Lo scorso luglio è uscito su Il Post, un interessante articolo di Antonio Russo dal titolo Quanto è libero il libero arbitrio? nel quale una tematica tanto cara alla discussione filosofica veniva approcciata da una prospettiva via via sempre più ricercata: quella delle neuroscienze. Il casus belli è la singolare esperienza vissuta dal neuroscienziato statunitense James Fallon che, mentre studiava per individuare tratti anatomici comuni fra i cervelli di assassini psicopatici, ha scoperto di essere a sua volta portatore di un profilo genetico analogo ed ha visto entrare in crisi il proprio modello etico improntato al più ferreo “determinismo genetico”. Come si può gestire un simile verdetto sulla propria natura? E soprattutto, come si può farlo all’interno di un mondo ricco di studi intenti a dimostrare quanto la componente genetica sia determinante per il comportamento degli individui come le neuroscienze?
Il corpo come radice del comportamento
Prima di addentrarci nel nucleo filosofico della questione ivi considerata, è interessante andare a considerare alcuni casi studio riportati da Russo nel suo articolo, a sostegno del profondo legame che unisce la dimensione fisica dell’individuo al suo profilo comportamentale.
Il primo riguarda la curiosa vicenda di un capocantiere della metà dell’Ottocento che a seguito di un incidente nel quale aveva riportato seri danni al lobo fontale del proprio cervello, aveva subito una mutazione della personalità tanto marcata da risultare pressoché irriconoscibile (asocialità, irriverenza e volubilità sono solo alcuni dei nuovi tratti emersi dopo l’accaduto). Il secondo invece, quella di un docente che d’improvviso ha iniziato a sviluppare atteggiamenti sessualmente molesti, anche contro i minori, e al quale poco prima di venire condannato al carcere proprio per tale condotta, è stato diagnosticato un tumore nella parte anteriore del cervello. Operato d’urgenza, l’individuo ha visto scemare rapidamente tutte quelle inclinazioni che gli erano valse la condanna, senonché dopo qualche tempo queste sono riemerse, ma con esse era tornata anche la massa tumorale che ha richiesto un secondo intervento.
Se dal primo caso si può dedurre un chiaro legame tra la parte frontale del cervello e quegli aspetti del carattere che ci permettono di vivere in relazione con gli altri, è senz’altro il secondo caso a destare l’interesse maggiore, soprattutto perché va ad intersecarsi con una sfera molto particolare come quella del diritto. Come deve comportarsi il mondo giudiziario di fronte a casi del genere? Quale ruolo devono giocare analisi e perizie neurologiche in un processo che chiede conto ad un imputato di un comportamento ostile alla società? Se è vero che la normalità intesa come archetipo del comportamento di un individuo non esiste, il rischio di riconoscere a livello giuridico il carattere predeterminante della dimensione biologica ci porterebbe gioco forza a rendere le questioni giudiziarie più che altro questioni di genetica. Infatti, a quel punto tanto i casi di crimini eclatanti, quanto quelli di più lieve entità come un furto finirebbero per cadere sotto il dominio di una predeterminazione individuabile solo a mezzo della scienza; con il clamoroso esito che alla fine ad essere giudicate non sarebbero più le azioni degli individui bensì il loro DNA. La questione qui viene posta in chiave leggermente provocatoria, eppure è già da tempo affermata in sede di processo la pratica che spinge la difesa a far leva proprio sul carattere innato dei lati più oscuri della personalità umana. Che sia solo un espediente per risparmiare agli imputati pene più severe oppure il desiderio di destinaregli stessi a strutture che siano effettivamente in grado di gestirli e riabilitarli alla società civile, ai fini della nostra indagine poco cambia; qui infatti la questione è e rimane: siamo davvero responsabili delle nostre azioni?
