Un oltraggio al senso comune

Il termine antisemitismo fu coniato nel 1879 da un giornalista tedesco antisemita, Wilhelm Marr. Dal 2016 la parola ha una sua definizione formale così come proposto dall’IHRA, l’Alleanza internazionale per il ricordo dell’olocausto. Tuttavia, come dimostra la recente esplosione di violenza su scala planetaria, la questione è ancora attuale e oggetto di controversie.
Il problema è che l’antisemitismo mescola in modo quasi inestricabile questioni morali, religiose e storiche. Con il ritorno della sovranità territoriale ebraica, oggi si aggiungono anche questioni politiche, come dimostra la difficoltà di tracciare una linea di demarcazione tra antisemitismo e critica allo stato di Israele.

Miti e paradossi dell’antisemitismo
Per questi motivi è utile rileggere la prima parte del capolavoro di Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, dedicato espressamente all’antisemitismo. La filosofa ebrea comincia con il paradosso di spiegare come un tema apparentemente così marginale abbia messo in moto una macchina diabolica come quella nazista, “oltraggio al senso comune” che dà il titolo al capitolo. I tentativi di dare risposta al fenomeno sono stati molti ma spesso si sono rivelati fallaci, come quello che vede l’identificazione dell’antisemitismo con l’emergere del nazionalismo. Per Arendt è tutto il contrario in quanto «il moderno antisemitismo è cresciuto in proporzione al declino del nazionalismo tradizionale, raggiungendo il suo climax nel momento in cui il sistema europeo degli Stati nazione e il suo precario equilibrio di poteri cominciò a dissolversi».

L’analisi di Arendt parte dalla decostruzione di due teorie mitiche: il capro espiatorio e l’eterno antisemitismo. La prima trae origine da una prassi rituale nota agli stessi ebrei che consisteva nel prendere un caprone e scacciarlo verso il deserto dopo una specifica cerimonia religiosa: in questo modo l’animale avrebbe portato con sé tutti i mali che affliggevano la società. La seconda sostiene che l’odio verso gli ebrei è una costante della storia. Si tratta di una tesi ancor più dannosa, dice Arendt, perché, da una parte, finisce per giustificare gli odiatori per i loro crimini: se infatti gli ebrei sono odiati da sempre, una ragione deve pur esserci; dall’altra introduce l’idea che l’antisemitismo sia “una misteriosa arma per la sopravvivenza del popolo ebreo”. Il problema è che le due dottrine rifiutano di porre la questione sul piano storico ed escludono qualsiasi corresponsabilità ebraica per spiegare il fenomeno, esattamente ciò che invece la Arendt si propone di discutere.

Un’analisi teologico-politica
L’antisemitismo, perlomeno quello moderno, è principalmente il prodotto di una dissoluzione teologico-politica. Da un punto di vista teologico l’antisemitismo nasce da una complessa serie di trasformazioni religiose. In primo luogo il processo di secolarizzazione che, nel caso specifico, prende il nome di assimilazione, termine con il quale si intende la trasformazione degli ebrei da gruppo religioso a gruppo sociale inserito ed omologato nelle varie società nazionali. In questo modo gli ebrei non condividerebbero più una prassi rituale ma degli attributi di carattere psicologico. Questa trasformazione non è la causa ma la precondizione che poi ha giustificato la loro persecuzione. 

Il mutamento in gruppo sociale, con la conseguente perdita della coscienza religiosa, ha infatti determinato la separazione del concetto di elezione da quello della speranza messianica, aspetti inseparabili nell’ebraismo. Scrive Arendt che «i riformatori ebraici che cambiarono la religione nazionale in una denominazione che intendeva la religione come affare privato, i rivoluzionari ebrei che pretendevano di essere cittadini del mondo per liberarsi della nazionalità ebraica, ebbero come risultato quello di fare della propria vita privata il centro della loro ebraicità». E più l’ebraismo andava smarrendo il suo significato religioso, nazionale e politico, maggiore divenne la sua insopportabilità agli occhi dei suoi appartenenti, i quali ne furono ossessionati così come si può essere ossessionati da un difetto fisico. 

Questo risultato giunse alla fine di un percorso storico, iniziato nel XVI secolo, in cui gli stessi ebrei iniziarono a pensare le differenze tra loro e le altre nazioni non in termini religiosi ma in termini razziali e antropologici. Questo cambiamento nel valutare il carattere alieno del popolo ebreo, divenne comune anche tra i non ebrei nel tardo illuminismo: basti pensare ad un filosofo come Giambattista Vico il quale ricostruì la genesi degli ebrei in una linea di generazione diversa rispetto ai gentili. Questa valutazione però, dice la Arendt, è stata la conditio sine qua non della nascita dell’antisemitismo.

