Questa breve analisi della vita di Adriaan Koerbagh e della sua opera principale, Een Ligt, giunge alla fine di un percorso di studio durato un anno presso l’Università degli Studi di Macerata. Sotto la guida del professor Filippo Mignini è stata offerta agli studenti l’opportunità di frequentare un corso articolato in due semestri sull’argomento in questione. Molti sono i nodi ancora da sciogliere intorno a questo pensatore, soprattutto per il suo rapporto con la filosofia dell’amico Spinoza. Nonostante i numerosi punti di contatto infatti, la riflessione koerbaghiana assume una piega più estrema rispetto a quella spinoziana e, sebbene possa indurci a considerarlo come un deciso anticipatore di quell’illuminismo la cui paternità è forse troppo superficialmente attribuita in massima parte a Cartesio e Bacone, lascia ampio spazio alle critiche, soprattutto per le derive politiche implicate.
Cenni biografici
Adriaan Koerbagh nasce nel 1632 ad Amsterdam, due anni prima del fratello Johannes e già nel 1653 entra in contatto con la filosofia di Descartes all’università di Utrecht, dove completerà gli studi da giurista; si trasferirà poi nel 1656 a Leyda per studiare anche medicina, mentre il fratello diverrà teologo. Proprio in tale ambiente Adriaan conosce alcune delle persone con le quali finirà per costituire quel “circolo di Spinoza” al quale Meinsma fa riferimento nel titolo della sua opera, qui infatti stringe rapporti con Lodewijk Meyer, anche lui studente di medicina nonché uno dei principali corrispondenti del filosofo olandese, il futuro dottore Johannes Bowmeester, un altro personaggio che compare nell’epistolario spinoziano, e infine Abraham van Berckel, il quale tradusse il Leviathan di Hobbes in latino e nederlandese e ha portato le idee del filosofo inglese all’interno del circolo stesso.
Il 1661 rappresenta senz’altro un punto di passaggio fondamentale lungo questo percorso perché è l’anno in cui certamente Spinoza diede una prima formulazione scritta del suo pensiero, e sebbene fosse in latino, ad oggi ci sono pervenuti due manoscritti che ne attestano la traduzione in nederlandese, verosimilmente affinché potesse circolare agevolmente fra i suoi amici. D’altronde, la questione linguistica è uno degli elementi che insieme alla questione politico-religiosa, rimane sempre al centro delle attenzioni di questo gruppo di amici; tutti o quasi infatti lavoreranno alla produzione di testi di grammatica (Spinoza produce una grammatica ebraica, Meyer un dizionario della lingua nederlandese, Koerbagh un nuovo dizionario di diritto in nederlandese) con l’unico scopo di dare vita ad una lingua universale che in quanto tale fosse in grado di basarsi su schemi logici riconosciuti da chiunque e quindi massimamente comunicativa.
Nel 1664, contemporaneamente all’ascesa di Johan de Witt a capo delle Province Unite, Adriaan pubblica la sua prima opera, il Nuovo vocabolario del diritto che già nel 1666 gli varrà il primo conflitto con il concistoro calvinista di Amsterdam, concluso senza particolari ripercussioni, rispetto ad alcune sue idee ivi contenute (come la concezione di un dio-sostanza sulla scia del pensiero di Spinoza) troppo prossime all’ambiente sociniano, che dovevano essere giustificate. In questo testo in effetti, Koerbagh fa una raccolta di termini stranieri comunemente usati nel linguaggio nederlandese per ripercorrerne l’analisi etimologica al fine di ripulirli dalle contaminazioni di una scorretta concettualizzazione; il che poi si trasforma in un’operazione “cavallo di Troia”, finalizzata ad introdurvi i germi della sua nuova filosofia, seppure celati da un velo di ambiguità.
