Il rapporto tra la realtà e il discorso (II)

Introduzione
Per riprendere quanto è stato affermato nell’articolo precedente, diremo che il discorso è sempre rivolto alla realtà, ma quella realtà che viene riportata (riferita, detta) mediante il discorso è una realtà fatta di semantemi, i quali non eccedono l’universo del discorso.

Da un lato, dunque, il mondo delle determinazioni empiriche si rivela un insieme di segni (giacché anche i significati altro non sono che segni, come abbiamo già cercato di dimostrare); dall’altro, quell’insieme di segni che è il discorso non può non intendere di dire ciò che permane, però, indicibile: la realtà nella sua oggettività.

Per questa ragione, il discorso non potrà mai concludersi. Anzi, il discorso, nel suo inesauribile configurarsi, costruisce il mondo, nonostante che la sua intenzione originaria non sia poietica, ma conoscitiva, ossia teoretica.

Intenzione e progetto del dire
L’antilogia intrinseca al discorso – riassumiamo così quanto detto in precedenza – può venire riscontrata tra l’intenzione che lo costituisce e il progetto che lo determina. L’intenzione è di attestare la realtà così come questa effettivamente è, giacché solo la cosa stessa può valere come autentico fondamento. Proprio per questa ragione, il discorso intende eliminare ogni apporto estrinseco alla cosa, affinché questa possa venire restituita nel suo essere. Più precisamente: il discorso, intendendo di non aggiungere alcunché alla cosa, intende propriamente togliersi in essa, coincidendo con essa e risolvendosi interamente in essa.

Di contro, il progetto si esprime come volontà di riferire la cosa trasferendola nell’ordine sintattico-semantico, in modo tale che la determinatezza del discorso consenta di porre la determinatezza della cosa. Se non che, la cosa, allorché viene determinata, cessa di essere “oggettiva”, cioè indipendente da vincoli (reale in sé e per sé, assoluta), così che non può più valere quale fondamento del discorso. Se determinata, infatti, la cosa scade a semantema, ad una delle molteplici determinazioni semantiche che si vorrebbe considerare come indipendenti dal discorso, ma che, all’inverso, sono poste in essere proprio dal discorso.
Ne consegue che, se l’intenzione impone al discorso di adeguarsi alla cosa fino al punto di negarsi come discorso onde evitare di imporre ad essa una qualche trasformazione che la altererebbe, il progetto capovolge l’intenzione, poiché fa essere la cosa nei modi e nelle forme del discorso.

A rigore, pertanto, ciò che l’intenzione nega è la relazione tra il discorso e la cosa, stante il fatto che tale relazione decreta l’irriducibile differenza tra di essi, cioè l’impossibilità che il discorso sia tutt’uno con la cosa. Tale relazione, inoltre, riduce la cosa a determinazione, perché l’assume come termine di quella relazione, che si instaurerebbe tra la cosa e il discorso.

Con questo approdo: quella relazione, che posta tra cosa e discorso mantiene la dualità e dunque l’alterità dell’una rispetto all’altro, deve invece venire pensata come intrinseca al discorso. Per poter cogliere il senso di questa affermazione, si impone la necessità di riflettere sul concetto di relazione.

Solo se si intenderà il vero senso della relazione, infatti, si potrà intendere veramente la relazione tra il discorso e la cosa, essenziale per cogliere il discorso nel suo autentico significato.

Il concetto di relazione
Come definire, allora, il concetto di relazione? Ordinariamente, quando si parla di relazione si intende un costrutto formato da due termini estremi (“A” e “B”) e un nesso (r) che li vincola. Per questa ragione si parla di costrutto mono-diadico e lo si esprime nella seguente formula: r (“A”, “B”).
Il costrutto relazionale svolge una funzione insostituibile, perché organizza la struttura dell’esperienza. E tuttavia, esso si è rivelato un costrutto problematico. La sua problematicità emerge perché, se la relazione è pensata come intercorrente tra “A” e “B”, allora essa si propone come un nuovo termine, un quid medium, che tanto unisce “A” e “B”, quanto divide “A” da “B”. Se questo medio lo indichiamo con la lettera “C”, allora si vengono a configurare due nuove relazioni: quella intercorrente tra “A” e “C” e quella intercorrente tra “C” e “B”. Dalle due nuove relazioni originano due nuovi medi, e così via all’infinito.

