Tra esigenze politiche ed esigenze teoriche
Mai come negli ultimi anni si è mostrato come la psichiatria e la psicologia siano territorio di incontro e scontro tra soggettività epistemiche con interessi, speranze e bisogni diversi. Le comunità di pazienti, survivors e persone psichiatrizzate esercitano una pressione crescente sulle istituzioni e i centri di ricerca, ottenendo in alcuni casi veri e propri cambiamenti di rotta nelle decisioni imposte dall’alto (Sanderson, 2021). In ambito accademico, il precipitato di queste rivendicazioni è un rinnovato interesse su cosa significhi l’incontro tra la persona e la psichiatria, restituendo nuova linfa agli storici studi di Foucault (1998) e Goffmann (1961). Questo incontro necessita di almeno due nodi – la persona e la psichiatria – oggi entrambi oggetto di profondi e accalorati scontri teorici e politici: cosa significa essere pazienti, avere un disturbo, essere diagnosticati, essere istituzionalizzati? Qual è il ruolo dell’istituzione psichiatrica nella società, come dobbiamo guardare alle sue categorizzazioni?
In questa convergenza tra attivismo politico e riflessione teorica, negli ultimi anni è emersa una tendenza sempre più marcata delle soggettività psichiatrizzate a interpretare le classificazioni in termini identitari. A questa tendenza ha certamente influito la diffusione delle narrazioni dei movimenti come il Neurodiversity Movement (Walker, 2021) e il Mad Movement (LeFrançois, Menzies, Reaume, 2013), che rivendicano la depatologizzazione delle condizioni psichiatriche in un’ottica di inclusione delle differenze.
Per molti soggetti psichiatrizzati, il momento in cui si sono potuti concepire per la prima volta come soggettività politica ha coinciso con la scoperta dell’esistenza di comunità – virtuali e non – formate da persone con interessi e bisogni simili ai propri. In altre parole: la categorizzazione psichiatrica, da strumento epistemico e pragmatico del terapeuta, diviene condizione di possibilità di accesso non solo a servizi, ma anche a comunità la cui appartenenza è dettata proprio dalla condivisione della diagnosi. Queste categorizzazioni possono venir concepite come identità collettive e individuali, e, in quanto tali, possono fungere da simboli aggregatori. La costruzione di questa identità comunitaria si sviluppa quindi per lo più attraverso le categorizzazioni psicodiagnostiche esistenti, attraverso un riconoscimento non solo orizzontale e collettivo ma anche verticale e individuale. Della necessità di questo riconoscimento attraverso le lenti diagnostiche si è molto discusso (il filosofo della medicina Charland scrisse un articolo su queste tendenze e il loro legame con i luoghi di aggregazione virtuali già nel 2004), ma d’altro canto rispecchia una tendenza – quella verso la riappropriazione dello stato di minoranza attraverso termini identitari – che troviamo anche all’interno di altri movimenti emancipatori, come quelli per la razza e il genere.
Il filosofo e mad activist Mohammed Aboulleil Rashed (2020) discute in modo molto interessante come la psichiatria – in quanto specialità medica – è solita leggere lo stato mentale “disturbato” del paziente. Prendendo in prestito il concetto di astrazione ipostatica di Charles Peirce, Rashed descrive il modo attraverso cui lo psichiatra vede il disturbo come qualcosa che il paziente ha: una malattia, appunto. Prima di questa “aggiunta”, di questo possesso, il soggetto non aveva la malattia, era un soggetto sano. Qui, secondo Rashed, interviene un aspetto importante della patologizzazione: se il disagio è qualcosa che ho, che si interpone tra il me – sano – del passato e il me – non più sano – del presente, il disagio è qualcosa da eliminare, da curare, guarire. È questa la base di quello che in termini tecnici viene chiamato deficit model della malattia mentale, che si oppone al modello sociale della disabilità e al paradigma della neurodiversità, o a quello di cui fa parte Rashed stesso – il Mad Pride (Welch, 2011). Secondo il deficit model – che è modello esplicativo tradizionale dell’ambito medico – uno stato di disagio psichico è uno stato difettivo, che va pertanto corretto. Con sfumature diverse, i paradigmi della disabilità, della neurodiversità e della madness, rifiutano il deficit model e l’epistemologia medica che lo accompagna, per proporre un approccio alla depatologizzazione che si rivolge proprio al dominio dell’identità, attuando un passaggio logico dall’avere all’essere. Questo certamente è anche l’obiettivo di Rashed, che ha scritto un intero saggio intorno all’importanza dell’identità mad (Rashed, 2019).
