Ma l’Emanuele non fa la Grazia

Nonostante continui a chiarire che i suoi scritti non vanno verso la direzione del cristianesimo (così come ricorda anche nella recente raccolta dal titolo Dispute sulla verità e la morte), non mancano studi e interpretazioni che vogliono la filosofia di Emanuele Severino rivolta e comunque non distante da esso. Anche il recente convegno di studi organizzato per celebrare i 50 anni dalla pubblicazione della Struttura originaria (il libro da cui, secondo il suo stesso autore, dipendono tutti gli altri) ha ospitato alcune relazioni che hanno cercato di mettere in luce i fili per un dialogo tra il suo pensiero e il cristianesimo (vedi qui gli atti del convegno L’alba dell’eternità con download gratuito). Tra queste anche quella del nostro amico e collaboratore Marco Panteghini che abbiamo pubblicato su questo sito due settimane fa. In essa si domanda se l’esito del sistema di Severino possa rientrare nella dimensione della Grazia in quanto «il fatto che la contraddizione permanga insuperata, cioè sia di fatto insuperabile, non è in contraddizione con la superabilità della contraddizione stessa. Se allora la permanenza della contraddizione nella storia è possibile, non si dovrà dire che, se si ha l’avvento della Gloria della Gioia, esso è un accadimento di Grazia?». La nostra risposta a questo interrogativo, se abbiamo correttamente inteso il quesito, è negativa per le ragioni che andiamo ad illustrare di seguito.

 

La relazione di Panteghini trae spunto essenzialmente dalla seconda parte di Studi di Filosofia della Prassi (SFdP) e da La Gloria (GL), libro del 2002 che costituisce, come indica il sottotitolo, la risoluzione di Destino della Necessità (DdN), uno dei testi imprescindibili di Severino insieme ad Essenza del nichilismo (EdN). Da SFdP a DdN, di cui appunto la GL ne costituisce la continuazione, emergono prospettive tra loro differenti. Se in SFdP si ritiene che il messaggio cristiano possa essere un tratto del volto definitivo della verità, a partire da EdN «ci si rende conto che il cristianesimo storico (…) non può essere un tratto del volto, e tantomeno il volto definitivo della verità» ((Studi di Filosofia della Prassi, 2° edizione ampliata, Adelphi, 1984, p.21)). Nella GL, in particolare, Severino mostra come a fondamento della Gioia, cioè del dispiegamento finale del destino dell’essere, c’è l’apparire dell’eternità dell’essente in quanto essente «in quanto tale eternità si mostra come destino non smentibile dalla verità» ((La Gloria, Adelphi, 2002, p.31)).
Ora, se in generale saremmo anche propensi a vedere una certa prossimità della filosofia di Severino con alcuni aspetti dello spirito del cristianesimo (per ragioni che avremo modo di discutere in un’altra occasione) in questo caso crediamo che il nostro amico si spinga troppo avanti nel tentativo di rintracciare nel pensiero del filosofo bresciano degli elementi che lo possano avvicinare alla grazia.

I due sensi della grazia
In un primo senso, il termine grazia è usato da Severino nel senso tradizionale come sinonimo di fede, ovvero quell’accadere che consiste nella volontà che qualcosa sia altro rispetto a ciò che è e che dunque sia volontà interpretante. La grazia mostra le ambiguità di una dottrina, quella cristiana, che oscilla continuamente in due direzioni: da una parte quando pretende che la grazia si presenti con evidenza alla ragione naturale, finendo poi però per rifuggire da tale conclusione quando si accorge che una simile tesi risolve il cristianesimo nella gnosi; dall’altra, qualificando la grazia come dono di Dio (anche per cercare di rimediare all’esito gnostico del primo tentativo), finisce per riportare il cristianesimo alla sua natura di argomento delle cose nascoste, ovvero alla fede, negando la sua pretesa evidenza razionale ((Cfr. su questo Pensieri sul cristianesimo, BUR, Rizzoli, 2010, pp.73-79)). Ambiguità in cui consiste anche il dilemma della Chiesa la quale «non può accettare che la dottrina dell’armonia di fede e ragione sia fondata sulla ragione. Ma non può nemmeno accettare che sia fondata sulla fede e che dunque esprima semplicemente il modo in cui la fede intende il proprio rapporto con la ragione» ((Téchne, 2° edizione, Rusconi, 1988, p.164)).