Le cose andarono ben diversamente quando Adriaan fece stampare la seconda opera, il Bloemhof, poiché al suo interno difendeva senza timore diverse tesi religiose “non canoniche”. Per lungo tempo, precisa Meinsma, si è indicata come motivazione di tale opera, la necessità da parte dell’autore di difendere le proprie tesi empie, tuttavia non è così poiché insieme al vocabolario in nederlandese che egli aveva già elaborato, questi suoi scritti avevano come unico fine di rendere maggiormente accessibile la conoscenza, la quale da tempo immemore era appannaggio esclusivo dei conoscitori del latino. Considerando che i suoi legami con Spinoza, Van den Enden e Jan Knoll già lo facevano apparire sotto una cattiva luce, se a ciò si aggiunge la sua incapacità di tacere, risulta inevitabile che nel giro di poco tempo il concistoro avesse fatto presente alle autorità che l’opera conteneva tesi calunniose (pubblicata a metà febbraio, il 23 era già nota alle autorità), richiedendo provvedimenti immediati. A differenze del ’66, questa volta i borgomastri non se la sentirono di opporsi e lasciarono all’Ufficiale di Giustizia l’onere di dirimere la questione, costui dopo aver interrogato Adriaan, che ammise la paternità dell’opera, ne sequestrò tutte le copie, ma non osò arrestarlo perché le motivazioni su cui si sarebbe basato presentavano degli “inconvenienti”. Visto che lo scandalo generato dal suo libro cresceva, Koerbagh decise di lasciare Amsterdam per Culemborg e una volta ultimato il trasferimento ne informò le autorità della capitale. Il colpo di scena ci fu il 10 o l’11 maggio del 1668, quando Johannes, che già da un anno era tornato ad avere problemi con il concistoro a causa delle sue tesi ereticali, fu arrestato senza preavviso dal Ufficiale di Giustizia e rinchiuso in carcere. A monte di un simile provvedimento non c’era tanto il fatto che le autorità si fossero lasciate convincere dalle pressioni dell’autorità ecclesiastica in proposito (ormai si erano abituati), quanto la scoperta che il fratello Adriaan aveva dato alle stampe una nuova opera, l’ Een Light, nella quale sviluppava la sua critica ai punti essenziali del cristianesimo, indicando ciò che secondo lui andava rifiutato e ciò che andava salvato. La pubblicazione dell’opera procedeva bene fino ai primi giorni di maggio, quando il tipografo di Utrecht, Everardus van Eede iniziò a mostrare chiare segni di reticenza nel pubblicare l’undicesima copia, a causa delle “opinioni singolari” che sosteneva. Per questo l’amico di Adriaan, Abraham van Berckel, decise di convocare Johannes proprio a Utrecht per aiutarlo a convincere il tipografo a concludere il suo lavoro, assicurando che l’opera sarebbe stata pubblicata solo dopo aver ricevuto l’autorizzazione del concistoro. Non solo il loro tentativo si rivelò vano, van Eede nel frattempo aveva pensato di avvisare il podestà della vicenda, il quale non perse tempo a contattare quello di Amsterdam, il quale, ordinò che fossero sequestrate le copie già in città e che Johannes fosse arrestato perché ritenuto il responsabile dell’opera.Contemporaneamente le autorità si stavano prodigando per rintracciare Adriaan e con il diffondersi della notizia, giunse al Consiglio Municipale una proposta di ricompensa in caso di consegna del fuggitivo, così per 1500 fiorini, un presunto amico consegnò Koerbagh alle autorità competenti (infamando in tale circostanze anche Van Berckel); così alle 6 del mattino del 18 luglio 1668, Adriaan fu arrestato a Leyda dalle autorità locali e spedito ad Amsterdam dove fu incarcerato la sera stessa. Il 20 luglio ci fu il primo interrogatorio; in tale circostanza Adriaan non esitò ad assumere su di sé l’intera responsabilità dell’opera, scagionando da qualunque imputazione tanto chi poteva venire coinvolto direttamente (come il fratello già in carcere e Van Berckel) quanto chi poteva esserlo indirettamente (come Spinoza); inoltre ammise le sue frequentazioni con Van den Enden e Jan Knoll. Egli precisò anche