Non c’è peggior cosa che vedersi talmente piccoli da sentirsi schiacciati e inutili. L’eco-ansia, ad esempio, è una forma riconosciuta di immobilismo che porta nelle persone disturbi di carattere emotivo e relazionale, a causa della gigantesca portata distruttiva dei cambiamenti climatici. Più in generale, è una condizione umana tipica che nel nostro mondo globalizzato, sempre in vetrina e in una situazione di iper-informazione, può alimentarsi e crescere. All’interno di questa “bolla” i maggiori problemi, quelli che coinvolgono a vari gradi tutti gli strati sociali, sembrano insolubili. Il futuro non appare incerto, piuttosto assume la forma di una minaccia.
La reazione a questa condizione è ciò che differenzia il nostro entrare in rapporto sia con le minacce (reali, inventate, sopravvalutate o sottovalutate che siano), sia con il nostro essere parti in causa di tali minacce. Sono due le vie praticabili: a) lavorare per una rivoluzione, quindi pensare di poter anestetizzare la caduta con il rovesciamento dei sistemi politici e culturali che hanno provocato la minaccia; b) riappropriarsi dei corpi e della loro situazionalità, restituendogli un dominio di azione. Questa seconda è la tesi di Miguel Benasayag e Bastien Cany che nel loro recente Corpi viventi. Pensare e agire contro la catastrofe (Benasayag-Cany 2022) provano a liberare la razionalità dell’individuo moderno dal proprio esilio, per tornare alla centralità del corpo non in quanto espressione singolare bensì come interfaccia con il vivente.
Dall’individuo al profilo
La fine della modernità (e il contestuale avvento di un’epoca di post-modernità) ha decretato anche la fine dell’individuo moderno. Questo è caratterizzato da un dispositivo che più volte su queste pagine abbiamo richiamato, ovvero «la diade “individuo-soggetto”/“mondo-oggetto”. L’uomo soggetto della sua storia nasce dalla fede nell’incompletezza del mondo. Il suo compito sarebbe quindi quello di compiere se stesso portando a compimento il mondo» (Benasayag-Cany 2022, 33). Un mondo, ovviamente, delineato all’interno di rigide leggi di natura e matematiche che, potremmo dire con Bergson, è dato in una volta sola. L’individuo post-moderno è in realtà un profilo, è un insieme di capacità e proprietà nel quale la diade è, se possibile, ancora più marcata. La forbice si è talmente aperta che egli non riesce a trasformare il mondo, il suo unico scopo è far sopravvivere «la speranza di farsi ancora un posto in esso. Per tale individuo “diventato individuo indivisibile”, la vita non è più un destino collettivo, ma una storia personale» (Benasayag-Cany 2022, 35).
Dal futuro promessa al futuro minaccia
Allo stesso modo, la fine della modernità (avvenuta già con la crisi delle scienze di inizio Novecento, l’irruzione della fisica quantistica, le geometrie non euclidee, etc.) ha portato alla fine di un pensiero teleologico nel quale si era convinti che tutto fosse rappresentabile e prevedibile. L’imprevedibilità, invece, faceva il suo ingresso sul palcoscenico mondiale, sia scientifico che politico, scaraventando in aria tutte le sicurezze fideistiche costruite nell’esilio razionalistico dell’individuo moderno. Il “futuro promessa”, ovvero l’idea per cui ciò che stava arrivando era necessariamente uno sviluppo positivo di ciò che si stava vivendo, si era trasformato in un “futuro minaccia”: «nel senso comune la minaccia ha spazzato via tutto: l’uomo è progressivamente passato dallo statuto di profeta e messia a quello di barbaro distruttore del suo ecosistema, così come delle culture e civiltà che aveva travolto in nome del progresso. […] l’uomo che doveva sottomettere la natura alla sua volontà è apparso come il principale protagonista della storia della sua propria distruzione, che assumerà presto un nome: antropocene» (Benasayag-Cany 2022, 43-44).
