Chi crede e chi smette di credere

Anche questa volta faccio partire una mia, umile, riflessione da un articolo di giornale, e precisamente dall’inchiesta dell’università di Chicago riportata a pag. 30 e 31 de “La Repubblica” del 20 aprile 2012. Lo studio è condotto dal sociologo Tom Smith, su un campione di trenta paesi, circa il rapporto che c’è fra individuo e fede. Dappertutto, o quasi, negli ultimi vent’anni – rileva lo studio – vi è una tendenza al ribasso tra i fedeli: in Italia circa il 10% in meno rispetto al 1991.
Rimangono comunque alte le stime – in Italia – di coloro che credono, fermamente, nell’esistenza di Dio (35,9% fra chi ha meno di 28 anni; il 42,9% nella fascia d’età fra 48 e 57 anni; e perfino il 66,7% in chi ha più di 68 anni). Il dato, a mio avviso, rimane di alta “fedeltà”, anche fra i giovani. Perché il 35,9% dei ragazzi sotto i 28 anni è un numero, comunque spaventoso.
Nell’articolo seguente quello che riporta i dati il teologo Vito Mancuso tenta di dare una spiegazione a questa tendenza di calo della fede. L’idea centrale per Mancuso è il fatto che – come recita il titolo del suo articolo – i dogmi della chiesa non convincono più, che il Vaticano sia troppo legato ad una configurazione della fede cattolica “dogmatica e teista”, che non sia al passo coi tempi, che non modifichi le sue istituzioni (come il sacerdozio, il cardinalato femminile, il celibato, etc…). E quindi – secondo Mancuso – tutto ciò porta ad una perdita della fede nelle masse, ad uno svuotamento delle chiese e quindi ad un personale contatto con Dio da parte dei credenti, che non si affidano più all’ ecclesia.
Tutto ciò mi pare impossibile da sostenere.
La religione cattolica, ma le religioni in generale, perché sono fede non possono non prescindere da dei cardini fissi, a-storici, che non si modificano con il modificarsi della realtà sociale. Le religioni si attuano per mezzo delle persone che credono, e che mettono in atto il messaggio divino (caratteristica principalmente cattolica).
I credenti che determinano da soli il modo di comunicazione con la divinità non sono credenti, sono persone che cercano un appiglio, un gancio nel cielo; perché giustificano la tradizione, perché non vogliono scostarsi in modo decisivo, con una frattura netta, da ciò che storicamente ha delineato ciò che viviamo quotidianamente, ovvero questa nostra società colma di senso religioso, mistico, moralistico e di falso perdono.

Nessuna guerra, nessun tempio

Nel numero #19 dell’inserto culturale del Corriere della Sera, “La Lettura” (pagina otto) ritroviamo un articolo di Edoardo Camurri, sul movimento ateo e non credente.
In modo piuttosto drastico, che probabilmente non avrebbe usato se si fosse parlato della controparte credente, l’autore delinea una mappa delle diverse “sette” di atei che si scontrano sul tema dell’ateismo. La tesi sembra essere quella che i vari atei (dei quali viene stilata anche una mappa, a seconda delle origini o delle influenze: neo-darwinisti, atei-militanti, atei-radicali, atei-profanatori…) si scontrino fra di loro sulla interpretazione del vero ateismo e se esso debba fare riferimento alla teoria darwinista, mettendo in risalto che non c’è un pensiero comune che collega i vari pensatori, che però si definiscono tutti atei.
La prima cosa che salta all’occhio è che nella lista di Camurri non ritroviamo nemmeno un filosofo di quelli veri (c’è Onfray e Vattimo, due che non definirei filosofi, alla stregua di un Severino!), tutti biologi, scienziati vari, matematici e “pensatori”. La seconda cosa che viene da pensare è che, in quanto pensiero libero, ed in quanto non accettazione di una fissità di pensiero, l’ateismo (in tutte le sue forme) non può essere iscritto all’interno di un tempio (si dice nell’articolo che ci sarebbe qualcuno pronto a costruire il tempio dell’ateismo a Londra). L’ateismo è una parte importante della capacità umana di avere un pensiero libero, non vincolato ad una ideologia (perché ogni religione è ideologica, nel senso che iscrive in sé tutte le risposte e tutte le problematiche, risolvendole mediante un processo di inglobamento). L’errore che fa Camurri e che fanno tanti altri sta nel pensare che anche l’ateismo sia una religione, una posizione fissa dal quale scoccare le proprie frecce nei confronti degli altri.