che il suo unico scopo era quello di insegnare alla gente a parlare correttamente, e riguardo alla tesi sull’origine divina di Gesù continuò a negare ogni coinvolgimento dei propri amici; dichiarò pure che Een Light voleva solo completare quanto già espresso nel Bloemhof, ma anche che avrebbe richiesto l’approvazione prima di procedere con la messa in vendita. Così, il 27 luglio, il podestà fece convocare Adriaan presso la camera della tortura e qui pronunciò la propria requisitoria nella quale richiedeva: amputazione del pollice destro, foratura della lingua con un ferro rovente, 30 anni di carcere, confisca dei beni, rogo delle opere e pagamento delle spese processuali; convinto vanamente che di fronte a simili posizioni Adriaan avrebbe ritrattato. Alla fine la corte si espresse condannando l’imputato a 10 anni di carcere ai quali ne sarebbero seguiti altri 10 di banno ad almeno un miglio da Amsterdam, ad una multa di 4000 fiorini da dividere a metà fra il podestà e i poveri della città e infine al pagamento delle spese processuali. Anche per Johannes ci fu una procedura analoga, ma l’imputato rispose che continuava ad attenersi a quanto già detto, confermando l’estraneità alle opere del fratello e precisando che solo motivazioni di carattere religioso avrebbero potuto giustificare la sua condanna. Meinsma precisa che lo stesso Bontemantel (cronista del processo) era di tale avviso, riteneva infatti insufficienti dei “discorsi sgradevoli”a far incarcerare e poi bandire una persona, anche perché Johannes era agli arresti già da 10 settimane e inoltre nei Paesi Bassi: «in assenza di riunioni pubbliche o di prove scritte, non ci si interessa troppo delle opinioni che ciascuno nutre riguardo alla Chiesa». Alla fine Johannes fu condannato ad un semplice obbligo di comparsa, ad un comportamento consono e alle spese processuali.
La prima fase della sua breve detenzione, Adriaan la scontò presso l’ex monastero delle clarisse di Heiligenweg, un luogo in cui, stando al resoconto di un viaggiatore inglese, le condizioni di vita per i detenuti erano durissime (vi erano rinchiusi per lo più assassini o affini, ai quali toccavano lavori forzati o punizioni corporali). Il 19 settembre però, fu improvvisamente trasferito altrove, ma le sue condizioni di salute erano divenute talmente precarie che morì nella prima metà dell’ottobre seguente. In seguito il nome di Johannes Koerbagh scomparì da tutti i verbali dei processi e dalle deliberazioni del concistoro; solo dal registro delle sepolture del cimitero di Nieuwe Kerk sapiamo che vi è stato sepolto l’11 settembre del 1672.
Aspetti generali del pensiero di Adriaan Koerbagh
Passando ad analizzare più da vicino quella che è la componente più eminentemente filosofica del pensiero di Koerbagh, in particolare per quello che emerge da Een Ligt, vanno subito precisate le finalità politiche della sua riflessione. Tanto in Un nuovo dizionario del diritto e nel Bloemhof, quanto in quest’ultima opera, la posizione di fondo dell’autore resta quella della necessità di educare del popolo (il vulgus) affinché potesse accedere anch’esso alla conoscenza vera e certa. Una simile affermazione però, poggia a sua volta su una premessa fondamentale: per Koerbagh tutti gli uomini erano dotati della ragione in egual maniera, senza distinzioni e per tanto tutti, se ben educati, potevano raggiungere la medesima condizione di sapienza. In virtù di tale ragionamento, emerge sin dalle fondamenta della sua riflessione, una forte divergenza rispetto alla linea spinoziana (che riprende l’averroismo) per cui rimane una distanza incolmabile fra i “saggi” ed il “popolo”. Da ciò risulta l’insensatezza di prodigarsi nell’immediato affinché anche la gente comune possa avere gli strumenti per accedere alla verità, giacché per sua natura non sarebbe in grado di coglierne l’essenza. In tutto questo è facilmente visibile la maggiore influenza cartesiana in Koerbagh e di conseguenza la sua maggiore vicinanza all’illuminismo.
