Nell’ampio panorama filosofico occidentale il nome di Günther Anders è poco noto e, certamente, scarsamente considerato. Alcuni critici hanno ritenuto la sua opera come una mera demonizzazione della tecnica attraverso una reiterazione, priva di spessore o addirittura banale, di temi già trattati ed esacerbati. Tuttavia, fondate o meno che siano tali critiche, è certo che l’autore si è reso protagonista di un’analisi estremamente rilevante, e per certi versi profetica, sui mass media e sul sistema che muove questi apparecchi nella società contemporanea, da cui deduce una precisa concezione – tendenzialmente catastrofica – della tecnica. Il fulcro del suo pensiero si trova in L’uomo è antiquato – testo costituito da due volumi pubblicati in tempi diversi: il primo nel 1956, il secondo nel 1980. Fra questi non sussiste solamente una differenza cronologica, ma anche strutturale; il secondo volume infatti, a differenza del primo, non può essere considerato una vera e propria opera, in quanto è costituito da una serie di articoli concepiti fra il 1957 e il 1979.
Isoleremo dunque due temi trasversalmente presenti in entrambi i volumi, che saranno affrontati in due articoli per ogni tema: il primo tema è dedicato alla critica sociale dei mezzi mediatici; il secondo al concetto di tecnica in rapporto alla psicologia delle emozioni.
Per una breve biografia
Alcuni cenni biografici sono utili per comprendere la genesi di questo testo. Günther Stern nasce a Breslavia nel 1902. Si laurea nel 1923 con Husserl, di cui fu allievo. A causa delle sue origini ebraiche fu costretto ad espatriare e modificare il suo cognome, seguendo alla lettera l’indicazione del suo editore che gli consigliò di utilizzare “qualcosa di diverso” (Etwas Anders). Trasferitosi prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, si impegna in diversi lavori manuali, che avranno una forte incidenza nello sviluppo del suo pensiero, in primis l’esperienza alla catena di montaggio. Nel lasso di tempo fra la stesura del primo e del secondo volume del testo, egli stesso afferma in un’intervista che «senza l’esperienza in fabbrica […] non sarei mai stato in grado di scrivere la mia critica all’era della tecnica, cioè il mio libro L’uomo è antiquato. E ancora oggi, mentre preparo la seconda parte di quel libro, continuo a nutrirmi di quelle esperienze» (Anders 2008, 69). Sfuggendo dunque agli orrori della Seconda Guerra Mondiale ed alle persecuzioni naziste, visitò l’inferno di Auschwitz a tragedia conclusa; una visita che ispirerà profonde considerazioni, che saranno raccolte e pubblicate in un volume del 1966 (Anders 1966). Sebbene Auschwitz abbia rappresentato un momento di tragica riflessione, non secondo a tale evento fu per l’autore l’infausto caso di Hiroshima e dell’utilizzo della bomba atomica. Lo sgancio della bomba su Hiroshima rappresenta l’anno zero di una nuova era, quella in cui l’umanità diviene capace di autodistruggersi e, più profondamente, di progettare la propria autodistruzione. Con la devastazione di Hiroshima si è concretizzata la possibilità intrinseca a quel che soggiace al progetto atomico (culmine ultimo dello sviluppo tecnico): la distruzione del mondo e dell’uomo.
L’occasionalismo
In un’epoca in cui l’autodistruzione si mostra come inevitabile ed in cui la fine della storia appare fatalmente visibile, Anders giudica inutile, o addirittura immorale, parlare di ontologia; per questo motivo sperimenta un nuovo metodo filosofico, che battezza con l’espressione filosofia d’occasione o occasionalismo. Il metodo di Anders consiste nel disporre lo studio di un singolo “evento” (o di una singolare occasione) come punto di partenza per la costruzione di categorie universali. Si concentrerà l’attenzione sulla singola cosa, temporalmente determinata, per pervenire solo successivamente all’elaborazione di categorie universali. Tale metodo presta inevitabilmente il fianco a critiche da parte dei puristi, che potrebbero giudicarlo antifilosofico, in quanto, come dice l’autore stesso, si mostra come «un ibrido incrocio tra metafisica e giornalismo» (Anders 1956, 17). A tali critiche Anders replica che «chi nega senz’altro che il fenomeno singolo possa essere oggetto dell’attività filosofica, perché è soltanto contingente ed empirico, sabota la propria attività filosofica» (ivi, 20), in quanto così facendo arginerebbe pretestuosamente le sue possibilità di argomentazione.
