, psichico o di carattere animistico-religioso sarebbe pienamente riconducibile al funzionamento neurofisiologico e neurocerebrale. Le proposte teorico-epistemologiche di filosofi e neuroscienziati come Damasio, Dennett, Churchland, Changeaux e Edelmann mostrano che attraverso una metodologia riduzionista sarebbe possibile ricondurre i concetti fondamentali che definiscono ciò che è mentale alla dimensione neurocerebrale, alla possibilità di “mappare lo psichico” attribuendo ad ogni funzione un “luogo”, un circuito di funzionamento ben preciso.
A partire da questo tipo di approcci, si capisce bene come si parta da una posizione logica che esclude strutturalmente tutte le categorie immanenti al diritto penale. Non a caso, è stata spesso ventilata la proposta di superare il diritto penale stesso con i suoi concetti fondamentali di derivazione metafisica come le categorie di libero arbitrio, di libertà, consapevolezza e via di seguito.
Infatti, da una prospettiva psicoanalitica le neuroscienze sembrano indagare tutt’altro che non la soggettività in quanto tale. La logica determinista adottata dal riduzionismo esclude già da sé come punto di partenza la dimensione della libertà, dell’indeterminatezza dell’azione, insomma la soggettività stessa. La medesima logica si presentava già nell’approccio organicista alla malattia mentale e tende a ripresentarsi nell’approccio riduzionista alla lettura dell’azione criminale. Un genere di approccio che, come rilevava già Foucault[1], tende a definire delle essenze e a fare dei suoi principi esplicativi dei miti attraverso cui spiegare tutto ciò che si osserva.
Proprio quest’aspetto dell’essenzialismo è un punto centrale della nostra critica al riduzionismo neuroscientifico applicato al diritto penale. La promessa di quantificazione e oggettivazione di ciò che fino a qualche tempo fa era solo rilevabile in maniera qualitativa ed era identificato come esperienza soggettiva, porta con sé la premessa che il mentale ha una sua materialità, una sua sostanza che è rinvenibile fisicamente da qualche parte, verosimilmente nel cervello. In questa prospettiva, lo stato mentale è una sostanza materiale, e solo in quanto tale può avere valore causale. La dimensione psichica ricondotta in maniera univoca e totale al sostrato neurocerebrale può essere così considerata capace di avere degli effetti reali proprio perché è una sostanza materiale. La materialità dello stato mentale garantisce che questo abbia un valore ontologico proprio e, dunque, che esso possa avere un valore causale, per esempio rispetto all’azione commessa [2].
Queste prospettive di spiegazione del funzionamento mentale attraverso le neuroscienze hanno esplicitamente come fine ultimo il superamento del dualismo cartesiano (Damasio), prospettandone un superamento attraverso il ricorso ad un monismo fisicalistico secondo il quale non vi sarebbero due sostanze, pensante ed estesa, ma un’unica sostanza materiale che sola può essere empiricamente conoscibile, misurabile e avere degli effetti reali.
In questa prospettiva, la proposta del riduzionismo risponde al dualismo ed anzi ne continua la logica ad essa intrinseca. Non a caso, filosofi come Hacker e Bennett affermano a questo proposito che la proposta delle neuroscienze rientra perfettamente nel medesimo modo di pensare sostanzialista che connota il dualismo, dal momento che gli stessi attributi che venivano conferiti all’anima e alla sostanza pensante immateriale di Cartesio adesso vengono ascritti al cervello, alle aree cerebrali [3]. Non a caso, secondo Stella [4], perché si possa parlare di monismo si deve implicitamente ammettere come punto di partenza la prospettiva dualista, la cui dimensione “immateriale” prima ammessa è in un secondo tempo ricondotta e ridotta a quella materiale cerebrale.
Nel nostro testo si è cercato di criticare questa prospettiva sostanzialista tipica di certo riduzionismo neurocognitivo attraverso l’approccio critico di Wittgenstein alla tradizione filosofica metafisica e in particolare alla concezione cognitiva, razionalista del soggetto e della mente. Concezione che, secondo molti autori è perfettamente confacente alla nozione psicoanalitica lacaniana di soggetto dell’inconscio, come si è peraltro cercato di dimostrare nelle pagine che seguono.