Nel tentativo di perseguire tale fine, l’autore crea un ulteriore punto di rottura nei confronti dello spinozismo, ossia abbandona il latino per scrivere in nederlandese. Se da un lato una simile scelta favoriva senz’altro una maggiore fruibilità dell’opera, rendendola accessibile anche ai meno eruditi, dall’altro si rivelò un’arma a doppio taglio per l’autore, giacché, come si è visto nel paragrafo precedente, gli valse la persecuzione da parte delle autorità religiose di Amsterdam. Questa sua scelta avventata infatti, rappresentava qualcosa di troppo spinto anche all’interno di una tradizione tollerante come quella Olandese, perché rappresentava una grave minaccia all’ordine pubblico stesso. A tal proposito, la dura esperienza dell’espulsione dalla comunità ebraica di Amsterdam sarà valsa come esempio a Spinoza, circa l’inopportunità oltre che la vacuità, di ricorrere ad una simile forma espressiva.
Non sarebbe comunque corretto, ridurre tutto lo scalpore suscitato da Een Ligt in particolare, alla dimensione meramente linguistica, perché come sottolinea ancora una volta Meinsma, se l’argomentazione di Koerbagh si fosse limitata semplicemente alla sfera politica e morale, probabilmente oggi sarebbe celebrato come un’altra delle grandi menti dell’illuminismo e avrebbe facilmente riscosso grande ammirazione da parte di tutti i suoi contemporanei. Così non fu però, perché egli era altresì convinto che per produrre uno Stato in cui potesse affermarsi un ordine sociale fedele ai dettami della ragione, era necessario liberare il campo dall’autorità religiosa. Mosso da un simile proposito, Adriaan si avventurò nel territorio della teologia, deciso a scardinarne i fondamenti a colpi di ragione. È proprio per portare a termine questo compito che compose Een Ligt, per fronteggiare le autorità ecclesiastiche sul loro campo e dimostrare proprio attraverso il testo sacro, la Bibbia, l’infondatezza delle loro posizioni e vantaggio della sua analisi razionale dell’opera. Proprio in tale passaggio emerge un’altra differenza radicale rispetto alla filosofia spinozista, ossia l’idea per cui la Scrittura fosse parte della parola di Dio e per tanto una parte della verità, ma non solo, in virtù di ciò era anche suscettibile di un’analisi razionale (posizione analoga a quella di Meyer); mentre la posizione di Spinoza ammetteva che la Scrittura fosse letta solo alla luce della Scrittura stessa e che quindi fosse un testo secolarizzato, un testo come tutti gli altri. Un ulteriore tratto del pensiero di Koerbagh che ci permette di coglierne l’estremismo di fondo, in contrasto con la prudenza mostrata dal suo amico ebreo, senz’altro più saggio.
Ci sono però almeno altri due punti, altrettanto decisivi, rispetto ai quali le posizioni dei due personaggi che stiamo confrontando sono invece molto vicine, direi quasi sovrapponibili: la definizione di Dio (insieme a tutto il bagaglio di considerazione che questa comporta) e la sdivinizzazione della figura del Cristo.