Ebbene, proprio l’inconcludenza di un regressus in indefinitum viene evidenziata da Platone nel Parmenide, allorché l’Eleate riflette sulla relazione tra i modelli ideali e le cose (Platone 2003, 130e – 132b), e Aristotele nella Metafisica accenna più volte all’argomento del terzo uomo, intendendo il carattere aporetico del concetto platonico di “partecipazione” (Aristotele 1978, I, 9, 990b 1-18), in quanto esso – ci sentiamo di aggiungere – venga ridotto al concetto ordinario di relazione.
La domanda che ci poniamo è la seguente: nel caso della relazione, intesa come costrutto mono-diadico, si ha a che fare con un’aporia o, piuttosto, con un’antilogia, cioè con una contraddizione vera e propria? Prima di procedere con l’argomentazione, ricordiamo che la contraddizione deve venire intesa nel senso del dicere et non dicere (non nel senso del dicere contra, che configura una contrapposizione, piuttosto che una contraddizione). Un costrutto, pertanto, risulta contraddittorio quando toglie ciò che pone: più precisamente, quando toglie nel porre.

Ricordiamo, inoltre, che la “contraddizione” deve venire distinta, secondo quanto indicato dallo stesso Aristotele, dalla “contrarietà”. Parlando dell’opposizione, lo Stagirita afferma che “contrari” sono quei termini che ammettono termini intermedi (ad esempio, il bianco e il nero, che ammettono una gradazione di grigi); “contraddittori” quelli che non li ammettono (ad esempio, bianco/non bianco). I contraddittori, dunque, danno luogo ad un’alternativa che, per così dire, divide in due sezioni il campo del reale: il “qualcosa” cade necessariamente nell’uno o nell’altro dei due campi (Aristotele 1978, X, 7, 1057a 18-32).

L’alternativa è, quindi, una relazione disgiuntiva esclusiva (aut, aut) e la conciliazione dei termini è impossibile. Tale conciliazione costituisce, appunto, una contraddizione, la quale altro non è che la conciliazione di inconciliabili.

Ebbene, per rispondere alla domanda dianzi formulata, muoviamo dalla seguente considerazione: la relazione postula l’identità dei relati (“A” e “B”) e la postula secondo la forma in cui l’identità viene ordinariamente concepita e cioè tale che tanto “A” quanto “B” risultano ciascuno identico con sé stesso e per questo differente da ogni altro. “A” e “B” sono due identità, cioè due realtà che esibiscono una propria autonomia e autosufficienza, tant’è che possono venire assunte l’una a prescindere dall’altra.
Se così non fosse, se ciascuna identità non potesse venire considerata per la sua autonomia, non potrebbe nemmeno venire codificata e non si potrebbe dire “A” né si potrebbe dire “B”.

Se dico “A”, insomma, allora con tale lettera indico un’identità che si pone indipendentemente da altro e lo stesso vale per “B”.
Se non che, è proprio a muovere da questo punto che si configura il problema. La relazione, infatti, viene a conciliare due esigenze che non possono non escludersi reciprocamente: da un lato, essa postula l’identità dei relati; dall’altro, richiede che l’identità dell’uno non sia chiusa, cioè autonoma e autosufficiente, ma sia aperta all’identità dell’altro, onde giustificare il loro vincolo. Ma è bene il vincolo che non si concilia con l’autonomia delle identità, nel senso che, se “A” è “A” perché autonomo, nel momento in cui entra in relazione con “B” perde la sua autonomia e, dunque, cessa di essere “A”. Se non venisse meno come “A”, nessuna relazione si sarebbe instaurata.
Su questo aspetto insiste lo stesso Duns Scoto, il quale afferma che, se l’unione di “A” e “B” esprime non altro che gli stessi “A” e “B” assoluti, cioè autonomi e autosufficienti, allora il composto di “A” e “B” non differisce in nulla da “A” e “B” separati, così che non è un composto affatto: la relazione, insomma, non si è effettivamente instaurata (Duns Scoto 1950, II, d. 1, q. 4, n. 5).

Per trovare una soluzione al problema indicato, e cioè per evitare che il costrutto risulti contraddittorio, si potrebbe ipotizzare che “A” è “A” prima di entrare in relazione con “B” e diventa “A1” dopo essere entrato in tale relazione (e lo stesso vale per “B”, che diventa “B1”). In questo caso, tuttavia, si riproporrebbero due nuove relazioni: quella tra “A” e “A1” e quella tra “B” e “B1”. Così, la difficoltà precedentemente rilevata tornerebbe a riproporsi, perché tanto “A” quanto “B” dovrebbero valere come due identità che, pur essendo richieste come autonome, non potrebbero evitare di porsi in forza del rapporto ad altro (in questo caso, in rapporto alla propria identità trasformata dalla relazione).

La relazione, pertanto, richiede i termini come se fossero due identità distinte e autonome (“A” non è “B”), ma, insieme e contraddittoriamente, come se l’un termine si fondasse sull’altro (“A” c’è perché c’è “B”; “A” non può stare senza “B”). Che è come dire: il costrutto mono-diadico concilia l’indipendenza dei termini con la loro reciproca dipendenza e, cioè, concilia ciò che è in sé inconciliabile (cfr Stella 1994; Stella 1995).