La realtà e il vivente
I due estremi che abbiamo qui sopra descritto hanno, nonostante la loro distanza, dei punti di contatto. In entrambi i casi, infatti, il soggetto non viene mai totalmente inserito all’interno di una dinamica vivente; esso, piuttosto, se ne separa come a voler marcare una differenza non solo quantitativa ma anche qualitativa da tutto il resto.
A partire da questo presupposto e all’interno di una ontologia dinamica, di radice bergsoniana ma che richiama espressamente l’evoluzione francese (deleuziana soprattutto) del pensiero di Spinoza, Benasayag e Cany ritornano a un’antica idea di neutralità del reale. Il mondo è un continuum di divenire che, di per se stesso, non è né negativo né positivo, è quello che è: il costante accrescimento di una dimensione dal suo interno, il procedere continuo di un’autoproduzione. Dentro questa continuità il molteplice è l’apparire della continuità stessa (la piega, avrebbe detto Deleuze) e il vivente non è un molteplice fra i molteplici, il vivente è – con Whitehead – l’apparire stesso. Scrivono: «contrariamente ai sostenitori delle tesi vitalistiche o meccanicistiche alla ricerca di un “primo motore”, non consideriamo il vivente come l’apparire di qualcosa: il vivente è l’apparizione stessa» (Benasayag-Cany 2022, 90).
L’unità del vivente è dunque condizione trascendentale all’emersione del vivente stesso, la realtà ora è «un campo ove il tutto è in ogni parte» e la materia non rappresenta il polo passivo di una diade in cui un altro elemento si caratterizza per essere quello positivo. La dinamicità del vivente, del biologico, è data dalla sua unità sostanziale che non è mai ferma ma in costante relazione con il proprio apparire.
Ciò che traduce, dispiega e intensifica questo processo dinamico, sono i corpi; corpi viventi che non possono essere ridotti all’insieme delle proprie parti (come invece sono spesso pensati dalla medicina e da un retaggio moderno di intendere il corpo-macchina) ma si aprono a una incessante relazione con le pieghe corporee che gli sono più o meno vicine. Per questo la realtà è viva, perché è il vivente stesso a costituirla.
Pensare e agire
I due autori sostengono che l’azione sia il mezzo attraverso cui il vivente si esprime nel reale, l’azione è ciò che permette di spiegare il reale, ovvero aprire le sue pieghe. Poiché il vivente stesso, in quanto dinamicità inesauribile, è agire, è modificazione. L’azione è dunque la chiave di apertura verso un’infinità (il vivente) che si abita da sempre, verso un «comune» che ci appartiene, una «trascendenza nell’immanenza» che ci fa sperimentare la non coincidenza di sé a sé. Ogni corpo, infatti, percepisce sé e una mancanza, una tensione, un conatus, verso il «comune»: «non c’è possibile accesso al comune senza accettare quella faglia esistenziale data dalla parte intensiva che fa sì che il mio corpo, in quanto mia situazione, non si limiti mai al mio corpo» (Benasayag-Cany 2022, 199).
Le barriere dell’io vengono dunque abbattute da quella componente che spesso è stata descritta come la prigione della razionalità, il suo limite. In questa prospettiva immersiva, invece, il corpo è il territorio e la mappa è solamente una traccia ideale e funzionale. L’azione, dunque, rappresenta la tensione sulla quale premere per indirizzare il futuro e non renderlo né una promessa né una minaccia. Un’azione, però, che sia situazionale, ovvero che tenga conto della “situazione del mio corpo”, del suo sentirsi sé e non sé, contestualmente immanente e trascendente, consapevole che le azioni non generano mai un cambiamento «nell’immediatezza illuminante di una teoria, mai nei processi multipli e contraddittori di lunga durata. Si potrà obiettare che c’è urgenza. Ma rispondere, almeno in parte, all’urgenza comincia proprio con il fatto di resistere alla tentazione di non perdere tempo» (Benasayag-Cany 2022, 252). E allora, il primo passo per agire sarebbe, almeno, tornare dal nostro esilio per aprirsi definitivamente alla molteplicità intensiva dei corpi viventi.
Riferimenti bibliografici
Benasayag, Miguel et Cany, Bastien. 2022. Corpi viventi. Pensare e agire contro la catastrofe. Milano: Feltrinelli.
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