Spinoza e Anassimandro contro tutti

Nell’ultimo articolo dell’anno ci rivolgiamo, come tradizione, al nostro classico per eccellenza: Baruch Spinoza. In un recente articolo a firma di un nostro amico e collaboratore, viene ricordato il necessitarismo di Spinoza, nei confronti del quale cade la categoria di possibilità, intesa come realtà che deve ancora compiersi. Ma, aggiungiamo, cade anche la stessa categoria di determinismo la quale, se ammette il principio per cui ogni effetto è determinato da una causa, non esclude il prodursi di altri ordini o serie causali: in altre parole, il necessitarismo spinoziano implica non solo che il prodursi di un certo evento sia condizionato da un altro (principio di ragion sufficiente) ma che quello stesso evento non poteva non prodursi (per questo motivo si dice radicale). Questa distinzione (necessitarismo vs determinismo) ci suggerisce poi ulteriori specificazioni in merito ad altri indirizzi, termini o correnti della storia della filosofia.

L’obiezione nichilistica che l’attualismo rivolge a Spinoza
L’attualismo di Spinoza deve essere posto in correlazione con tutti quegli indirizzi di pensiero che hanno affermato i diritti dell’essere immanente e necessario, tra cui l’attualismo di Gentile. Tuttavia, quest’ultimo non riconosce in Spinoza una filosofia dell’immanenza ma gli attribuisce addirittura un pensiero che si risolve interamente in una prospettiva trascendente. Gentile riconosce che Spinoza abbia elaborato un pensiero che intende svolgersi nel piano dell’immanenza: ma questo grazie all’intuizione sul metodo, il quale non può esser altro dalla filosofia, ovvero non può essere qualcosa che si ponga fuori della verità. Questa identità di metodo e filosofia è la medesima identità di pensiero ed essere o, detto in termini spinoziani, la convenienza o adeguazione dell’idea vera con il suo ideato. Da ciò l’insistenza, nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, sulla tesi secondo cui la conoscenza dell’idea vera, a differenza di Cartesio, debba precedere quella del metodo e il conseguente passaggio dall’idea intesa come rappresentazione di qualcosa di esterno, all’idea come qualcosa di assolutamente reale. Il problema però, per Gentile, è che «non il soggetto per lui diventa signore della verità, ma la verità s’impadronisce del soggetto e lo risolve in sé». La conseguenza è che il soggetto attuale diventa una res cogitans: e come res, perde il suo carattere di attualità per acquisire quello di puro e semplice fatto. In tal modo, «tutto il vivo della vita si contrae e si impietra nell’essere intelligibile, nel mondo sub specie aeternitatis; e l’uomo con la sua speculazione aspira a quella morta quiete dell’Amor Dei intellectualis, dove non è più dolore perché non è più vita». Dietro queste parole, vere e proprie accuse al sistema della metafisica spinoziana, s’intravede non solo l’idealismo hegeliano ma il nichilismo gentiliano derivante dall’assumere il divenire come unica realtà ontologica.
L’attualismo spinoziano prevede invece (come è stato ricordato grazie alla coppia natura naturans/natura naturata) una duplice attualità: le cose sono esistenti sia perché hanno una durata determinata, cioè sono mantenute nell’esistenza da un’altra causa determinata (la quale non solo la pone nell’esistenza ma la determina anche in quanto la fa cessare di esistere), sia perché sono eterne. Nel primo caso le cose cessano di esistere perché sono distrutte e sostituite da altre cose finite che producono, nelle serie delle cause e degli effetti, nascita e morte. Ciò che esiste non esiste per virtù propria, ma sempre perché è determinato da cause esterne: questo è il primo modo di dirsi “attuale” delle cose. C’è poi il secondo senso dell’attualità, quello per cui le cose si dicono eterne, nel senso forte e fortissimo per cui le cose non potrebbero essere attuali nella durata se non fossero simultaneamente anche eterne.