Il rapporto equivoco degli ebrei con gli Stati europei
La secolarizzazione (o assimilazione) è andata di pari passo con l’estensione dei privilegi loro attribuiti, vera e propria concessione accordata agli ebrei per il loro appoggio economico agli stati di cui facevano parte. Si tratta in questo caso dell’aspetto più propriamente politico dell’analisi di Arendt. Unico popolo europeo a non avere uno stato, gli ebrei erano nella posizione migliore per stringere alleanze con tutti i governi ed in questo modo finirono per essere i principali finanziatori degli stati moderni. Questa posizione era però equivoca in quanto gli ebrei, tutelati e protetti dallo Stato, mantenevano una loro visibilità di gruppo, anche a causa delle loro notevoli ricchezze. In questo modo, ogni classe sociale che via via si trovava in conflitto con lo stato, finiva per entrare in conflitto con gli ebrei, accusati (anche in modo populistico) di essere la causa di tutti i mali.

Il collasso degli Stati nazione che cominciò a registrarsi verso la fine del XIX secolo è il punto dirimente della tesi della Arendt. La crescita e il destino degli ebrei nel sistema dello stato nazione ebbe queste tappe: dapprima l’influenza sempre più grande degli ebrei nello stato grazie alla loro potenza economica; poi la concessione di privilegi a seguito del sostegno dato ai governi; quindi l’emergere dell’imperialismo che cominciò ad erodere le basi dello Stato nazione e con essa i privilegi ebraici; infine la disintegrazione dell’ebraismo occidentale negli anni precedenti alla prima guerra mondiale, con il risultato che gli ebrei rimasero una “mandria” di ricchi benestanti senza più protezione politica. L’inesperienza millenaria degli ebrei rispetto agli affari politici li ha resi ciechi di fronte all’enorme rischio derivante da una mancata ed attiva partecipazione al governo della società. In questo senso, scrive Arendt in un articolo pubblicato nel volume The Jewish Writing (la cui lettura è fondamentale per una più profonda comprensione del suo pensiero in materia ): «Fin dall’inizio della nascita dell’antisemitismo politico, il pensiero ebraico ha preparato il popolo ebraico alla sconfitta (…). Nessuno ha trovato una risposta politica all’antisemitismo, e l’affermazione di Weizmann (il primo capo di stato di Israele, ndr) che la risposta dovesse essere la costruzione di uno stato palestinese si è rivelata una pericolosa follia». Parole che ancora oggi costituiscono un monito contro l’ipotesi della soluzione dei due stati per risolvere la cosiddetta questione palestinese.

Aspetti critici dell’analisi di Arendt
Diversi sono gli aspetti critici dell’analisi della scrittrice di origini ebraiche. Quello principale, che è anche alla base dell’ostracismo ricevuto in ambito ebraico, consiste nella diagnosi della corresponsabilità ebraica nella dinamica della persecuzione. Da questo punto di vista, l’affermazione secondo cui l’antisemitismo sarebbe “una misteriosa arma per la sopravvivenza del popolo ebraico” suona come sibillina. Qual è il significato proprio di tale affermazione? Che sono gli stessi ebrei a fomentare  l’odio contro di loro per garantire la propria sopravvivenza? Arendt non entra nella discussione di questo aspetto che pure avrebbe meritato ben altro approfondimento. Sappiamo infatti quanto questo tema, almeno a partire da Spinoza che ne parla nel suo Trattato Teologico Politico, sia controverso e delicato. Così come la tesi secondo cui, più che i cristiani, furono gli ebrei a dissociarsi dai gentili favorendo la concezione di una loro diversità antropologica piuttosto che religiosa. Un terzo percorso di approfondimento infine avrebbe meritato l’idea del tracollo degli Stati nazione a favore degli imperialismi. Questa tesi intanto non convince pienamente sul piano storico, in quanto gli stati nazionali sono rimasti ed anzi, in alcuni casi, è stata la spinta dei nazionalismi a causare (anche nel XX secolo) il crollo degli imperi. In tutti i modi poi, la forma stato è rimasta: questo significa che, ammesso che non abbia più un fondamento nazionale, lo stato è intrinsecamente antisemita? In che modo deve essere infine letta la tesi secondo la quale, dice Arendt, l’unico effetto politico dell’antisemitismo è stato il sionismo, cioè lo stato nazionale ebraico?

Domande che, sollevate da una delle menti più lucide del novecento, attendono ancora una risposta.