Wittgenstein ha una certa riluttanza nei confronti degli approcci naturalisti e giudica con diffidenza tutta quella metafisica filosofica dell’interiorità che intende lo stato psicologico come un oggetto connotato di aspetti materiali oggettivi, di un proprio valore ontologico. Secondo il filosofo austriaco, infatti, la dimensione psicologica dell’esperienza (le sensazioni, i vissuti) non è detto abbia un’effettiva esistenza. Al più, Wittgenstein fa intendere che spesso queste presupposizioni psicologiche siano dovuti a delle circostanze di natura grammaticale a dei giochi linguistici. In questo senso, cose come l’interiorità psicologica, la convinzione cognitiva di esser un soggetto padrone del proprio stato mentale sarebbe nient’altro un’illusione determinata dagli “incantamenti” del linguaggio.
I giochi linguistici entro cui siamo immersi quotidianamente, sin dalla nascita, determinano il nostro vissuto psicologico, lo costruiscono, gli dànno forma e consistenza. Da un punto di vista psicoanalitico si potrebbe dire che il soggetto psicologico è “barrato” dal significante, diviso per effetto del linguaggio. È dunque il linguaggio con la sua grammatica a dar fondamento alla psicologia che presupponiamo ogni giorno nel rapporto con noi stessi e con gli altri. A questo proposito ci sembra esemplare questo celebre passo di Wittgenstein:
se dico a me stesso che soltanto dalla mia personale esperienza io so che cosa significa la parola «dolore», – non debbo dire la stessa cosa anche agli altri? E come posso generalizzare quest’unico caso in maniera così irresponsabile? Ora qualcuno mi dice di sapere che cosa siano i dolori soltanto da se stesso! – Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo coleottero. Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. – Ma supponiamo che la parola «coleottero» avesse tuttavia un uso per una cosa. La cosa contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe anche essere vuota. – No, si può “dividere per” la cosa che è nella scatola; di qualunque cosa si tratti, si annulla. Questo vuol dire: se si costruisce la grammatica dell’espressione di una sensazione secondo il modello “oggetto designazione”, allora l’oggetto viene escluso dalla considerazione, come qualcosa di irrilevante [5].
Wittgenstein afferma che lo stato mentale è una “scatola chiusa” che tutti hanno, credono di avere o fanno finta di avere, a prescindere da ciò che vi è o vi potrebbe esser dentro. Egli riconosce nel linguaggio, nei giochi linguistici quali organizzazioni di regole sociali, ciò che definisce la forma di vita propria all’essere umano. In questo meccanismo si produrrebbe l’illusione della concezione psicologica cognitiva. In tale prospettiva, tutti gli aspetti della vita sono iscritti entro la dimensione linguistico-grammaticale (l’ordine simbolico) che definisce l’orizzonte di senso del mondo umano. Dalla percezione dell’oggetto a quella di uno stato interiore, dall’azione di giocare a scacchi all’atto criminale, ognuno di questi aspetti è regolato da giochi linguistici che si svolgono secondo determinate regole.
Per spiegarci meglio si potrebbe dire che l’atto di alzare il braccio coinvolge certamente dei processi neurofisiologici che sostengono l’azione e la progettazione cognitiva dell’azione, ma il senso di essa e le motivazioni per cui la si compie seguono delle regole che sono eminentemente sociali e linguistiche: «mentre la natura mi dà la capacità di compiere un’azione, e quindi un certo senso di potere sulla realtà, solamente il linguaggio e l’ordine morale fanno nascere in me il senso di responsabilità per quello che faccio. La natura provvede all’“essere in grado di”, ma la cultura e il linguaggio provvedono al “potere” e al “dovere”» [6].
