Riferirsi ad uno stato di cose assunto come reale è il momento costitutivo del discorso in quanto discorso (per lo meno del discorso dichiarativo).
Se, infatti, il discorso non intendesse riferirsi ad una realtà autentica, cioè ad una realtà oggettiva, allora scadrebbe a sproloquio, cioè ad un dire vano ed evanescente.
La domanda che si impone, pertanto, è la seguente: quei significati, che il discorso assume come i propri referenti oggettivi – dunque come fondanti il proprio valere quale “discorso” –, possono venire considerati effettivamente emergenti sull’ordine del linguaggio, per valere quale realtà autentica, ossia per valere come effettivamente oggettivi?
Per rispondere alla domanda, proponiamo la seguente considerazione. Le determinazioni empiriche vengono ordinariamente considerate come costituenti la realtà, quella realtà che il discorso si incarica di riferire.
Se non che, esse, proprio in quanto “empiriche”, non possono costituire la realtà oggettiva, la quale può venire definita tale solo in quanto indipendente dal soggetto.
L’esperienza, di contro, è la relazione che vincola soggetto e oggetto, giacché il soggetto vale come il momento attivo del riferimento, cioè come referente, laddove l’oggetto vale come il momento passivo del riferimento stesso, come ciò che viene riferito.
In quanto tali, le determinazioni non soltanto sono intrinsecamente vincolate le une alle altre – dal momento che l’identità di ciascuna si pone solo in quanto si riferisce alla differenza costituita da tutte le altre determinazioni (su questo punto abbiamo insistito a lungo in numerosi articoli precedenti) –, ma altresì esse sono intrinsecamente vincolate al soggetto.
Ogni “dato” è tale perché dato al soggetto o, detto con altre parole, l’oggetto è “gettato davanti (ob-iectum)” al soggetto, sì che, se il soggetto non fosse, nemmeno l’oggetto sarebbe.
Ciò implica che le determinazioni vengono bensì assunte ordinariamente come i referenti oggettivi dei segni, ma in effetti non sono affatto “oggettive”: le determinazioni empiriche, o gli oggetti dell’esperienza, sono “oggettuali” e non “oggettive”.
Dipendono, cioè, dal soggetto che le rileva e non sono affatto indipendenti da esso, proprio in ragione del fatto che vengono rilevate mediante il processo percettivo.
Quest’ultimo si costituisce come un processo di elaborazione delle informazioni veicolate dagli stimoli sensoriali provenienti dall’ambiente, formato da agglomerati di materia/energia.
Le determinazioni empiriche, pertanto, si presentano come percetti e il campo percettivo si configura non soltanto mediante il processo bottom-up, guidato dai dati, ma anche mediante il processo top-down, che è guidato dai concetti o dalle categorie.
Il campo percettivo, insomma, è formato da percetti che vengono “identificati” mediante il processo della categorizzazione, cioè mediante l’applicazione di categorie che consentono di assegnare ad ogni percetto un codice, ossia un “nome”.
In tal modo, le determinazioni empiriche diventano dei significati e ciò non fa che attestare che esse non sono affatto esterne al riferimento semantico: in quanto “significati”, le cose sono momenti del discorso.
La considerazione teoretica, tuttavia, non si accontenta di questo approdo. Essa si interroga sul valore del significato o, si potrebbe anche dire, sul significato del significato.
Ciò che emerge dalla domanda di verità, posta appunto dalla considerazione teoretica, è quanto segue: i significati sono tali solo in quanto si riferiscono.
Essi non soltanto si riferiscono ai segni corrispondenti, costituendo le relazioni semantiche, ma altresì ciascun significato si riferisce ad ogni altro significato, giacché ciascuno si identifica come “quel” significato precisamente perché si differenzia da ogni altro.
Siamo così al nocciolo della questione. Poiché la caratteristica dell’“essere riferendosi” è propria del segno, come si potrà evitare di riconoscere che, in fondo, sono dei segni anche quelle determinazioni empiriche che vengono assunte, invece, come significati?
In tal modo, l’universo dell’esperienza ordinaria si rivela un sistema di segni, dunque un universo linguistico, sì che non si dà un linguaggio o un discorso sul mondo, poiché il mondo è intrinsecamente linguaggio (discorso).
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