Riferimenti bibliografici

  • Arendt, Hannah. 2017. The origins of totalitarianism. London: Penguin Books
  • Arendt, Hannah. 2007. The Jewish Writings. Schocken Books, New York
  • Staudenmaier, Peter. 2012. Hannah Arendt’s Analysis of Antisemitism in the Origin of Totalitarianism: A critical Appraisal. Marquette University, History Faculty Research and Publications, 84.

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

2 Comments

  1. In riferimento a quello che scrive Omar, soprattutto in merito all’incomprensione e all’ostilità dell’Occidente nei confronti della reazione di Israele all’attacco subito il 7 ottobre, sono illuminanti queste parole di Hannah Arendt scritte in una lettera del 1964: “Chi viene attaccato come ebreo deve difendersi come ebreo. Non come tedesco o come cittadino del mondo o in nome dei diritti umani eccetera”. Per legge di natura, chi viene minacciato nella sua stessa integrità, non può che difendersi nei modi che reputa più opportuni. Il che significa che contro quell’attacco antisemita all’esistenza di Israele, la reazione non poteva non essere quella che si è manifestata nei giorni successivi. Questo sia detto soltanto per comprendere quello che sta avvenendo, non solo senza diminuire l’orrore per tutto ciò a cui assistiamo, ma nemmeno senza giustificare né approvare.

  2. Due brevi considerazioni,senza pretesa di organicità, ma esposte così come mi vengono in mente.Muovendomi,o provando a muovermi,con un filo di presunzione, sul terreno storico,che mi è di sicuro più congeniale rispetto a quello più strettamente filosofico.Vero che mi si potrebbe dire che ci vuole poco,ed è vero,ma tant’è…E d’altra parte,ho l’impressione che la stessa Arendt,nell’affrontare un argomento come questo, non abbia potuto far altro che “storicizzare” prima, per proporre le sue riflessioni poi.

    Maurizio scrive:”Con il ritorno della sovranità territoriale ebraica, oggi si aggiungono anche questioni politiche, come dimostra la difficoltà di tracciare una linea di demarcazione tra antisemitismo e critica allo stato di Israele”. Personalmente,io ero del parere che antisemitismo e critica allo Stato d’Israele o perfino l’antisionismo,potessero avere(talvolta,non sempre) una linea di demarcazione e ritenevo pertanto anche un po’ strumentali a volte (pur da fermo sostenitore dello Stato Ebraico, per ragioni storico-politiche ma anche culturali),le accuse di antisemitismo che venivano rivolte, in qualche caso un pò troppo disinvoltamente a giudizio di chi scrive,contro quei soggetti o organismi internazionali che si ponevano contro Israele.Non che dessi loro ragione ovviamente,ma l’accusa che veniva loro rivolta di essere contro Israele non per motivi politici o ideologici,ma perché, in fondo,antisemiti,pur riconoscendo la sua funzionalità politica,nel merito non mi persuadeva pienamente.Devo riconoscere però,che l’attuale circostanza,quello che sta accadendo,che vedo accadere,vale a dire la diffusa ostilità,per non dire l’odio che in buona parte dei Paesi occidentali ed in alcune loro élite,si manifesta per Israele,per il solo fatto (questo è il punto) di aver reagito,di essersi difeso da un mostruoso atto di genocidio (quello sì che può essere definito tale) perpetrato da un movimento di fondamentalisti islamici votati da sempre alla distruzione del focolare ebraico,mi ha portato se non a ricredermi,a mettere in dubbio,almeno nella quasi totalità dei casi, l’esistenza della suddetta linea di demarcazione.Come spiegarsi altrimenti, l’incredibile mancanza di sostegno e solidarietà ai nostri “fratelli maggiori”,per dirla con Papa Giovanni Paolo II, compartecipi nel generare quelle radici giudaico-cristiane che si vorrebbero perpetuare quali pilastri ispiratori della civiltà europea e occidentale, anche se oggi il vecchio continente,ma anche il nuovo,sembrano impegnati a disconoscere quando non a distruggere questi pilastri, nel silenzio, se non addirittura con la complicità, di una parte non piccola delle stesse gerarchie cattoliche.Ma questo è un altro capitolo,tra quelli,numerosi e non certo edificanti ai quali dobbiamo assistere in questo nostro tempo che ci tocca vivere. Poi,è anche vero che i “fratelli maggiori”,sono stati per quasi l’intero arco della storia della Chiesa,i “perfidi giudei”e ci sarebbe forse da chiedersi, quanto dell’odio che ha circondato sin dall’inizio lo Stato nato dal sionismo,non sia ascrivibile anche alla vecchia matrice dell’antisemitismo di natura religiosa e nello specifico, per quanto ci riguarda,cristiano.