In questo senso, nella lettura dell’azione vi sono diverse possibilità di impiego di giochi linguistici, uno di questi è la spiegazione di carattere deterministico volta a isolare le cause e a spiegare l’azione in maniera oggettiva e misurabile, mentre un’altra modalità sarebbe volta alla comprensione delle ragioni, cioè l’aspetto intenzionale, che starebbero dietro l’azione. Nella distinzione tra cause e ragioni sta la differenza fondamentale tra l’approccio neuroscientifico e quello umanistico tipico delle scienze sociali, come la psicologia, il diritto, la sociologia e la filosofia. Si tratta di ordini di spiegazione differenti, in cui nessuno dei due ha un privilegio epistemologico o gnoseologico sull’altro. Si tratta di giochi linguistici equivalenti, alternativi e complementari.
In questo senso, nel nostro lavoro si è individuata una certa tendenza nel “programma forte” a utilizzare il sapere neuroscientifico alla stregua di un metalinguaggio, cioè come un criterio ontologico assoluto e universale attraverso cui è possibile definire il significato delle parole, dei concetti della psicologia e della filosofia della mente. Le neuroscienze offrono infatti un modello gnoseologico corrispondentista, secondo il quale vi sarebbe un rapporto di omogeneità tra linguaggio e realtà, un isomorfismo tra concetto e oggetto, seguendo un paradigma linguistico che Wittgenstein distingueva, criticandolo, come “ostensivo”.
Di contro, nella nostra lettura, che mutua molto anche dalla concettualizzazione psicoanalitica, non vi è corrispondenza tra significante, significato e referente, così come il senso si sostiene sul linguaggio stesso, sul rimando di una parola all’altra nel discorso. L’inesistenza del metalinguaggio implica che il senso stia nel continuo rinvio di un significante all’altro (catena significante) nel dispiegarsi del discorso. Dal canto suo, il significato delle parole e delle espressioni è dato da convenzioni sociali e pratiche d’uso e non corrisponde all’oggetto designato, denominato. Non si può uscire dal linguaggio e accedere alla reale senza la mediazione delle parole. In questo senso, il rapporto dell’uomo col mondo è sempre il risultato di un effetto linguistico, di un ritaglio della realtà mondana per effetto del linguaggio. Il senso è, dunque, possibile solo per la mente intenzionale, cioè solo per l’essere parlante e non corrisponde ad una cosa materiale, esso sta “tra” le parole, nel rinvio significante. Il rapporto dell’uomo col mondo è il risultato di un taglio per effetto del linguaggio, di uno svuotamento dell’esperienza piena e diretta del mondo che pertiene all’animale ma dalla quale l’uomo è per costituzione esiliato.
Seguendo questa linea di pensiero, tra lo stato psicologico interiore e il linguaggio vi è il medesimo rapporto di tensione che c’è tra la Das Ding freudiana e la rappresentazione dell’oggetto. Quest’ultimo sorge dalla realtà a partire da un effetto di circoscrizione linguistica, di negazione di ciò che esso non è, invece la Cosa originaria sarebbe l’esperienza reale in tutta la sua presenza, la quale tuttavia resta per costituzione al di fuori della possibilità di esser detta, rappresentata. In questo senso, è possibile rileggere la formula wittgensteiniana del “non esiste linguaggio privato”: l’esperienza interiore è propriamente psichica solamente a partire dal linguaggio, dalla possibilità di concettualizzarla, di metterla in parola. Di contro, uno stato mentale propriamente interiore che sarebbe già corrispondente al livello ontologico a ciò che il linguaggio attraverso i suoi concetti e definizioni designa sarebbe una sorta di linguaggio privato. In sintesi, è possibile affermare che l’esperienza psichica risente degli effetti performativi del linguaggio, la vita interiore è prodotta linguisticamente.