Carattere innato e cause esterne
A proposito di tale questione si era già espresso con grande chiarezza ed efficacia uno dei più grandi filosofi dell’Ottocento europeo: Arthur Schopenhauer. Fra le pagine del suo saggio La libertà del volere umano infatti – opera che gli valse anche un premio da parte della Reale Accademia di Tordheim nel 1883 – c’è molto da imparare riguardo alla natura umana e agli spazi della sua libertà. Innanzitutto, per il filosofo tedesco ogni azione, ogni movimento, è una questione di causalità, dove per causa s’intende: «Il mutamento precedente che rende necessario il successivo» – senza dimenticare che – «Nessuna causa al mondo produce il suo effetto o lo trae dal nulla» ((A. Schopenhauer, La liberta del volere umano, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 90.)). Per l’intelletto umano d’altronde, è del tutto possibile acquisire una qualsivoglia forma di coscienza di alcunché al di fuori di tale categoria, che insieme a spazio e tempo si pone come la condizione di possibilità affinché possa instaurarsi un rapporto fra noi e il mondo circostante. Laddove non si riesce ad individuare una causa infatti, per la nostra mente è pressoché impossibile una vera comprensione, poiché viene meno la ragion sufficiente del suo esserci, la necessarietà del suo darsi. Andando a cercare all’interno della natura umana tale ragion sufficiente, Schopenhauer vede che si articola in due elementi profondamente interconnessi fra loro: un’energia originaria interna ad ogni essere che ne permetta il mutare, e una causa esterna che permette a quell’energia di manifestarsi qui e ora. Il primo coefficiente, in quanto estraneo alla categoria della causalità, risiede in un ambito del tutto insondabile per l’uomo, e ne costituisce quell’a priori predeterminante che il filosofo al tempo ha chiamato Volontà, ma che ai nostri occhi non sembra differire poi di molto dai geni di cui sopra. Tale forza inspiegabile, continua Schopenhauer, che ciascuno di noi conosce dall’interno perché la volontà è l’unico vero oggetto dell’autocoscienza, varia da individuo a individuo, come dimostra chiaramente il fenomeno per cui persone diverse reagiscono diversamente alle stesse sollecitazioni, e in ciò evidenzia quella qualità ch’egli definisce il carattere. Questo elemento che è diverso in ognuno di noi, non solo è immutabile e si rivela solo attraverso l’esperienza che ognuno fa di se stesso nel corso della propria vita (in questa peculiarità Schopenhauer catalizza tutta la difficoltà di ogni individuo per conoscere se stesso), ma soprattutto è innato, cioè coessenziale al nostro essere noi stessi. Se dunque, ogni azione non è che il prodotto dell’interazione fra una causa esterna che nel caso dell’uomo possiamo chiamare motivazione e del carattere del singolo individuo che si trova a vivere la situazione che produce tale motivazione, e su entrambi questi coefficienti egli non può esercitare alcuna potenza, ecco allora che la conclusione si trae da sé: ogni agire è necessario. Se le cose stanno così però, che ne è della responsabilità individuale? Le azioni di quel docente pedofilo dovrebbero ricadere nella categoria dell’impunibilità perché non fu lui a macchiarsi di un reato bensì i suoi geni, o come avrebbe detto Schopenhauer della sua essenza? Trarre una simile conclusione equivarrebbe a demolire ogni stato di diritto. Cosa fare dunque? Il filosofo tedesco risolve la situazione facendo una precisazione fondamentale: l’incontrovertibilità dell’azione è tale solo per il soggetto che ne è fautore, perché sebbene dalla sua posizione non fosse possibile agire diversamente è altrettanto vero che altri avrebbero potuto farlo perché non tutti coloro che si trovano in una situazione promiscua si macchiano di un reato. Perciò, si viene a verificare una situazione per certi versi molto prossima a quella della tragedia di Antigone, avere un destino, o un’essenza, che ci predeterminano a priori, forse ci assolve dalla colpa ma non fa altrettanto quanto alla responsabilità. Quest’ultima infatti resta percepita e percepibile proprio in virtù di quel legame tutto individuale che lega ogni individuo al suo agire.
Conclusione
Operari sequitur esse dicevano gli scolastici, è la tua essenza che determina le tue azioni, ma la sua inconoscibilità non può fare altro che portare all’instaurazione di rapporto analogo a quello fra il fenomeno e il noumeno anche tra l’azione e la volontà. Mentre la prima segue le regole della ragione (che per Schopenhauer poi coincide con il cervello) e quindi è soggetta al principio di ragion sufficiente, la seconda si pone come quello scarto insondabile che costituisce il mistero stesso dell’essere umano, eternamente condannato ad oscillare fra l’illusione di una libertà che non c’è e la consapevolezza che la parte più decisiva del nostro essere noi ci è inaccessibile. Una simile conclusione potrebbe risultare di scarso aiuto al professor Fallon, che nonostante il proprio patrimonio genetico non si è ancora macchiato di alcun crimine, ma di certo allevia di molto il peso di coloro che potrebbero doversi trovare a fare i conti con un caso analogo. La scienza può certamente svolgere un ruolo insostituibile nel determinare quali tratti specifici dell’essenza di un individuo abbiano portato al realizzarsi di una certa azione criminosa – e un domani chissà magari anche a fare una schedatura preventiva di tutti coloro che avendo un certo corredo genetico si presentano come persone a rischio ((Cosa che per certi versi è decisamente deprecabile, sia perché apre a scenari in cui il potere centrale viola qualsiasi forma di privacy (perfino quella di essere chi si è a prescindere dal proprio corredo genetico) in nome di una millantata maggior sicurezza, sia perché l’adozione di una pratica del genere porterebbe inevitabilmente al diffondersi di un caccia alla streghe per cui chiunque possieda certi geni sarebbe gioco forza giudicato in virtù di essi prima ancora di aver avuto modo di mostrare che magari non basta avere un bisnonno assassino per esserlo a propria volta.)) – ma in ultima istanza, non c’è gene che possa salvare un uomo da se stesso, così come nessun gene salvò Antigone. Se dunque la vita intera non è che una questione di necessità, allora non resta che vedere chi siamo destinati ad essere.