Rispetto al primo punto, Koerbagh lo affronta proprio nel capitolo iniziale utilizzando le seguenti parole: «La prima cosa che tratteremo, sarà l’Essere, in ebraico Geova, che è semplice, unico, eterno, infinito, mai iniziato, onnipresente, indipendente, inalterabile, onniscente, onnipotente e sommamente perfetto», ma più spesso l’autore si riferirà a Dio con la perifrasi tutto in tutte le cose. Non è difficile cogliere la radice immanentistica che sta alla base di una simile definizione, da cui derivano necessariamente tematiche spinoziane come l’identità con la natura e con le sue leggi, l’infinità del tutto, l’impossibilità della creatio ex nihilo, la negazione del nulla, la coincidenza qualitativa di intelletto umano e divino (essendo il primo una forma stessa del secondo, ne è una parte integrante), la presenza di infiniti attributi in Dio, il dominio della necessità e la coincidenza di potenza ed essenza nella divinità. Sarà proprio facendo perno su queste posizioni squisitamente teoretiche, Koerbagh procederà un capitolo alla volta, un dogma dopo l’altro, a sconfessare in pieno tutte le principali affermazioni della dottrina dei teologi, che non coincide affatto con quello che fu il vero insegnamento di Gesù.
Passando ora al secondo punto, che viene trattato in maniera molto ampia, attraverso una lunga serie di esempi e di riflessioni specifiche sul testo sacro, nel capitolo III il cui titolo è appunto Gesù, il Salvatore. Come già specificato, la tesi di fondo è quella della negazione della natura divina del Cristo, che lungi dall’essere coincidente con la divinità (cosa contraria alla ragione in quanto non può esserci coincidenza tra finito e infinito), viene identificato come un semplice uomo dotato di uno intelletto straordinario. Di fatto Gesù non perde il proprio carattere di salvatore, vede solo riscritte le modalità attraverso cui conduce alla salvezza; d’altronde il concetto della Trinità è stato già demolito nel capitolo II. Secondo Koerbagh esistono molti modi di salvare una persona, dei quali il più importante è portare coloro che sono immersi nell’ignoranza, alla capacità di conoscere e giudicare attraverso l’uso della ragione, ed è proprio per essere stato un maestro che conduceva verso la via della conoscenza che Gesù va definito il Salvatore. È sempre per questo che va colto il vero senso della sua resurrezione, non in quella carnale, bensì nell’eternità che i suoi insegnamenti hanno guadagnato attraverso la scrittura dei Vangeli. Non viene quindi messa in dubbio la reale esistenza di questo grande personaggio, tuttavia ne vengono ridefiniti i connotati attraverso l’occhio attento della ragione, la quale non ammette dogmi di fede.
Analisi di uno dei passaggi fondamentali di Een Ligt
I sedici capitoli che costituiscono l’opera possono a loro volta essere suddivisi in tre ulteriori sotto gruppi:
- Capitoli I e II: che costituiscono il fondamento ontologico dell’intera riflessione di Koerbagh, giacché come si è visto almeno in parte, delineano i margini all’interno dei quali si articola l’intera opera;
- Capitoli III – VII: sono il campo di battaglia all’interno del quale l’autore da forma alla propria analisi secolarizzante della teologia e rappresentano contemporaneamente il fondamento della ragione nella propria analisi demitizzante;
- Capitoli VIII – XVI: analizzano questioni non essenziali del cristianesimo, tuttavia non per questo sono meno importanti perché vanno ad analizzare tutti quegli elemtni che fanno più presa sulla gente comune (Cielo, Inferno, profezie, angeli, demoni, spiriti, magia e miracoli).
All’interno di questo studio, vorrei concentrare la mia attenzione sul capitolo VI, Della religione, che oltre a rappresentare un passaggio fondamentale all’interno dell’opera, offre spunti di riflessione ben più ampi di quelli che il titolo stesso suggerisce.
Koerbagh inizia considerando il culto di Dio, o la religione, come il modo in cui ognuno cerca di onorare Dio in quanto essere supremo e di piacergli, e tenendo conto della già citata definizione che ne dà nel capitolo I, la vera religione non potrà che essere semplice e nascere dalla ragione. Ciononostante, l’uomo è ricaduto in una religione piena di superstizioni e invenzioni a causa dell’avidità e dello scarso interesse nei confronti della investigazione razione razionale, che caratterizza in primis quelle che si spacciano per “guide” del popolo (i teologi e gli ecclesiastici), mentre in realtà curano esclusivamente i propri interessi personali, facendo sì che vengano onorate divinità che non sono tali per natura. Inoltre, afferma l’autore, se tale condizione continua a persistere ancora oggi è anche per il fatto che nessuno ha mai cercato di presentare al popolo le Vera religione, conforme alla ragione, sottintendendo per altro, che sarà proprio lui ad assumersi una simile responsabilità proprio con questo testo.