    Ma come spiegarsi soprattutto, l’ostilità,l’odio,le falsità,le mistificazioni e le calunnie di cui viene fatto oggetto Israele,in queste settimane,non nel mondo islamico,ma da noi,in Europa e purtroppo (triste novità) negli Stati Uniti,sia pure, dall’altra parte dell’Oceano,in forme ancora contenute e minoritarie,se non con la persistente presenza,in queste manifestazioni, di un antisemitismo di fondo?Un antisemitismo del resto,che ha radici storiche profonde e che erroneamente e troppo affrettatamente ,si è ritenuto fosse ormai completamente superato nella coscienza dei popoli europei e delle loro attuali classi dirigenti,una pagina triste della storia europea da relegare nel passato e biasimare ,a parole e con la necessaria retorica,in occasione di qualche solenne celebrazione,a cominciare da quella legata al ricordo dell’Olocausto.In giornate come queste,sovviene quanto diceva Golda Meir in occasione di precedenti conflitti nei quali lo Stato ebraico,aggredito da chi voleva distruggerlo,dovette lottare per la propria sopravvivenza,non essendogli consentito il lusso di poter perdere una guerra e di sopravvivere.”Ancora per molti nel mondo e anche in Europa,l’ebreo buono è solo quello che viene ucciso,perseguitato e che si lascia perseguitare.Se solo questo ebreo prova a reagire e a difendersi,allora non è più un buon ebreo”.

    Seconda osservazione; Maurizio scrive:”Diversi sono gli aspetti critici dell’analisi della scrittrice di origini ebraiche. Quello principale, che è anche alla base dell’ostracismo ricevuto in ambito ebraico, consiste nella diagnosi della corresponsabilità ebraica nella dinamica della persecuzione. Da questo punto di vista, l’affermazione secondo cui l’antisemitismo sarebbe “una misteriosa arma per la sopravvivenza del popolo ebraico” suona come sibillina. Qual è il significato proprio di tale affermazione? Che sono gli stessi ebrei a fomentare l’odio contro di loro per garantire la propria sopravvivenza? Arendt non entra nella discussione di questo aspetto che pure avrebbe meritato ben altro approfondimento. Da questo punto di vista, l’affermazione secondo cui l’antisemitismo sarebbe “una misteriosa arma per la sopravvivenza del popolo ebraico” suona come sibillina”.

    In effetti,detta così appare ambigua.Se l’interpretazione da dargli,è quella di una supposta corresponsabilità ebraica nella dinamica della persecuzione, al fine di fomentare l’odio contro di loro per garantire la propria sopravvivenza,mi taccio perchè non saprei cosa dire al riguardo,tanto la cosa mi pare assurda,o comunque a me incomprensibile,se invece la chiave di lettura è quella che tante volte si è sentita esporre anche nell’ambito dell’ebraismo e cioè che le terribili e storicamente costanti persecuzioni subite hanno generato di riflesso una spinta alla coesione,alla solidarietà e in ultima istanza all’unità del popolo ebraico, al fine di indurlo a difendersi e a lottare con più vigore per la propria sopravvivenza,allora l’affermazione ha un senso ed una,mi pare,indiscutibile verità storica,nella quale però non vedo cosa ci sia di misterioso,essendo questa una dinamica ben conosciuta nelle dinamiche dell’agire collettivo di un popolo di fronte ad una minaccia,specie se esistenziale,e che tante volte si è manifestata e ripetuta nel corso della Storia.Ma naturalmente,non sono di certo io a poter dire cosa abbia voluto significare la Arendt con questa affermazione,d’altra parte,se non riescono a comprenderlo pienamente nemmeno studiosi come Maurizio e altri che ne conoscono il pensiero e le opere….Infine,si e ci interroga Maurizio: “In che modo deve essere infine letta la tesi secondo la quale, dice Arendt, l’unico effetto politico dell’antisemitismo è stato il sionismo, cioè lo stato nazionale ebraico?” si chiede Maurizio.
    Che l’antisemitismo,cioè secoli di persecuzione,abbiano contribuito,nel tempo, a sviluppare, nella coscienza del popolo ebraico,quella corrente di pensiero chiamata sionismo,credo sia indubbio,ma il sionismo nasce,con Herzl,sul finire del secolo diciannovesimo e riceve una spinta politicamente decisiva, all’indomani della tragedia vissuta dagli ebrei con l’Olocausto,quindi ridurre gli effetti politici dell’antisemitismo, le cui origini sono così lontane nel tempo e che tante e tante pagine di storia ha generato,al solo sorgere del sionismo,mi apparirebbe come minimo riduttivo.

    Omar Proietti

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