Tra le spiagge dello scetticismo e gli scogli dell’idealismo

La storia della filosofia è costellata di battaglie dialettiche, rimproveri o accuse condotte in nome di definizioni, idee, formule che spesso contengono significati sfumati o addirittura contraddittori. Concetti come empirismo, razionalismo, idealismo sono spesso spacciati come aventi un significato univoco dimenticando invece che esistono vari tipi di scetticismo e diverse modalità di declinare le “scuole” classiche della modernità. Come definire ad esempio la filosofia di Spinoza che ha fatto del razionalismo la veste esteriore del suo pensiero in realtà profondamente permeato di empirismo? Come intendere ancora l’idealismo, e il realismo che gli fa da contraltare, di cui si distinguono forme e contenuti differenti? Per arrivare fino a noi, si può aggiungere a questo quadro la galassia dell’esistenzialismo, che comprende autori notevolmente diversi tra loro, o ancora le varie forme di materialismo che, nel pensiero moderno, finiscono per stravolgere il senso che il termine aveva nel mondo antico. Un’occasione per comprendere la complessità e la portata eversiva celata dietro alcune di queste definizioni ci è offerta da una polemica sorta dopo la pubblicazione della Critica della ragion pura di Kant del 1781. Il dibattito che ne seguì fu una delle cause che portarono alla redazione dei Prolegomena e poi alla seconda edizione della Critica del 1787: ripercorrerlo costituisce anche un modo per mostrare come le opere filosofiche nascano spesso dal tentativo di risolvere contrasti o interessi occasionali.

La recensione fu pubblicata in forma anonima su una rivista filosofica di Gottinga nel gennaio del 1782. Si trattava di una prassi normale per l’epoca e tale da non costituire motivo di scandalo: più tardi, anche per una corrispondenza epistolare che intervenne tra gli interessati, si seppe che gli estensori dell’articolo erano J. G. H. Feder e Christian Garve, due filosofi dell’università hannoveriana. Nella recensione si stabiliva che l’opera di Kant faceva perno su un completo idealismo, un sistema cioè incapace di raggiungere una soluzione tra lo scetticismo e il dogmatismo. I due critici, sostenendo che tale filosofia trasformava il mondo in una mera rappresentazione, accusavano Kant di essere non solo un grave pericolo per i giovani ma anche di costituire una minaccia fatale per l’intelletto. Questa non fu l’unica accusa che Kant ricevette durante la sua lunga carriera di docente universitario. Quella più pericolosa, anche per le minacce che la accompagnarono, si ebbe dopo la pubblicazione della Religione nei limiti della ragione nel 1794 quando Kant ricevette una lettera del sovrano Federico Guglielmo che lo accusava di abusare della filosofia per travisare e svalutare alcune dottrine fondamentali della Sacra Scrittura e del cristianesimo, comportandosi così in modo irresponsabile. Pur non raggiungendo toni simili, le obiezioni di Feder e Garve sollecitarono Kant a prendere una posizione più decisa rispetto ai temi oggetto di controversia.

La reazione fu affidata ai Prolegomeni ad ogni metafisica futura del 1783, sorta di manuale di lettura dell’opera principale, con il quale il filosofo intendeva non solo rispondere ai suoi critici ma tracciare una sorta di autobiografia intellettuale tesa a mostrare la genesi del suo pensiero. Kant dichiarava innanzitutto di essere stato svegliato dal sonno dogmatico da Hume il quale aveva sottoposto a critica la legge di causalità, cioè il fondamento di ogni discorso che voglia avere i caratteri della scientificità e della razionalità, mostrando come la cosiddetta legge causale altro non è che un’associazione di fenomeni derivante dall’osservazione empirica e che essa non aveva dunque nessuna garanzia di universalità e necessità. Questo empirismo avrebbe portato allo scetticismo più radicale annullando la possibilità di qualsiasi conoscenza, ma esso non era il solo ad aver provocato la reazione di Kant. Allo scetticismo humiano infatti si aggiunse uno di tipo pirroniano riassumibile nel concetto di antinomia della ragione, l’esistenza cioè di alcune idee della ragione in sé contraddittorie che tuttavia non sono distrutte nemmeno dopo essere state smascherate. In questo modo si producevano argomenti contrari aventi la stessa forza persuasiva (Kant scriverà in una lettera che «proposizioni metafisiche differenti ma equamente persuasive conducono immancabilmente a conclusioni contrarie in quanto ogni proposizione getta dubbi sull’altra») e ciò avrebbe condotto ad una sospensione del giudizio (epochè) che costituisce, secondo il suo padre fondatore Sesto Empirico, il tratto tipico dello scetticismo.