No, no. Non ci sto. L’ateismo è il contrario, è il non accettare risposte grossolane. Ed i veri atei non fanno guerre con chi non la pensa proprio come loro. Non si fanno la lotta.

Un’ultima cosa. Va bene che fisici, biologi, psicologi, pensatori e matematici dicano la loro sulla questione religiosa, e sulla “costruzione del mondo” (gli scienziati quello indagano). Ma di alcune cose parla la filosofia. È la filosofia che guarda il utto, e che “segna il campo” di tutte le altre discussioni.

Un atteggiamento filosofico, e coraggioso

Ad un giorno (per chi scrive, ed ora che scrive) dal nuovo ritiro ho deciso di scrivere qualcosa che rendesse l’idea di ciò che contraddistingue chi frequenta i Ritiri Filosofici.
L’altra mattina, insieme a Giovanni (altro frequentatore, e “socio-fondatore” potrei dire di Ritiri Filosofici) parlavamo di come fosse fondamentale, e determinante, in un appassionato di filosofia, in uno studente di filosofia o – diciamolo – in un filosofo, anche se non alla ribalta, l’atteggiamento.
Per atteggiamento, perlomeno io, intendo le modalità con le quali si guarda il mondo, lo si scruta, lo si espone a rischi, lo si interroga, e perfino lo si affronta. Ebbene, l’atteggiamento filosofico fa proprio questo, non si accontenta, vuole squarciare il velo di Maya che c’è sopra le cose, guarda le cose con interesse perché ne va di lui stesso, ed in questo si mette in gioco.
Colui che intende esporsi con un atteggiamento filosofico non ha paura di incastrarsi dentro ad un doloroso dubbio. Perché sa che sopravvivere nell’ingannevole certezza è altrettanto doloroso e quanto di più lontano dalla verità.

Saverio Mariani

The Last Pagans of Rome

Il 10 novembre 2011, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia, è iniziata una due giorni di studi sul nuovo libro dello storico Alan Cameron sul tema degli ultimi pagani a Roma (il titolo completo della mastodontica opera è The Last Pagans of Rome).

Ogni specialista invitato ha affrontato uno o due capitoli del volume.

Ho assistito alla prima lezione, quella tenuta dalla professoressa Rita Lizzi dell’Università di Perugia sui primi due capitoli, che hanno ad oggetto la cristianizzazione dell’Urbe nell’epoca tardoantica, ed il problema connesso della scomparsa del paganesimo.

Non entro nei particolari, anche perché tecnici e diretti ad un pubblico erudito (non come il sottoscritto, che ha faticato a divincolarsi fra i temi storici) ma posso trarre qualche riflessione a riguardo, che forse potrà interessare lettori più filosofi che storici.

Secondo Cameron, nel IV sec. d.c. il termine pagano era utilizzato in una accezione religiosa, che descriveva il soggetto non cristiano, e quindi anche in termini dispregiativi. In precedenza il termine era usato (testimoniano alcuni trattati e codici) in modo civile, per descrivere il soggetto rurale, non cittadino.

Se prima il termine era inteso in senso laico, perché ora il termine trova accezioni religiose?

Perché oramai i cristiani avevano acquisito una forza politica, soprattuto con Teodosio, che i pagani non hanno mai avuto. Ciò è comprovato dal fatto che anche i barbari invasori erano definiti pagani.

Divenendo la religione dell’impero, il cristianesimo ha da subito etichettato come pagano tutto ciò che era credenza non cristiana, tradendo in un certo modo evidente il messaggio di uguaglianza e dialogo. Ciò è evidente soprattutto con Teodosio.

Ma ci si è chiesti (e qui c’è forse più interesse filosofico): c’è stato un confronto fra i pagani ed i cristiani, a livello culturale, fra i vari capi religiosi, le autorità religiose che rappresentavano un sentire comune?

La risposta è si. Troviamo nelle epistole di Agostino un continuo confronto con molti pagani che contestavano già ad Agostino la morale evangelica, definita come il grande male dell’Impero, soprattutto perché ormai introdotta nei vertici dell’Impero, e le contraddizioni del testo sacro.

Ora – più che mai – viene definito il tardoantico come il periodo di decadenza dell’Impero Romano.

Proprio in quel periodo l’egemonia cristiana incominciava a muovere le pedine dell’Impero (alla fine del IV sec. vengono anche tolti i finanziamenti ai culti pagani dell’Impero) che di lì a poco – a causa di incapacità governativa – fece la fine che tutti sanno.

Velatamente dette ma, le conclusioni della prima conferenza, sono state proprio queste.

Saverio Mariani

[Questo articolo è pubblicato anche nella sezione “Eventi]

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