Dunque, la prospettiva filosofica di Wittgenstein e quella psicoanalitica di Lacan mostrano la possibilità di pensare un modello di soggettività svuotata di ogni statuto ontologico, in cui lo stato mentale, come ad esempio l’intenzione, non ha una vera consistenza psicologica tale per cui esso possa causare un’azione. L’intenzione non causa l’azione proprio perché non è uno stato mentale che precede l’azione stessa; essa, al più, la motiva, ne è la ragione e non precede deterministicamente l’azione compiuta. Infatti, come Anscombe spiega, il fatto che la mia azione possa risultare sbagliata, possa non realizzarsi, o possa non avere gli effetti che inizialmente si desiderava, implica che la dimensione cognitiva è solo secondaria, che essa non ha un effetto causale. Lo stato mentale, non causa l’azione, proprio perché non ha sostanza, non ha alcun valore ontologico.
Infine, per quanto riguarda la dimensione grammaticale, si potrebbe affermare che un’azione è intenzionale non perché vi è uno stato mentale che la precede, causandola, ma perché essa risponde a determinate regole di carattere linguistico-grammaticale che sono tipiche dell’azione intenzionale come tale. Un’azione è intenzionale perché è possibile riconoscerla tale al livello sociale, cioè perché essa può essere attribuita ad una precisa volontà di un preciso autore. Per riprendere ciò che in maniera illuminante afferma Descombes: è possibile che la confessione di un atto criminale commesso si trovi nel cervello del suo autore (ammesso che sia scritta già così in un buon italiano), ma il punto non è dove essa sia, poiché potrebbe benissimo trovarsi nel cestino dopo esser stata messa per iscritto dall’autore stesso e poi gettata. La cosa importante è che la confessione sia di qualcuno, sia cioè attribuibile ad un agente. Se si vuole, perché si possa definire un’azione “intenzionale” bisogna che essa possa esser attribuita ad un “Io”, pronome [7], al quale qualcuno di concreto “risponde” (dal latino respondere da cui proviene anche “responsabilità”).
Nella seconda parte del testo si riprendono le questioni accennate nella prima ampliando il campo di discussione e applicando l’idea della performatività del linguaggio al diritto e all’ambito giuridico. In particolare si discute dell’aspetto performativo di categorie giuridiche come quello di “persona” e “autonomia”, rispetto a cui perché possa esservi effettivamente autonomia, e dunque “capacità di intendere e di volere” nel soggetto concreto in particolare, bisogna che la tale nozione giuridica sia praticata al livello sociale e valorizzata. La nozione di “persona”, in effetti, non ha nulla a che spartire con il cervello delle neuroscienze e della neurobiologia in generale. La “persona” è un concetto giuridico, ha uno statuto simbolico che si produce socialmente, seguendo qui il pensiero di Honneth, a partire da pratiche di socializzazione fondate sul riconoscimento. Riconoscimento che da un punto di vista psicoanalitico può essere distinto in due tipi: immaginario (tra due individui) e simbolico (tra istituzione e individuo).
Per spiegare tali questioni nel corso del testo vengono effettuati diversi passaggi logici e discorsivi che implementano alla filosofia sociale di Honneth la psicoanalisi delle relazioni oggettuali di Winnicott e la critica a questa di Lacan. Infatti, nella nostra prospettiva psicoanalitica non tutto può esser risolto nelle pratiche di riconoscimento e nel potere performativo del simbolico, tantomeno l’atto criminale. Infatti, attraverso la nozione di pulsione e di reale di matrice psicoanalitica, il crimine risulta essere qualcosa di più che una mera domanda di riconoscimento, così come pensano Honneth e Winnicott. Nella prospettiva lacaniana, infatti, il crimine non è riducibile né ad una forma di sociologismo o psicologismo né alle spiegazioni di carattere naturalistico e biologistico.
Infatti, il crimine non può essere intesto come mera espressione di istanze neuropsicologiche o neurobiologiche, il risultato di un’attivazione ormonale etc. Il crimine sta al di là della possibilità di esser ridotto ad una logica causale determinista di tipo naturalistico, dal momento che esso implica la possibilità per l’uomo di porsi in una certa distanza dal già dato. L’atto criminale implica una connotazione di senso dell’azione compiuta da parte dell’uomo della realtà naturale, la possibilità di trascendere l’attualità del mondo. Da qui, si spiega nel seguente testo, verrebbe la differenza, ad esempio, tra aggressività e violenza, l’una caratteristica dell’animale, l’altra dell’uomo.