La ragione dello spostamento verso il dominio dell’essere è connessa a esigenze politiche prima che teoriche: spostare la condizione verso il dominio dell’essere permette di mettere in funzione il dispositivo della rivendicazione dell’identità, che può quindi venir riconosciuta come minoritaria. Si può così creare un fronte compatto e facilmente riconoscibile per chi ha nelle mani l’agenda politica e istituzionale, consegnando agli individui la possibilità di chiedere servizi migliori e un trattamento sociale adeguato. L’attivista e filosofo autistico Robert Chapman (2020), non a caso, opponendosi all’eliminativismo diagnostico tipico di alcune correnti antipsichiatriche e della ricerca stessa, sostiene che le diagnosi siano un mezzo necessario per creare una comunità e far sì che le persone possano entrare a farne parte. Il fatto che queste necessità siano pragmatiche e politiche non le rende meno legittime sul piano teorico, al contrario, si può sostenere che una necessità emersa dalla prassi interpelli in modo urgente la riflessione teorica. Tuttavia, sosterrò in questo articolo che, proprio perché è importante che le necessità pragmatiche e politiche interroghino la teoria in modo forte, ci sono buone ragioni per essere cauti rispetto alla tendenza identitaria delle rivendicazioni in ambito psichiatrico.
La passione identitaria
Fino a qualche anno fa, il person-first language – ovvero l’indicazione di riferirsi a chi ha ricevuto una diagnosi usando la formula “persona con X” – sembrava il modo più rispettoso per parlare di chi aveva ricevuto una diagnosi psichiatrica o una diagnosi medica disabilitante. L’idea sottesa a questa regola era che chiunque, prima della diagnosi ricevuta, fosse una persona, e che la persona non fosse assimilabile interamente alla diagnosi (o alla disabilità) ma che anzi la eccedesse in un modo che era importante rendere evidente nelle pratiche linguistiche. Troviamo questa indicazione nelle linee guida dell’APA sul linguaggio inclusivo fino all’edizione del 2022, dove leggiamo che, quando ci si riferisce a una persona con disabilità, è meglio chiederle il tipo di linguaggio che preferisce. L’alternativa al person-first language è quella che mette in risalto la componente identitaria, ovvero l’identity-first language. Usando questa formula, la particella “con” sparisce, e il soggetto diviene: “persona X”: persona autistica, persona disabile. La formula identity-first, preferita a oggi da molte comunità – come, ad esempio, quella neurodivergente (Botha, Hanlon, Williams 2023) – si radica in una nuova consapevolezza collettiva, rilevata anche dall’APA: «[l’] Identity-first language è spesso usato come espressione di orgoglio culturale e come rivendicazione di una disabilità che un tempo conferiva un’identità negativa». Il linguaggio centrato sull’identità si muove quindi nell’ambito della riappropriazione: quella pratica politica – che si dà spesso proprio in ambito linguistico – per cui si prende un aspetto o una parola usata negativamente per riappropriarsi del suo senso e ricostruirlo comunitariamente come neutrale o positivo.
Un importante contributo filosofico a questa impresa lo ha dato Ian Hacking (2007), quando ha pubblicato il suo – citatissimo dai Critical Autism Studies – Kinds of people: Moving Targets, che riassume le lezioni che tenne per anni sul tema della classificazione psichiatrica alla British Academy e al College de France. Qui il filosofo, facendo esplicito riferimento alle persone autistiche, propone un nominalismo dinamico secondo il quale esiste una relazione di reciproca interazione tra la classificazione e le persone classificate che si chiama feedback loop. Il feedback loop si dà tra i diversi nodi attraverso cui le classificazioni si rendono possibili: la classificazione, appunto, le persone che la ricevono, le istituzioni, le nozioni che vengono insegnate, diffuse e perfezionate nel contesto delle istituzioni, e infine gli esperti. Tra queste istanze, secondo Hacking, avviene una retroazione continua che le modifica continuamente in modo iterativo. In questo senso, le persone autistiche non sono natural kind, ma kind of people: non perché non esistesse, prima della formulazione della diagnosi, l’autismo come condizione, ma perché è tramite questo looping effect che l’autismo è divenuto, oggi, un modo di riconoscersi come persona.