L’occasionalismo permette all’autore di utilizzare uno stile multiforme e di attingere a categorie afferenti a molteplici discipline: dalla fenomenologia alla metafisica, dalla psicanalisi all’etica e alla sociologia. Il mezzo linguistico è per l’autore secondario; il suo scopo primario è rendere l’individuo cosciente del pericolo insito nella società contemporanea: la sottomissione dell’uomo al mondo tecnocratico moderno. In vista di tale intento occorre analizzare le cause del progressivo affrancamento dell’uomo dal centro della società rispetto al dominio incontrastato della macchina o, detto altrimenti, il processo che ha permesso alla tecnica di prendere il posto dell’uomo nella storia, divenendone sovrana. I media, in questo processo, giocano un ruolo centrale; è per questo che l’autore ritiene opportuno dedicare ampio spazio al problema mediatico, mostrandone, con sorprendente anticipo (si tratta del 1956, periodo in cui la televisione godeva di scarsa diffusione), gli aspetti più controversi. Naturalmente, nelle sue considerazioni sui media e sul rapporto con la società, Anders eredita gli studi provenienti dalla Scuola di Francoforte; le assonanze con il tema delle industrie culturali (che comprendono cinema, radio, musica jazz, etc.), di Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo, sono palpabili. La peculiarità del pensiero di Anders risiede tuttavia nel metodo che utilizza per la sua critica e per la sua attenzione particolare al mezzo televisivo. Contrariamente all’attitudine “aristocratica” della metafisica, la filosofia d’occasione, arrogandosi la facoltà di occuparsi concretamente di ogni cosa, rappresenta per l’autore un’importante risorsa contro il pericolo costituito dalla tecnica. Per comprendere l’essenza della tecnica dal punto di vista dell’occasionalismo occorre anzitutto confrontarsi con i suoi effetti, cioè coi prodotti; in particolare, l’autore si concentra sul ruolo dei mass media.
L’illusione antropocentrica
In un punto del testo, l’autore esplicita la sua impostazione:
«La critica cui sottoporremo la radio e la televisione in questo scritto provocherà anzitutto la reazione seguente: non è ammesso generalizzare a questo modo; dipende esclusivamente da che cosa «facciamo» di questi servizi, da come li adoperiamo, dagli scopi che vogliamo raggiungere impiegando questi mezzi: buoni o cattivi, umani o disumani, sociali o antisociali. […] La libertà di disporre della tecnica, che ne è il presupposto; la credenza che esistano porzioni del nostro mondo che non sono altro che «mezzi», a cui si possono assegnare ad libitum «scopi buoni», sono pure illusioni. Radio e televisioni stesse sono realtà; e realtà che ci plasmano. […] La verità è che lo scindere grossolanamente la nostra vita in «mezzi» e «scopi», come si fa a proposito di questo argomento, non ha nulla a che vedere con la realtà. […] Quel che ci plasma e ci altera, che ci forma e deforma, non sono soltanto gli oggetti mediati dai «mezzi», ma i mezzi stessi, i congegni stessi: i quali non sono soltanto oggetti di un possibile impiego, ma hanno una loro struttura e funzione determinata, che determina il loro impiego e con ciò anche lo stile delle nostre occupazioni e della nostra vita, insomma: noi» (Ivi, 97-98)
L’idea comunemente condivisa sui prodotti tecnici si basa su una visione astratta, o per meglio dire categorialmente strutturata, della realtà. In altre parole, la dialettica mezzi-scopi appartiene alla mente categorizzante, non alla realtà in sé. Il fatto che siamo abituati a dividere la realtà in mezzi e scopi non significa che tale distinzione appartenga alla realtà. Tale fraintendimento approda all’idea che i media, e i prodotti tecnici in generale, siano mezzi di cui l’uomo si servirebbe per raggiungere determinati scopi (non a caso si usa l’espressione mezzi mediatici). Anders stravolge tale visione della realtà sostenendo che tutto ciò che ci circonda, preso nella sua totalità, è realtà, ed in quanto