Secondo un senso strettamente fenomenologico, la grazia è un fatto che, in quanto tale, è ciò che per sua natura non possiede i caratteri della necessità: il suo sopraggiungere può cioè sia accadere sia non accadere ed in tal senso è difficile comprendere in che modo la grazia possa essere intesa come quell’accadere già destinato ad accadere nel cerchio infinito del destino, perché allora non si dovrebbe nemmeno più chiamare grazia.
In questo senso, crediamo che un chiarimento alla domanda di Panteghini sia propriamente contenuto nella risposta che nel suo ultimo libro Severino da a Cacciari e ad un interprete che aveva messo in continuità il suo pensiero con quello del filosofo veneziano. Severino osserva che la struttura originaria, che implica l’eternità di ogni essente, non può essere negata dalla sua stessa implicazione, cosa che avverrebbe se essa implicasse qualcosa come possibile. Se Cacciari intende il Possibile (o l’Omnicompossibile come lo definisce il suo interprete) come potenza che fa essere ciò che è e non è assolutamente nulla, allora (obietta Severino) si finisce per non riconoscere più all’ente ciò che propriamente gli compete, l’essere cioè eterno; quando, al contrario, proprio a motivo di tale riconoscimento, si deve dire che l’essere eterno rifiuta ogni fondamento al proprio essere (anche quel fondamento che consiste nell’essere possibile). In definitiva, affermando la possibilità che un eterno sia fatto essere, Cacciari sostiene qualcosa che è manifestamente contraddittorio. E questo anche nel caso in cui si interpretasse il Possibile come quell’eterno che ha la possibilità di apparire e scomparire (diversa dalla possibilità nichilistica di essere o non essere) ((Cfr. Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, 2018, pp.175-205)).

C’è contraddizione e contraddizione
In merito al concetto di contraddizione è utile ricordare come Severino parli di due contraddizioni. Una relativa alla struttura originaria della verità, la cosiddetta contraddizione C, in quanto essa «non solo implica con necessità la propria finitezza, ma mostra che la totalità degli essenti che in essa appare è una totalità formale, astratta, priva cioè della concretezza che le compete ma non appare; sì che nella struttura originaria appare come totalità degli essenti ciò che, non mostrando la concretezza che necessariamente gli compete, non è la totalità degli essenti» ((ibid., p.200)). L’altra, la contraddizione normale, che nel linguaggio di Severino riguarda l’isolamento della terra, è fondata sul principio di non contraddizione (dire ad esempio che questo tavolo è bianco e nero allo stesso tempo) ed è destinata ad essere tolta per la sua insostenibilità nei confronti dell’evidenza del divenire. La prima contraddizione non ha un contenuto nullo, la seconda ha un contenuto nullo (in altre parole: se il contenuto della prima contraddizione viene confermato nel momento in cui appare il contenuto concreto di qualcosa, nella seconda contraddizione non si conferma nulla perché già non si era detto nulla). Provare l’analogia tra il Possibile di Cacciari e la contraddizione C significa, secondo Severino, mostrare che la contraddizione C sia analoga alla contraddizione normale e cioè sia un nulla. Il che finirebbe per rendere contraddittoria la stessa struttura originaria, ovvero ciò che non si lascia contraddire (dove contraddittorio significa impossibile).

Severino conclude ricordando il senso dei due tipi di possibilità da lui concepite, una relativa all’ente, che invece di apparire sarebbe potuto non apparire, e l’altra relativa all’ente che invece di non apparire sarebbe potuto apparire: entrambe (a differenza del Severino fino alla prima edizione di SFdP), costituiscono manifestazioni del nichilismo. Ora si deve dire invece, secondo le parole stesse del filosofo bresciano, «che è necessario che tutto ciò che appare appaia e appaia così come appare, e che tutto ciò che non appare non appaia nel modo in cui non appare, dove tutto ciò che appare e non appare è un eterno.» ((ibid., p.203)). La possibilità inserita nella struttura dell’apparire è anch’essa nichilistica e dunque impossibile: «mentre prima di DN la contraddizione C compete a un sopraggiungere del quale si afferma la possibilità che il sopraggiungente sarebbe potuto non sopraggiungere, con DN la contraddizione C compete a ciò il cui sopraggiungere è necessario ed è necessario che si manifesti così come si manifesta» ((ibid., p.204)). E così dicendo si esclude definitivamente ogni Grazia, Severino gratias.

Insegnante con dottorato di ricerca in Filosofia. Vive e lavora a Nocera Umbra, autore del podcast che prende il nome dal suo motto: Hic Rhodus Hic salta.

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