Nel 1993, sulla newsletter dell’Autism Network International, la prima comunità virtuale formata da persone autistiche, l’attivista Jim Sinclair scriveva: «L’autismo non è qualcosa che una persona ha, o un “guscio” in cui è intrappolata. Non c’è un bambino normale nascosto dietro l’autismo. L’autismo è un modo di essere». (Sinclair, 1993) Di queste parole è evidente la potenza evocativa: l’autismo non sarebbe un’“appendice” (appendage) della persona, sostiene Sinclair: l’autismo è ciò che una persona è. Quando l’attivista scriveva questo articolo, la narrazione più diffusa dell’autismo era quella disperata dei genitori di bambini autistici che oggi chiameremmo “non verbali” e “con disabilità intellettiva”, considerate attualmente co-occorrenze non intrinseche alla classificazione. La scienza, come la narrazione, si è infatti – proprio grazie a persone come Sinclair – ampiamente modificata. È questo un effetto della retroazione di cui parla Hacking: quanto più le contro narrazioni esistono e si diffondono – guadagnando potere epistemico – tanto più si possono propagare attraverso i diversi nodi che attraversano, fino ad arrivare a cambiare il senso comune e lo stato della ricerca.
Il legame con le Identity Politics
Sinclair non si muoveva nel vuoto: gli anni Novanta sono gli anni in cui la potenza politica dell’identità viene discussa ed evidenziata dalle Identity Politics, che nascono negli Stati Uniti all’interno dei movimenti femministi (Heyes, 2024). Delineare la propria condizione di minoranza attraverso un moto identitario ha il vantaggio di rendere più esplicite le rivendicazioni di quel gruppo, e di renderlo più compatto e riconoscibile. Pochi appelli come quello all’identità riescono a esprimere una carica simbolica tanto potente da riunire sotto la stessa causa persone molto diverse. Da quel momento in poi, tuttavia, le Identity Politics sono state molto criticate, viene quasi da sostenere che siano per lo più utilizzate come bersaglio critico che come contrasto teorico. Le critiche più spesso citate sono quelle della filosofa Nancy Fraser (2000), che denuncia il rischio di spezzettamento infinito delle istanze entro identità sempre più specifiche, il rischio del separatismo insito nella suddivisione tra un “noi” e un “voi”; e soprattutto il fatto che le rivendicazioni identitarie, pur nascendo dalle comunità, finiscono per cannibalizzare le rivendicazioni in chiave individuale, togliendo risorse emancipatorie alla lotta verso la redistribuzione delle risorse, che è importante tanto quanto il riconoscimento, se non – come sostiene Fraser – più fondamentale.
Un’altra critica, che potrebbe essere particolarmente interessante per gli scopi di questo saggio, è quella del rischio della reificazione dell’identità esclusa. Dal momento che, come sostiene William Connolly: «Un’identità si stabilisce in relazione a una serie di differenze che sono diventate socialmente riconosciute. Queste differenze sono essenziali per il suo essere» (2002, 64). Nel proporre come autentica una percezione del sé costruita in opposizione a un’identità dominante – che si presenta spesso come neutrale – si rischia di consolidare la dipendenza con questo “Altro” che si trova in posizione egemonica. Il rischio della dipendenza, se pensiamo alle identità che nascono dalla psichiatrizzazione, si manifesta in modo forse ancora più evidente che rispetto al genere, perché le diagnosi dipendono direttamente – nel senso che vengono create, restituite e rimaneggiate – proprio dall’istituzione psichiatrica: non nascono per opposizione all’Altro egemonico, ne sono una sua diretta emanazione.