tale ci plasma e ci condiziona; e le “nostre” creazioni non fanno eccezione. Proprio riguardo la presunta appartenenza dei prodotti tecnici a “noi”, l’autore scrive che «ammesso che ci sia qualcuno che possa aver diritto a un “noi” del genere, sarebbe soltanto la minoranza degli scienziati, degli inventori e degli esperti, che dominano gli arcani. Ma noi, cioè il 99 per cento dei contemporanei, non abbiamo “fatto” le macchine […], non le vediamo come opera “nostra”» (ivi, 35). L’affrancamento dell’uomo dai prodotti tecnici sarà ulteriormente acuito dalla teoria del dislivello prometeico, uno dei capisaldi della filosofia andersiana; tratteremo di questo argomento in un altro articolo di questa serie. Ciò che conta sottolineare ora è l’autonomia della tecnica e dei prodotti rispetto alla libertà umana, specchio di una categorizzazione basata su un antropocentrismo infondato.
Il fantasma e la massificazione della società
La domanda che Anders si pone per procedere alla sua analisi dei mass media, in particolare di radio e televisione, riguarda il come ed il cosa tali “mezzi” trasmettano; infine occorre comprendere chi sia il padrone di questi mezzi. Il titolo della sezione del testo relativa all’argomento suggerisce già una risposta alla domanda sull’oggetto mediato: i media ci forniscono un’immagine del mondo sotto forma di fantasma e di matrice. Per quanto riguarda il modo in cui tale immagine ci viene fornita, l’autore dice chiaramente che «il mondo ci viene fornito in casa. Gli avvenimenti ci vengono imbanditi» (Ivi, 124).
L’inganno della trasmissione risiede nella sua manifestazione sotto forma (apparente) di immagine. Ma un’immagine, quale oggetto, si rappresenta al soggetto mediante un’esperienza estetica in un rapporto biunivoco. Essa, infatti, priva in sé di sovrastrutture ideologiche, si aprirebbe alle possibilità interpretative del soggetto fruitore. La trasmissione, invece, non concede reciprocità e dunque nemmeno esperienza, giacché si presenta, “bell’e pronta”, allo spettatore quale parvenza di presenza. Essa, inoltre, non concede possibilità di relazione dialogica con lo spettatore, anzi riduce quest’ultimo in un inevitabile stato di mutismo; egli è sottoposto all’oggetto trasmesso senza possibilità di dialogo. In terzo luogo, la trasmissione genera un dislivello temporale poiché, affermandosi come presenza presente, pur nella sua assenza immediata, atrofizza l’”adesso” in un fantasma. Essa presenta, nel senso letterale di rendere presente spazialmente e temporalmente, un oggetto che in realtà non è nello spazio e nel tempo in cui viene fornito. La sua natura è dunque fantasmatica, come il rapporto che instaura con lo spettatore. La facilità del fornimento a domicilio crea inoltre dipendenza, generando una nuova, paradossale, forma di libertà: «Ogni momentanea assenza di consumo gli sembra già una privazione; il fumatore a catena ne è l’esempio classico. Così, horribile dictu, la libertà (= tempo libero = non far nulla = non consumare) si identifica con privazione» (Ivi, 134). Il tempo libero diviene tempo occupato, giacché, consumando trasmissioni, l’individuo sperimenta la sensazione di libertà. La libertà è ora il consumo, o nel consumo. Di contro, l’assenza di consumo mediatico si tramuta in una sorta di horror vacui. Un altro tratto peculiare delle trasmissioni mediatiche è la loro pretesa di totalità; la trasmissione maschera la sua natura fantasmatica attraverso il fornimento di un’immagine totale del mondo. Quest’ultima caratteristica destituisce di importanza il mondo reale e la necessità di rapportarvisi, poiché la sua immagine, fittiziamente reale, sarebbe già fornita a domicilio. Ma, avverte Anders, l’oggetto mediato dalla trasmissione, la «notizia», è una peculiare forma di informazione «su» i fatti; la notizia, dunque, non è l’oggetto ma il fatto (ivi, 147). La natura fantasmatica della notizia e la sua falsa totalità risiedono nel fatto che questa è presentata come predicato.