Del resto, se la morale fosse un’istanza naturale già installata da qualche parte nel cervello o nei geni, il crimine sarebbe un disturbo di tale moralità innata, cosa che implica una serie di contraddizioni che è cercato di spiegare bene nella nostra trattazione. Infatti, cosa spingerebbe gli uomini a darsi delle leggi a costruire una morale e a definire un’etica se il comportamento “giusto” è già dato (in parte o del tutto) naturalmente? Donde verrebbe il diritto penale?
Il crimine implica, invece, proprio il fatto che gli uomini si dànno delle leggi, il mondo umano è definito dalla Legge che porta con sé la possibilità stessa della sua trasgressione; da quel disagio della civiltà che definisce la capacità distruttiva dell’uomo. In questo senso, il crimine si connota per essere la caratteristica più propria dell’essere umano.
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Note
[1] Foucault, Michel. 1954. Maladie mentale et psychologie. Paris: Presses Universitaires de France (tr. it.: 1997. Malattia mentale e psicologia. Milano: Raffaello Cortina Editore, Milano p. 7): «se la malattia mentale viene definite per mezzo degli stessi metodi concettuali della malattia organica, se I sintomi psicologici vengono isolate e raggruppati allo stesso modo dei sintomi fisiologici, ciò è dovuto anzitutto al fatto di considerare la malattia, mentale o organica, come una essenza naturale che si manifesta attraverso sintomi specifici. Tra queste due forme di patologia non c’è dunque un’unità reale, ma solo un parallelismo astratto e mediato da questi due postulati. Ma il problema dell’unità umana e della totalità psicosomatica resta interamente aperto».
[2] Cfr. Cimatti, Felice. 2004. Il senso della mente. Torino: Bollati Boringhieri, pp. 149 ss.
[3] Bennett, Maxwell – Hacker, Peter. 2007. The Conceptual Presuppositions of Cognitive Neuroscience. A Reply to Critics, in Bennett, Maxwell – Dennett, Daniel – Hacker, Peter – Searle, John (a cura di). 2007. Neuroscience and Philosophy Brain, Mind, and Language. New York: Columbia University Press, p. 127-162, p. 159: «Io ho un corpo, e io sono il teschio del mio corpo. Questo è una versione materialista del cartesianesimo. Una delle ragioni più importanti perché noi abbiamo scritto il nostro libro [Philosophical Foundations of Neuroscience] era la ferma convinzione che i neuroscienziati contemporanei, e anche molti filosofi, stanno ancora sotto la lunga e oscura ombra di Cartesio. Mentre rigettano la sostanza immateriale della mente cartesiana, essi trasferiscono gli attributi della mente cartesiana al cervello umano, lasciando invece intatto l’intero e misconosciuta struttura della concezione cartesiana della relazione tra mente e corpo» (trad. nostra).
[4] Cfr. Stella, Aldo. 2020. Sul riduzionismo. Dal riduzionismo teoretico al riduzionismo teorico. Roma: Aracne, p. 180.
[5] Wittgenstein, Ludwig. 1953. Philosophische Untersuchungen. Oxford: Basil Blackwell (tr. it. 2014. Ricerche Filosofiche. Torino: Einaudi, p. 117, §293).
[6] Harré, Rom. 1993. Social Being. Oxford: Blackwell Publishers (tr. it.1994. L’uomo sociale. Milano: Raffaello Cortina, p. XVII.
[7] Benveniste, Émile. 1969. Le vocabulaire latin des signes et des présages. Paris: Gallimard (tr. it. 2009. Della soggettività nel linguaggio, in Id., Essere di parola Semantica, soggettività, cultura. Milano: Bruno Mondadori, p. 113: «così il linguaggio è ciò che rende possibile la soggettività, perché contiene le forme appropriate alla sua espressione, mentre il discorso ne provoca l’emergere, perché consiste in istanze discrete. Il linguaggio propone delle forme “vuote”, di cui il parlante si appropria nell’esercizio del discorso e che ascrive alla sua “persona”, definendo al contempo se stesso come io e un partner come tu. L’istanza di discorso è allora costitutiva di tutte le coordinate che definiscono il soggetto; qui abbiamo indicato solo le più evidenti»).