A proposito di questa falsa religione dominante, Koerbagh ci tiene a precisare che è piena di rituali e usanze superstiziose che contengono non poche espressioni di violenza; tuttavia nessun popolo sarà mai in grado di analizzare razionalmente tale condizione, poiché tutti credono di essere gli unici depositari del culto più genuino e universale. Da tale situazione deriva il costante conflitto, sia ideologico sia armato, fra le varie confessioni che anziché concentrarsi nell’esaltare i punti comuni alla ricerca dell’armonia generale, non fanno altro che attaccarsi e accusarsi reciprocamente, mostrando coesione solo nel disprezzo comune a tutte per chiunque apra le porte alla tolleranza. L’unico giudice affidabile e imparziale che potrebbe dirimere una simile controversia è la ragione, sotto l’occhio attento della quale, finirebbero per emergere tutti i limiti e le incongruenze dei vari credo. Essa infatti, passandoli in rassegna tutti, rimprovererebbe rispettivamente:
- ai politeisti di non essere nemmeno riusciti a cogliere l’unicità di Dio;
- ai turchi (islamici) di aver posto Maometto sullo stesso piano di Dio;
- agli ebrei il carattere superstizioso dei loro rituali sacri, certamente invisi alla divinità;
- ai cattolici l’illegittimità del culto dei santi in primis, ma anche i tre dogmi principali della loro confessione, ossia la transustanziazione, la Trinità e l’origine divina di Gesù, tutti elementi contrari alla ragione, inoltre non risparmierebbe nemmeno il costante ricorso ai miracoli quali giustificazioni dell’origine divina del Cristo;
- ai riformati, ancora una volta la divinizzazione di Gesù e l’ostilità verso le altre sette riformate;
- ai sociniani e alle altre sette, sebbene riconoscerebbe che hanno fatto molti passi in direzione della religione razionale, l’essere rimasti vincolati alla natura divina del Cristo.
Di fatto è proprio contro i tre dogmi sopra citati che si scaglia più duramente la sua critica alle religioni secolari, soprattutto contro la divinizzazione del Cristo, senz’altro ancora il più diffuso, citando a tal proposito anche il passo biblico Is 45, 23 nel quale è chiaramente espresso che solo a Dio va reso l’onore divino, e questa legge è una verità eterna che nemmeno Dio stesso può modificare in base alla sua immutabilità.
La “personificazione” di quella ragione atta a regolamentare l’ambito religioso, per Koerbagh è l’autorità civile laica, il governo, l’unico ad avere il diritto e il dovere di emanare le leggi per il bene del popolo sia nell’ambito temporale che in quello spirituale. Tutto ciò però è possibile solo le Chiesa non agisce da contraltare all’autorità pubblica, per cui anch’essa dovrà essere sottomessa alla legge statale. Tale posizione concorda in pieno con quanto espresso da Spinoza nel capitolo XIX del Trattato teologico-politico, tuttavia entrambi questi pensatori la attingono dal grande filosofo politico inglese Thomas Hobbes che affronta la questione all’interno della sua opera il Leviatano, sottolineando proprio la necessità del dominio dell’autorità politica su quella ecclesiastica. Ditale testo inoltre, Koerbagh riprende anche la sua considerazione successiva, in base alla quale non espunge del tutto gli ecclesiastici dal corpus dello Stato civile, bensì riserva loro il compito di insegnare quanto prestabilito dall’autorità civile, che agisce conformemente alla ragione di Dio. Da ciò consegue che solo il governo deve avere l’autorità per nominare gli ecclesiastici, facendo dunque cadere l’autorità papale, quale possibile minaccia alla legittimità dell’autorità statale.