«Ogni notizia, in quanto è una fornitura parziale, è già un pregiudizio, che può essere vero ma anche falso; ogni predicato è di per sé un pregiudizio; e il contenuto di ogni notizia tiene celato al destinatario l’oggetto stesso, perché il predicato, che è il solo a essere fornito, lo lascia nell’ombra. Il destinatario, dunque, viene privato della sua indipendenza, perché gli è imposto un punto di vista (quello del predicato) e gli viene celato l’oggetto che si suppone sia contenuto nel giudizio» (Ivi, 150).
Per questo motivo il termine “su” esemplifica uno stato di superiorità della notizia rispetto al destinatario, che, non avendo voce in capitolo, riceve un «prodotto finito» (ivi, 149) e giudicato. La notizia, per sua natura, fornisce una visione parziale (dunque erronea) della realtà. Per tal motivo, la trasmissione che diffonde la notizia determina una «privazione di libertà» (ivi, 150) nei confronti dello spettatore, dal momento che questi non è libero di giudicare una notizia che si presenta già sotto forma di predicato. Nella notizia l’oggetto viene esposto per come deve essere visto, vale a dire dal solo punto di vista del predicato, nel suo pregiudizio prestabilito. Ciò esclude lo spettatore dal giudizio sul prodotto e dalla libertà di accettare o rifiutare il giudizio insito nella forma in cui l’oggetto viene trasmesso. Prima di essere informati “sui” fatti, per dirla alla Carmelo Bene (che richiama qui Derrida), sono i fatti stessi ad essere in-formati e ciò trasforma gli spettatori in degli sformati. Attraverso la “predicazione mediatica” viene costruita una realtà, quella mediatica, che non coincide con la vera realtà delle cose (che di per sé non ha predicato). Il fornimento a domicilio del fantasma televisivo permette alla menzogna della totalità di proliferare, generando schemi fissi, illusioni di realtà, che andranno a costituire matrici universali. Tali matrici, mascherati da «porzioni di mondo» (ivi, 161), divengono modelli di comportamento sociale imprescindibili.
Conseguenza naturale di tale dinamica dovrebbe essere la creazione di una massa quantomeno omogenea, che potrebbe organizzarsi in modo solidale verso una rivoluzione (per l’appunto) di massa, nella consapevolezza collettiva dell’inganno. Ma i media non creano “massa”, bensì «massificazione», poiché si rivolgono ad una “massa” di singoli, che genera atomizzazione e, di conseguenza, «de-democratizzazione» (Anders 1980, 72). L’effetto dei media sul pubblico è quella di un’atomizzazione massificante, in cui gli individui seguono modelli di comportamento prestabiliti, uguali per tutti, con la conseguente impossibilità di stringere patti solidali; il risultato, inquietantemente attuale di tale processo, è la creazione di una società di conformisti anti-sociali.
Riferimenti bibliografici
– Anders, Günther. 1956. L’uomo è antiquato I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, a cura di L. Dallapiccola. Torino: Bollati Boringhieri.
– Anders, Günther. 1966. Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966. a cura di S. Fabian. Torino: Bollati Boringhieri.
– Anders, Günther. 1980. L’uomo è antiquato II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale. a cura di A. M. Mori. Torino: Bollati Boringhieri.
– Anders, Günther. 2008. Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza, a cura di L. Pizzighella. Milano: Mimesis.
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