In che senso le categorie modali vengono annullate?
Nell’articolo si sostiene che le categorie modali, nella prospettiva spinoziana, vengono annullate. Bisogna allora comprendere il significato esatto di questa espressione. La questione della modalità designa il problema della determinazione, tema che da Parmenide in poi costituisce il problema proprio della filosofia dal momento che è il luogo in cui si opera la fondazione del mondo.
La domanda a cui si deve risposta è: in che modo le cose che appaiono corruttibili sono determinate dalla causa prima incorruttibile? Per rispondere bisogna rivolgersi al principio generale per cui «L’essenza delle cose prodotte da Dio non implica l’esistenza» (E1P24), in quanto ciò la cui natura implica l’esistenza è causa di sé ed esiste per sola necessità della sua natura. I singoli enti sono qui esclusi per assurdo (è sempre straordinario constatare come per Spinoza le cose che sembrano più scontate siano fatte fuori con un cenno logico). La ragione è anche dovuta al fatto che i termini ente o cosa indicano un’ idea confusa, così come è spiegato nello scolio I di E2P40 (per Spinoza essi sono propriamente dei termini trascendentali, ovvero le affezioni generalissime sull’ente). L’ente o cosa indica un’idea o una rappresentazione mediante la quale ci riferiamo in modo estremamente vago a generi di cose che non riusciamo a conoscere, a memorizzare e a trattenere nella nostra mente in modo distinto, per cui identifichiamo tutto tramite essi. Il fatto che con il termine ente si designano delle idee confuse non significa che possiamo farne a meno, in quanto esso esprime la struttura della nostra mente come legge di natura: il nostro corpo può solo trattenere una parte di queste affezioni esterne e la nostra imaginatio, cioè la capacità di riprodurre cose che non sono presenti, dipende dal fatto che il corpo conserva le tracce delle affezioni di altri corpi in modo limitato. Il concetto di ente o cosa, fatta questa doverosa digressione, viene poi riammesso nel corollario di E1P24 dove Dio è detto essere non solo causa iniziante ma anche causa del perseverare nell’esistenza (ratio essendi), ovvero causa concomitante. Se una cosa esiste, ciò avviene perché Dio sta al suo fianco, è un comites. Questo stare a fianco delle sue creature da parte di Dio non avviene però perché Dio lo vuole ma perché Dio coincide con le sue stesse creature. Dire dunque che l’essenza delle cose “create” non implica né l’esistenza né la durata significa dire che esse dipendono soltanto da Dio. Questo significa che appartiene alla natura di Dio (alla natura, non all’intelletto e alla volontà) non solo esistere ma anche implicare nella propria natura tutto ciò che esiste. Dipendere da Dio non vuole dire altro allora che, se le cose finite sono tali in relazione a tutte le altre, esse sono infinite in relazione alla loro costituzione, cioè alla potenza della sostanza. I modi, intesi anche quei modi che sono gli uomini, non sono annullati bensì radicati in uno statuto ontologico inattaccabile.

L’infinito dispiegarsi degli enti finiti
Il senso definitivo della frase secondo cui una cosa è determinata da Dio ci viene dato solo in E1P28. Essere determinata da Dio, per una cosa singola, non significa essere determinata immediatamente dall’ente assolutamente infinito ed eterno, in quanto non ci può essere nessun rapporto tra loro, non essendovi proporzione tra infinito e finito. Il finito, per definizione, può esistere ed agire solo in quanto è determinato ad esistere da un’altra cosa finita, cioè da una causa prossima, la quale è determinata ad agire da un’altra causa prossima e così via: a questa catena viene data il nome di serie infinita delle cose finite, eterne e durevoli. Qui finalmente capiamo la determinazione da parte di Dio, un dio che ovviamente non può essere inteso come cosa finita. La serie infinita di cose finite non può istituirsi se non nel modo infinito mediato di ciascun attributo, che esprime a sua volta l’essenza di Dio: in questo senso si dice che tutto ciò avviene in Dio. Non c’è un luogo in cui le cose singolari e finite sono diverse dalla natura di Dio: dovunque c’è ente, c’è Dio, e l’ente non può essere separato da Dio. Si tratta di una proposizione la cui dimostrazione sta nel principio per cui l’infinito non può produrre immediatamente il finito. Il finito si deve e si può concepire soltanto come modificazione immanente dell’infinito, perché solo in quest’ultimo si trova la serie infinita di finiti. I quali, si ribadisce, sono finiti ma anche simultaneamente eterni e durevoli. Una posizione che, più che a Parmenide, rimanda a quella di Anassimandro e del suo apeiron secondo cui il fondamento di tutto è l’infinito che permette il dispiegarsi infinito dei finiti. Parola ardua questa di infinito, così aperta alle (infinite) manipolazioni della fantasia ma anche chiave per la comprensione razionale del Tutto. E con questo ci congediamo anche per quest’anno, augurando a tutti, sulle note di un altro dei tanti brani ispirati da quel filosofo di origine ebraica che ebbe “l’ardire di costruire Dio nella penombra”, un felice 2020.

 

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

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