Prendendo a prestito un’immagine tratta da Jacques le fataliste di Diderot, Schopenhauer ricorda, come sintesi della sua dottrina dell’eternità dell’individuo, la metafora del castello sul cui ingresso c’era scritta la seguente frase: «Non appartengo a nessuno e appartengo a tutti: c’eravate prima di entrarvi, ci sarete ancora quando ne uscirete». Non sappiamo se Leonardo Messinese avesse in mente questa metafora, ma l’immagine del castello utilizzata nel suo ultimo saggio per introdurre e descrivere la filosofia di Emanuele Severino è sicuramente appropriata. In poco meno di 200 pagine, il libro di Messinese si rivolge sia ai lettori e frequentatori delle pagine culturali e dei festival filosofici, che conoscono Severino per i suoi interventi essoterici e di grande impatto evocativo, sia agli addetti ai lavori, coloro che, dopo una frequentazione dei testi severiniani particolarmente intensa, sono dei veri e propri iniziati ad un linguaggio esoterico arduo ed impegnativo. Il tentativo può dirsi riuscito anche perché il libro alterna in modo sapiente le pagini facili a quelle difficili di Severino, descrivendo genesi ed evoluzione del suo pensiero.
La filosofia, come diceva Deleuze, ha sempre a che fare con il pensiero comune. Non solo perché è necessario porre in questione le certezze che indirizzano l’ampio agire umano, ma anche perché a volte quello stesso pensiero comune (doxa) è guidato da convinzioni filosofiche, scientifiche, tecniche. In un processo di auto-correzione, potremmo dire, la filosofia è per statuto impegnata a problematizzare la realtà e lo strato più superficiale rappresentato da ciò che noi definiamo come realtà. Infatti, è sempre la filosofia che ha l’onere di occuparsi di quello spazio che Berger e Luckmann definivano “proprio” della sociologia della conoscenza (Berger-Luckmann 1966). Astraendo dall’interpretazione teoretica, i due sociologi si concentravano su un livello diverso e complementare. Perché, scrivono: «Le formulazioni teoretiche della realtà, siano esse scientifiche o filosofiche o anche mitologiche, non esauriscono ciò che è “reale” per i membri di una società. Tenendo presente questo fatto, la sociologia della conoscenza deve anzitutto occuparsi di quello che la gente “conosce” come “realtà” nella vita quotidiana a livello pre-teoretico o non-teoretico. In altre parole, il principale centro d’interesse della sociologia della conoscenza deve essere la “conoscenza” del senso comune piuttosto che le “idee”» (Berger-Luckmann 1966, p.30).
La vita di Spinoza è un argomento affascinante. Alcuni hanno pensato che lo stile posato e placido potesse rivelare molto della sua filosofia; altri l’hanno definita come attraversata da una falsa modestia. Quel che è certo è che Spinoza non ha condotto una vita frizzante, mondana o sopra le righe. È per questo che Borges tratteggia uno Spinoza curvo e in disparte, impegnato a superare di gran lunga lo strato della superficialità. «[…] Qualcuno costruisce Dio nella penombra. / Un uomo genera Dio. È un ebreo / Di tristi occhi e di pelle olivastra […]» (Borges, 2002).
L’Epistolario spinoziano – ben più degli accenni biografici che si possono trovare sparsi fra le sue opere – è quindi un luogo interessante per ritrovare uno Spinoza privato, amichevole, che discute vivacemente di filosofia e di temi a lui cari. Come si fa notare in più di un’occasione nel recente Amice Colende. Temi, storia e linguaggio nell’epistolario spinoziano (De Bastiani, Manzi-Manzi, 2021), le lettere non possono leggersi come “parafrasi” dello spinozismo. Vorrebbe dire depotenziarle, renderle puro mezzo di speculazione. Ogni testo, invece, acquista una sua forma e una propria forza rispetto all’oggetto verso cui è diretto. Nella prassi del discorso (intendiamo qui la parola discorso nella sua accezione meno prescrittiva possibile) l’interlocutore non è mai neutro. Se non lo è per i libri, figuriamoci per l’epistolario privato.