Come uscire dalla difficoltà? L’unica possibilità sembrerebbe questa: intendere tanto l’indipendenza quanto la dipendenza dei termini in senso relativo. Assumere l’autonomia e l’autosufficienza dei termini in senso assoluto, infatti, è precluso non solo dal fatto che essi sono in relazione, ma anche dal fatto che “A” e “B” sono determinati e ogni identità si determina solo perché si differenzia, come abbiamo cercato di mostrare. Non di meno, una qualche forma di indipendenza dei termini deve venire mantenuta, se si intende distinguere “A” da “B”. La soluzione, come detto, parrebbe quella di considerare l’indipendenza solo relativa.

Reciprocamente e scambievolmente, anche la dipendenza dei termini non può valere come assoluta. Se fosse assoluta, allora l’un termine si capovolgerebbe immediatamente nell’altro, si con-fonderebbe con l’altro, così che entrambi verrebbero meno, venendo meno la determinatezza di ognuno (che poggia sulla loro identità e che consente di distinguerli), e verrebbe meno, a fortiori, anche la relazione. Se ne conclude che anche la dipendenza andrebbe intesa in senso relativo.

A questo livello di indagine, dunque, il costrutto relazionale viene mantenuto postulando che la relativa indipendenza dei termini possa venire conciliata con la loro relativa dipendenza. Tale conciliazione può venire espressa anche così: i termini devono differenziarsi, ma la condizione del loro differenziarsi è precisamente il nesso che li vincola, stante che la differenza è essa stessa una relazione; i termini, inoltre, devono relazionarsi, ma la condizione del loro connettersi è precisamente il loro mantenersi distinti, il loro essere irriducibili l’uno all’altro, stante che, solo se permangono due, la relazione può configurarsi come medio.

In sintesi e per quanto possa apparire paradossale: la relazione vincola perché distingue e distingue perché vincola. Questa è la sua intrinseca problematicità. La conciliazione della relativa indipendenza e dipendenza dei termini impone, allora, che la relazione venga intesa non come uno status, cioè in senso statico, ma in senso dinamico. Cosa significa ciò? Significa riconoscere che la relazione non può venire ridotta a costrutto, ma deve venire intesa come atto.

La relazione è l’atto del riferirsi di ciascun termine (determinazione), così che ciascuna determinazione è il proprio andare oltre sé stessa, il proprio oltrepassarsi, in modo tale che si rivela un segno. La natura del segno, infatti, è l’essere riferendosi, l’essere rinviando (ad altro).

Per concludere
Tra la cosa e il discorso, quindi, non si instaura una relazione, intesa come costrutto, se il discorso intende davvero dire la cosa nel suo autentico essere. Piuttosto, la relazione deve venire intesa come ciò che caratterizza l’essere stesso del discorso. Essa, insomma, entra nella costituzione intrinseca del discorso e vale come mediazione in atto della sua parvente immediatezza, stante che anche il discorso è un insieme determinato di determinazioni e, pertanto, deve oltrepassarsi esso stesso.

Riconoscere il valore intrinseco della relazione (mediazione) non può non comportare la trasformazione dell’immediato (del discorso in quanto insieme determinato di determinazioni), il quale non viene più inteso come un dato o un fatto (un insieme di “detti”), ma come l’atto del suo trascendersi. Così come l’essere del segno consiste nel suo inviare ad altro, altrettanto l’essere del discorso (che è un insieme di segni) si risolve nel suo riferirsi alla cosa.

In altre parole: il discorso non vale come un termine della relazione che prevede la cosa come l’altro termine, ma si costituisce in virtù dell’intenzione di togliersi nella cosa per essere uno con essa. Il discorso, dunque, si pone in virtù dell’intentio veritatis e in tale intenzione si essenzializza e si risolve.

Riferimenti bibliografici
– Duns Scoto. 1950. Opus Oxoniense in “Opera omnia”. Città del Vaticano: Commissione scotistica diretta da C. Baliç, Typis Vaticanis.
– Aristotele. 1978. Metafisica (trad. it. di G. Reale). Milano: Rusconi.
– Stella, Aldo. 1994. Il concetto di “relazione” nella “Scienza della logica” di Hegel. Milano: Guerini Studio.
– Stella, Aldo. 1995. La relazione e il valore. Milano: Guerini Scientifica.
– Platone. 2003. Parmenide (trad. it. di G. Cambiano). Roma-Bari: Laterza.

 

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Università per Stranieri di Perugia e Università degli Studi di Perugia · Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Filosofia teoretica - Filosofia della mente - Scienze cognitive

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