Si sta delineando un’organizzazione sociale in cui potere temporale e spirituale vengono ricondotti in uno sotto il governo, del quale va salvaguardata e garantita la purezza e l’autonomia; giacché lo Stato nasce per assicurare a tutti la giustizia e non può permettere che il suo potere sia ostaggio di discrimini religiosi. Giunto alla conclusione dl capitolo, Koerbagh si abbandona ad un elogio della concordia negli affari statali e della necessità di sostituire l’amore reciproco all’odio dilagante nelle questioni religiose. Questo ragionamento culmina nel rovesciamento della posizione di Machiavelli in un più congeniale alla concordia e alla lealtà pacta sunt servanda, le cui basi sono ispirate al tema spinoziano della fides, per cui se uno Stato perde la lealtà dei propri cittadini se li ritroverà contro, perdendo così la propria forza. In tal modo sottintende anche un’accusa diretta alla morale dei gesuiti che invece erano ostinati difensori della necessità di non prestare fede ai patti se ciò fosse stato fatto in vista di un bene superiore. A conclusione del capitolo, campeggia un’ennesima considerazione sulla razionalità intrinseca della Vera religione, la quale non avrebbe certamente bisogno della violenza per mantenersi, giacché risulterebbe massimamente amabile e credibile di per sé, e una unica, come unico è il Dio che la ispira.
Considerazioni conclusive
Al termine di questo breve studio svolto in riferimento ad alcune vicende biografiche e ad un’analisi generale dell’opera Een Ligt, poi scesa più nei particolari riguardo al capitolo VI, ritengo di poter concludere che è innegabile l’influenza esercitata dalla filosofia di Spinoza su questo autore, ma anche che non si può di certo parlare di una completa concordanza. Sebbene, soprattutto a livello ontologico, le posizioni siano estremamente vicine, per quel che riguarda gli sviluppi successivi, e soprattutto le finalità è facilmente riscontrabile una divergenza piuttosto netta, innegabile anche a livello formale. Potrebbero essere molteplici le motivazioni che hanno spinto Koerbagh a rischiare così tanto con la stesura di quest’opera, da un’eccessiva fiducia nella pluriennale tradizione tollerante dell’Olanda, a un’eccessiva irruenza legata alla giovane età, tuttavia emerge chiaramente una posizione ben più estrema di quella assunta da Spinoza e se vogliamo anche meno articolata e sistematica. Soprattutto perché resta sullo sfondo un’acuta osservazione espressa dal professor Omero Proietti rispetto proprio al capitolo VI di Een Ligt, ossia il fatto che sia proprio la componente hobbesiana all’interno del pensiero di Koerbagh, ossia la riabilitazione degli ecclesiastici, seppure sotto diverse funzioni, a “salvare” l’opera dal rivelarsi una timida affermazione ante litteram di una pratica totalitaria. Se infatti ci si limita ad affermare che la verità filosofica debba semplicemente rimpiazzare quella religiosa, si finisce per dirigersi più verso l’hegelismo che verso l’illuminismo, e Koerbagh rischierebbe di degenerare a livello di un mero sostenitore della necessità che siano i filosofi a prendere il potere negando e rimpiazzando temi dottrinali, il che non è di certo definibile un atteggiamento filosofico. Non bisogna mai perdere di vista il fatto che, se l’obiettivo finale rimane l’affermazione dell’ordine politico, fedelmente alla posizione di Averroè in proposito, l’ordine politico non coincide necessariamente con l’affermazione della verità. La correzione hobbesiana fa si che i teologi siano rispondenti all’autorità civile e non a quella dei filosofi, anche se sarebbe comunque auspicabile che i governanti siano dei filosofi.
Resta il fatto che l’esperienza di Adriaan Koerbagh sia da inserire a pieno titolo all’interno di quella “linea perdente” di pensatori che hanno combattuto la vera battaglia per l’affermazione dei fondamenti dell’illuminismo.