Questo articolo raccoglie le prime uscite della rubrica “Filosofie e scienze: pratiche e metodi” ed è stato pubblicato, nelle scorse settimane, “a puntate” sulla pagina Facebook dell’Associazione Culturale METOPE, che ringraziamo insieme all’autore per la gentile concessione.
Premessa Perché iniziare una riflessione sulla scienza e sulla filosofia oggi, e cosa c’entra questo con tutti noi? È innegabile che i traguardi delle scienze hanno aperto orizzonti di possibilità straordinarie che seguono un sogno iniziato in Grecia 2500 anni fa, rinato nel Rinascimento, proseguito con l’Illuminismo e Positivismo ed arrivato fino ai giorni nostri; un sogno che auspicava il raggiungimento di una conoscenza certa, razionale, utile, condivisibile a cui affidarsi nei momenti di incertezza e che avrebbe sollevato gli uomini dalle miserie fisiche, mentali e sociali.
È un sogno che si è avverato? O è una specie di mitologia, una forma di pensiero magico che vorrebbe il realizzarsi di un “paradiso tecnico” nel futuro (per dirla alla Severino) e noi in eterno cammino verso di esso? In un momento come questo, dove aspettiamo quotidianamente dalla scienza una risposta unica e certa nei confronti di un fenomeno planetario che ha cambiato le nostre vite, un fenomeno che si iscrive e descrive nel linguaggio scientifico di un’epidemia da virus, siamo dunque soddisfatti? Ci ha dato le risposte che più intimamente volevamo? O forse meglio, gli abbiamo posto le giuste domande, quelle a cui sa e può rispondere?
Questo ci spinge evidentemente ad interrogarci più a fondo sul nucleo fondante del pensiero scientifico, su cos’è scienza o forse sarebbe meglio dire scienze; sul metodo, o forse sarebbe meglio dire sui metodi scientifici. Sì perché è sempre più evidente che i metodi e le pratiche della biologia c’entrano poco con quelli della geologia o della fisica o della medicina, e non perché si condivida un comune metodo sperimentale, un fisico ne capisce “tout court” di agraria o biochimica. Certo ci sono paradigmi comuni, a volte richiami, sovente intersezioni, ma poi nella pratica le scienze sono saperi molto differenti e specializzati, con linguaggi differenti che molto spesso faticano a capirsi, se non arrivare a posizioni anche contraddittorie.
E come potremmo interrogarci su che tipo di sapere è un sapere scientifico, se non all’interno di una riflessione più ampia su cos’è sapere in generale? Su chi è e cosa sa l’umanità che sa? In questo la filosofia ci verrà in soccorso, sia per la sua propensione metodologica ad affilare ed affinare la domanda, sia per la sua storia di essere stata la prima sapienza razionale e critica e che, per certi aspetti, ha contribuito alla genesi del pensiero scientifico.
Quello che cercheremo di fare è usare il domandare filosofico, non tanto per seguire le posizioni dei vari pensatori, ma per “arroventare” e dunque evidenziare, le precondizioni necessarie, l’oramai assodato, le tacite premesse (non per complottismi vari, ma proprio per suo statuto), affinché funzioni un particolare metodo d’indagine.
Cercheremo di lavorare sui metodi e sulle pratiche del pensiero scientifico, servendoci dei contributi di filosofi, scienziati e divulgatori, consapevoli che: è dalle pratiche che si configurano i metodi e da questi le teorie e i paradigmi e che gli uni non stanno senza gli altri.
Dividere le prime dalle ultime è sicuramente fonte di enorme confusione e di grossolani errori, è un peccato di “hybris” direbbero i greci, che corre il rischio di creare una descrizione del mondo (una narrazione scientifica) là dove invece ci sono metodi e pratiche di previsione.