Nell’ambito delle rivendicazioni psichiatriche, il contrasto più forte a questa tendenza viene dalla psicologia critica e dall’antipsichiatria (vedi: Basaglia, 2012). Il nodo controverso della rivendicazione identitaria, in questo ambito, è quello dell’uso della diagnosi come identità, come “modo di essere” che precede la rivendicazione politica. È evidente, infatti, che l’uso politico di un’identità significhi almeno in parte un precedente riconoscimento dei soggetti in quella identità. Il movimento antipsichiatrico ha sottolineato il rischio, sia per i pazienti che per i professionisti, di identificare la persona con la propria diagnosi. Senza spostarsi negli ambienti più radicali, è interessante notare come la cautela dell’uso identitario della diagnosi sia una regola che viene insegnata in più di un approccio psicologico. Questa cautela verso il “labeling”, l’etichettamento, viene giustificata anche nell’ambito più specificamente scientifico, perché il realismo diagnostico (la certezza che le diagnosi psichiatriche siano una cosa che esiste nel mondo) e l’affidabilità delle diagnosi (la certezza che queste possano venir conferite in modo identico da specialisti diversi utilizzando gli stessi criteri) sono due aspetti controversi e tendenzialmente ancora molto dibattuti (Cooper, 2014). La cautela maggiore viene pertanto, paradossalmente, proprio da “dentro” la psichiatria (vedi: Frances, 2013, Timimi, 2013).
La malattia come astrazione ipostatica
Una spiegazione filosofica più articolata della differenza tra l’approccio medico tradizionale e quello identitario promulgato dagli attivisti la dà il filosofo della psichiatria Rashed, che è anche un attivista del Mad Movement. Il Mad Movement sostiene che la condizione di “madness” è una condizione di differenza e di difficoltà, da portare senza vergogna. All’interno del movimento convivono varie correnti più o meno radicali. Tuttavia, per i fini di questo articolo, mi concentrerò sulla componente identitaria, poiché è quella che accomuna – seppur con alcune differenze – anche gli altri movimenti. In un articolo del 2020, il filosofo si domanda cosa avviene, sul piano logico e linguistico, durante l’incontro clinico tra paziente e terapeuta. La psichiatria, secondo Rashed, in quanto disciplina inerentemente medica, legge l’incontro con la malattia attraverso le lenti dell’astrazione ipostatica. L’astrazione ipostatica, secondo Charles Peirce, avviene quando una proposizione composta da soggetto e predicato come “il miele è dolce” o “Ahmad è coraggioso” viene trasformata in una relazione tra due soggetti: “il miele ha la dolcezza” o “Ahmad ha il coraggio”.
Se astrazione indica quel processo attraverso cui consideriamo qualcosa indipendentemente dalle proprie associazioni e attributi, e ipostasi si riferisce al sostrato essenziale delle cose, «Un’astrazione ipostatica, quindi, è un’astrazione da ciò che è considerato parte della natura essenziale di un’entità, e che ora viene pensato insieme a quell’entità come soggetto separato» (2020, 603, traduzione dell’autrice).
L’astrazione ipostatica secondo l’autore presenta due vantaggi: in prima istanza, consente di chiedere se il primo soggetto possa essere mantenuto, sia a livello analitico che empirico, indipendentemente dal secondo soggetto. Quando si parla di astrazione ipostatica, stiamo parlando del fatto che una proprietà astratta (come una malattia o un disturbo) possa essere separata dal soggetto e considerata come un’entità a sé stante. In secondo luogo, tale reificazione rende possibile formulare giudizi su questa entità astratta senza doversi riferire direttamente alla persona che la possiede: deresponsabilizzano il soggetto.