Kant si smarcava dagli scettici (questo «genere di nomadi che infestano la società» come li avrebbe definiti) mostrando, attraverso la dialettica trascendentale, che i fenomeni non sono nulla al di fuori delle nostre rappresentazioni. Ma in questo modo la sua filosofia, come una sorta di imbarcazione tra Scilla e Cariddi, veniva risospinta nelle fauci dell’idealismo il cui campione indiscusso era George Berkeley. Il vescovo anglicano, vissuto nella prima metà del settecento, aveva mostrato che la soluzione contro ogni scetticismo consisteva nella rimozione della differenza tra idee e cose in quanto era errata la supposizione che vi fosse qualcosa d’altro fuori della mente. Per Berkeley diventava così assurdo il concetto stesso di realtà materiale in quanto (come scrive Giovanni Gentile) «concepire una realtà è concepire anzi tutto la mente in cui questa realtà si rappresenta». Consapevole di tale difficoltà, Kant ammetteva che l’idealismo non è mai innocente ed anzi è uno “scandalo per la filosofia” in quanto la ragione umana si trovava costretta ad ammettere soltanto per fede l’esistenza delle cose esterne. Questa situazione di dissidio interiore condusse Kant a risposte in sé ambivalenti. Nella prima edizione della Critica della ragion pura aveva distinto tra un idealismo trascendentale e un idealismo empirico: con il primo s’intende la concezione in base alla quale i fenomeni sono semplici rappresentazioni, in cui tempo e spazio sono considerate forme sensibili dell’intuizione. L’idealista trascendentale è un realista empirico perché conferisce alla materia, come fenomeno, una realtà che è percepita (anche se non immediatamente). A ciò si contrappone il realista trascendentale che vede nel tempo e nello spazio qualcosa di dato in sé, indipendente dalla nostra sensibilità: egli è un idealista empirico, in quanto trae la conseguenza che tutte le rappresentazioni dei sensi risultano insufficienti a rendere certa la realtà dei loro oggetti.

Nella seconda edizione della Critica, Kant introduceva una esplicita “confutazione dell’idealismo” che, sebbene non significasse la conversione al realismo, segna un ulteriore quanto bizzarra presa di distanza dall’idealismo. Il filosofo di Königsberg distingueva da una parte l’idealismo dogmatico e assoluto di Berkeley che considerava lo spazio, insieme a tutte le cose che sono in esso, come qualcosa di immaginario e la conoscenza della realtà falsa o impossibile. Dall’altra un idealismo problematico, attribuito a Cartesio, che ritiene le cose fuori da noi come dubbie e indimostrabili ma facendo salva l’asserzione empirica dell’io che presuppone comunque una realtà e un’esperienza esterna.

Nel volgere di pochi anni dunque, Kant confutava (o credeva di aver confutato) due tipi di scetticismo, altrettante forme di idealismo, abbandonava il dogmatismo razionalistico e fondava, con una specie di empirismo rivisitato, quello che sarà poi definito il criticismo. Il suo proposito (come scrive nei Prolegomena) era stato quello di trarre fuori la navicella della filosofia dalla spiaggia dello scetticismo per darle un pilota munito di bussola e carta geografica per la navigazione. Essa, fuor di metafora, avrebbe dovuto approdare alla metafisica come scienza, depurata cioè dalle false idee che la riducevano a chiacchiera, e ad un uso regolativo della ragione sia nel campo metafisico che in quello della morale (ovvero l’adozione del “come se” per rispondere ai problemi tradizionali di Dio, dell’anima e della libertà). Che ne è stato di questo progetto nella storia del pensiero filosofico?

Già nei pensatori immediatamente post-kantiani, Reinhold, Schulze e Maimon, il tema dello scetticismo veniva rimesso al centro dell’attenzione speculativa. Schulze nell’ Enesidemo (testo che è già un programma derivando il nome dal celebre pensatore scettico dell’antichità greca) rimproverava Kant di non aver superato lo scetticismo di Hume il quale non è né indifferentismo né il prodotto della disperazione della ragione ma al contrario la persuasione del fatto che tutti i tentativi di determinare le cose in sé erano rimasti inefficaci. Con questo era aperta la via all’idealismo hegeliano il quale, mostrando la contraddittorietà della stessa cosa in sé, finiva per battere e strapazzare la navicella kantiana. Dopo essere sopravvissuta e avere avuto una nuova stagione di sviluppo con il neokantismo, essa è stata trascinata, in nome della fine della metafisica, nelle acque lagunari, placide esteriormente ma tormentate interiormente, dell’esistenzialismo e poi del pensiero debole. Negli sviluppi più recenti la navicella ha raggiunto la palude della filosofia analitica, questa forma di scolastica kantiana, da cui oggi non riesce più a tirarsi fuori. Costantemente assaltata sia dalle ondate del realismo, che si dimostrano però velleitarie, sia da quelle ben più poderose del nichilismo, la navicella kantiana rischia continuamente di essere rovesciata. Di essa non rimane altro che una zattera a cui però aggrapparsi, soprattutto nei tempi odierni, per chi voglia provare la difficile quanto irrinunciabile forma di navigazione costituita dal pensare.

 

Foto di Stephan Louis su Unsplash

Questo articolo è stato già pubblicato su Ritiri Filosofici il 3o aprile 2017.

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