Quindi per concludere, tornando alla domanda iniziale, cosa c’entra questo con noi tutti? L’immagine che noi abbiamo del mondo, che ad oggi è planetariamente un’immagine scientifica, condiziona come pensarci o ri-pensarci nel mondo? Che valore dare alla nostra esperienza intima e vissuta, all’interno di una narrazione così vasta e pervasiva come quella scientifica?
La fiducia nella scienza, tranne che per qualche residuale gruppetto di persone, è uno dei pilastrifondamentali sui quali si appoggia la società contemporanea. È innegabile, infatti, che il pensiero scientifico, e la fede nella tecnica, rappresentino una “oggettività” a cui la politica, così come i singoli uomini, difficilmente rinunciano. A meno di non allinearsi a coloro i quali intravedono nella scienza e nella tecnica un mezzo per governare subdolamente i popoli (posizione che non merita nemmeno il tempo di una breve contro-argomentazione), appare difficile contestare il valore del sapere e della ricerca scientifica.
Tuttavia, appare sempre più necessario affrontare criticamente le aspettative che riponiamo nel pensiero e nella pratica scientifiche. Ciò non per svalutare il suo ruolo della scienza, ma soprattutto per evitare di affidarle un compito a cui non può rispondere. In altre parole, occorre mettere in dubbio l’atteggiamento fideistico nei confronti della scienza; questo per farla uscire dalla “solitudine” a cui l’abbiamo relegata. Ma in cosa consiste l’atteggiamento fideistico nei confronti della scienza?
Da quel che abbiamo esaminato nel corpus di Dostoevskij e nella cultura russa del suo tempo la rivolta è considerata come elemento negativo in un sistema in cui tutto appare in maniera coerente e armoniosa. Il filosofo Albert Camus nel saggio L’uomo in rivolta (Camus 2010) riprende la topica che era stata trattata ampiamente da Dostoevskij sia ne I demoni che ne I fratelli Karamazov facendo della storia europea una lunga serie di atti di ribellione senza i quali l’essere umano non avrebbe tutte le prerogative che lo rendono tale: viene scandagliata da un punto di vista storico, letterario, artistico e filosofico una condizione difficile dell’uomo in quanto scomoda e dannosa nei confronti di chi si compie – come nel capitolo del saggio dedicato ai regicidi – tanto che il rivoltoso diventa agli occhi della collettività una minaccia da estirpare. Camus vuole dimostrare che la storia per come la conosciamo esplica il bisogno di rivolta come condizione essenziale dell’individuo il quale, se da una parte viene stigmatizzato, dall’altra è anche identificato come portavoce della liberazione e in questo senso egli si pone come corifeo del senso collettivo di giustizia. L’uomo che si ribella agisce per salvaguardare un diritto che gli è stato negato o per rivendicare a sé un valore essenziale per cui è oppresso, poiché come scrive il filosofo, «la rivolta si limita a rifiutare l’umiliazione senza chiederla per altri. Accetta persino il dolore per sé purché la sua integrità venga rispettata» (Camus 2010, 17-27). Continue Reading
È una specie di ironia del pensiero il fatto che l’annuncio della morte di Dio ne abbia occultato un altro che lo stesso Nietzsche ha più volte espresso nei suoi scritti: quello della morte della filosofia. Annuncio ben più inquietante che ha agito sottotraccia e forse in modo ancor più efficace dell’altro, più noto. La morte della filosofia ha prodotto le conseguenze che abbiamo oggi sotto gli occhi: lo scatenamento della razionalità, l’incapacità di porre un argine alla scienza, la servitù della cultura nei confronti della politica. Si tratta di un evento che è poi diventato un tema ripreso dalla stessa filosofia che lo ha trasformato a sua volta in un argomento filosofico, un gioco di prestigio che piace tanto a certi filosofi da esibizione, utile il più delle volte alla chiacchiera filosofica, oggi imperante.