Applicata alla medicina, questa astrazione ci permette di parlare di condizioni, disturbi e malattie come se fossero “entità” che una persona “possiede”. Questo secondo Rashed è il campo semantico entro il quale opera la medicina, e per estensione la psichiatria. Sarebbero questi quindi i sottesi semantici che ricorrono anche nel linguaggio person-first. L’incontro clinico – tipicamente e inizialmente – presuppone che la condizione non faccia parte della natura essenziale della persona. L’obiettivo, in questa fase iniziale, è quello di riportare la persona allo stato in cui si trovava prima dell’insorgere della condizione. Ciò richiede che la condizione sia distinta dalla persona, altrimenti questa non può essere recuperata nella sua integrità mentale. Questo, secondo Rashed, mostra quale sia la posa morale che il medico adotta verso la condizione, perché, una volta separata dal soggetto e reificata allo stato di malattia, questa non viene più vista come una responsabilità del paziente. Mette, addirittura, paziente e medico in una relazione in cui l’intento terapeutico è condiviso e l’intenzione è tutta rivolta verso questa appendice sgradita che è, appunto, la condizione psichica classificata dalla psichiatria e identificata dal medico. Si vede come questo atteggiamento, tuttavia, possa condurre a una forma di oggettivazione che rischia di subordinare la complessità fenomenologica del paziente – il suo corpo vissuto, le sue percezioni e la sua sofferenza esistenziale – a un modello di cura puramente tecnico e strumentale. Nondimeno, sebbene la formulazione di Rashed possa descrivere il problema della reificazione meccanicistica della malattia, sembra non individuare il motivo sottostante a questo problema, che, come tenterò di argomentare, è in realtà condiviso dall’impostazione identitaria, ed è un realismo ingenuo sulla diagnosi psichiatrica che scinde il problema della moralizzazione dai meccanismi intrinseci alla disciplina psichiatrica stessa.
Tra avere ed essere
Quella di cui sembra parlare Rashed è una relazione di possesso tra il soggetto e la propria condizione. La relazione di possesso, tuttavia, non implica necessariamente la sua ipostatizzazione: l’astrazione ipostatica si dà nel momento in cui si tratta un segno, o un concetto, come un’entità reale, indipendente dai suoi riferimenti specifici. Questo approccio realista è necessario perché si dia la “reificazione” di cui parla Rashed, nonché per comprendere come i concetti astratti possano operare nei sistemi di pensiero e di segni, assumendo una sorta di realtà semplificata, talvolta riduzionista, nella logica e nel linguaggio. Per estensione di un discorso scientifico spesso semplificato, è evidente che il linguaggio del senso comune esprima una visione reificata delle diagnosi psichiatriche. Questo però non necessariamente deriva dalla relazione di possesso in cui il soggetto viene posto rispetto alla malattia. A ben vedere, a rendere ipostatica la depressione nel lemma “X ha la depressione” non è la relazione di possesso che connette X e la depressione, è il modo attraverso cui la depressione, come le altre categorie psichiatriche, sono state semantizzate come entità reali, concrete e distinte. Se ci spostiamo sul dominio dell’essere, dicendo che “X è depresso”, la depressione, come entità concreta, rimane comunque implicita nel modo in cui la depressione viene concepita, da molti specialisti e soprattutto dal senso comune.
Su come sia avvenuto che le diagnosi psichiatriche siano diventate entità ipostatiche nella narrazione comune sono stati versati fiumi di inchiostro: pensiamo a tutto il discorso sulla medicalizzazione e al biopotere, cui il discorso di Rashed fa forse implicito riferimento. Il biopotere ci viene in aiuto anche per comprendere forse più a fondo cosa avviene in quell’incontro clinico “deresponsabilizzante” di cui parla Rashed: quando pensiamo alla depressione come a qualcosa che si può curare, l’implicito del rapporto clinico, non è solo che la depressione esista come un’affezione concreta del corpo, è anche, e forse in modo fondamentale, che il paziente voglia che sia curata. Ed è qui, sembra, proprio in questo imperativo implicito, che si installa il secondo aspetto di cui parla Rashed, ovvero la possibilità della moralizzazione e della responsabilità. Secondo Rashed, se non pensiamo le condizioni psichiche nel dominio semantico dell’essere e della formazione dell’identità attraverso l’“astrazione precisiva” – quella che permette di dire, appunto, che qualcuno è depresso, che qualcuno è schizofrenico – tutto un reame di discorsi fondamentali sulla responsabilità e sui «modi di vivere buoni e cattivi» (2020, 605) rimarrà precluso ai soggetti psichiatrizzati e quindi alle comunità che andranno a formare.
Tuttavia, a ben vedere, la formula “X ha la depressione” non esenta davvero il soggetto dalla responsabilità della propria condizione, né in bene né in male: lo dimostrano anni e anni di ricerche rispetto alla percezione e allo stigma esibito dagli psichiatri rispetto alle condizioni dei propri pazienti, nonché quello che emerge nel senso comune (Haslam, 2005). La moralizzazione del disagio psichico ha radici lontanissime e complesse, ma se volessimo circoscrivere il punto in cui si incunea la possibilità del giudizio morale – del medico, e per estensione del mondo – quel punto sembra trovarsi più vicino al momento della scelta, al modo in cui il soggetto si pone nel rapporto tra la propria autonomia e la condizione codificata dalla medicina. Il soggetto deve volersi curare. Questo implicito fa parte tanto del mandato di cura della psichiatria, tanto di quello di controllo sociale. Le affezioni del corpo, nella maggior parte dei casi, sono esenti dalla critica morale perché il soggetto sembra subirle, ma se questi contribuisce, con la propria autonomia, all’affezione – pensiamo alla percezione sociale dell’obesità – ecco che vediamo, anche qui, presentarsi la moralizzazione.
Riappropriarsi: una parola chiave
Nel suo testo “Avere”, Paolo Virno (2020) analizza «il parente povero, spesso denigrato e calunniato del più nobile essere» (2023), sostenendo come la relazione di possesso che si esprime attraverso il verbo avere sia un aspetto fondamentale del modo in cui diventiamo soggetti. Il tipo di relazione che sostiene l’avere è quella congiuntura tra due entità che mantiene tra esse uno scarto, evitando di fonderle assieme. È una relazione, ma è una relazione estrinseca tra il soggetto e ciò che possiede. Questo carattere estrinseco della relazione non la rende in nessun modo meno importante o necessaria. Virno fa l’esempio della coscienza: noi abbiamo la coscienza, non siamo la nostra coscienza. Questa relazione – estrinseca, che lascia uno iato ontologico – è fondamentale per definire l’uomo, ma non è l’uomo. In modo cruciale, proprio per la nostra possibilità di agire nel mondo – e quindi di essere efficaci politicamente – questo iato è ciò che ci permette di utilizzare quello che abbiamo. È perché abbiamo qualcosa che possiamo renderla strumento, agire attraverso di essa. Il che non significa che se ne abbia il totale controllo. C’è appunto un margine più o meno ampio di agency che abbiamo rispetto a ciò che abbiamo, eppure è proprio questo margine che ci permette di diventare soggetti attivi, di far capitare le cose, di cambiare noi stessi e ciò che ci circonda.
Come sostengono Jorba e Petrolini nella loro analisi sulla presunta incompatibilità tra il linguaggio person-first e quello identity-first, non è detto che la possibilità della riappropriazione di un termine – come può essere la diagnosi – necessiti della sua ascrizione identitaria. La rivendicazione di un aspetto della propria esperienza non passa necessariamente per l’identificazione: «Un […] fattore che collega intuitivamente la rivendicazione all’approccio identity-first è che considerare una caratteristica come separabile dalla propria identità può sembrare escludere la possibilità di rivendicarla». Al contrario, il problema evidenziato all’inizio del testo, quello del mantenimento dell’essenzialismo sottostante la reificazione di ciò che vuol venire riappropriato – in questo caso la diagnosi psichiatrica – sembra un rischio maggiore nel caso del linguaggio identitario.
La critica del rischio della ricaduta essenzialista è stata mossa molte volte verso le politiche dell’identità, ed è particolarmente complessa da gestire in ambito psichiatrico per due motivazioni principali: il fatto che l’identificazione viene fatta con quello che Audre Lorde chiama “strumento del padrone” (Lorde, 1984), uno strumento, la diagnosi, che vale la pena chiedersi se possa davvero venire riappropriato; e quella, più debole a mio avviso, del rischio di identificarsi totalmente con la diagnosi. Questa critica sembra peccare di paternalismo, poiché ci identifichiamo tutti con aspetti diversi di noi stessi e il processo identificativo è anche una scelta del soggetto, che è giusto rimanga nelle sue mani. Ma la prima rimane cogente: la rivendicazione di una classificazione psichiatrica non è la semplice rivendicazione di un termine, legato a usi e risemantizzazioni che hanno luogo soprattutto nel senso comune. La classificazione è un concetto fortemente embricato nelle istituzioni e nelle pratiche sociali cheda cui ha avuto origine. Il feedback loop, per usare la terminologia Hackingiana, torna sempre all’istituzione: mutato, certamente, ma mai davvero depotenziato. Per una questione di potere epistemico e simbolico: l’istituzione psichiatrica ha il potere di dire il “vero” sui soggetti e sulle condizioni psichiche perché è un’istituzione scientifica. Il discorso semplificato che emerge dai resoconti scientifici – effetto forse inevitabile dell’incontro tra conoscenza esperta e non esperta – ha fatto sì che per anni le classificazioni psichiatriche venissero pensate attraverso le lenti di un realismo ingenuo che le spoglia di tutta la complessità concettuale e metodologica.
Leggendo le esperienze e i resoconti degli attivisti che fanno parte di comunità psichiatrizzate, questo realismo ingenuo emerge in modo condiviso e talvolta radicale. E viene da pensare che questo sia anche un effetto discorsivo: quando si dice “io sono”, l’attributo di identità viene portato nel ragionamento come entità concreta, non suscettibile di discussione. La sensazione è che la reificazione delle entità diagnostiche nel discorso pubblico stia aumentando, e non diminuendo, da quando la tensione identitaria ha avviluppato le narrazioni sul mondo psichico. Chiaramente, questo non è dovuto solo al modo in cui scelgono di raccontarsi le persone con esperienza vissuta – spesso profondamente consapevoli di questi rischi – ma anche al modo in cui la psicologia e la psichiatria continuano a porsi come scienze nella società, invocando pose positiviste che rendono le spiegazioni sull’uomo certamente più chiare, semplici, e scientificamente presentate, ma che oscurano tutto il lavoro, anche di filosofia morale, che avviene nei tavoli di discussione e di ricerca (argomento di cui ha parlato molto la filosofa della psichiatria Rachel Cooper proprio riguardo alla formazione del manuale diagnostico DSM).
Finché la moralizzazione delle condizioni psichiche verrà considerata un accidente – un errore di una scienza giovane non ancora in grado di dirsi neutrale – e non un aspetto intrinseco della disciplina, che la rende quindi soggetta a interrogazioni e monitoraggi di tipo esplicitamente morale e politico, il rischio della moralizzazione indebita dei concetti psichici rimarrà concreto, come il loro utilizzo rischioso da parte degli attivisti. Il che significa fare un passo avanti rispetto alla correzione dei singoli bias della disciplina e dei suoi autori: significa prendere sul serio il lascito di Foucault e di Goffman sulla posizione delle scienze mediche nella società.
La costruzione del soggetto psichiatrizzato come soggetto politico è e sarà quindi fondamentale per il bene della disciplina stessa. Tuttavia, ci sono ancora buoni motivi – non solo teorici – per pensare che questa soggettivazione possa avvenire senza la confusione del diagnostico con l’identitario, senza temere che il territorio semantico dell’avere porti via la possibilità emancipatoria dalle mani dei soggetti. Al contrario, si potrebbe sostenere che tale territorio semantico non faccia che ricordarci lo scarto, inevitabile e necessario, tra tutte le cose che abbiamo – e che non abbiamo, e che un giorno non avremo più – che, in modo contingente e provvisorio, formano in ogni momento l’aggregato di intenzioni e di accidenti che siamo. Forse il termine “ri-appropriazione” serve dunque a ricordarci che la soggettivazione, anche quella politica, si dà proprio in quel margine e in quella distanza che ci permette di vedere cosa non è nelle nostre mani e che potrebbe, e talvolta dovrebbe, essere nostro.
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