Anche quest’anno la comunità dei Camaldolesi di Fonte Avellana, sull’onda di un impulso verrebbe da dire “laicizzante” inaugurato sul finire degli anni novanta da Padre Barban, ha ospitato una personalità del panorama culturale italiano capace di tendere ponti non retorici e non stancamente ripetitivi tra il linguaggio della filosofia contemporanea e quello meno ottusamente chiuso in se stesso di certa teologia. Anni fa, per dire, trovai leziose e nel complesso deludenti le riflessioni che venne a proporre il professor Givone intorno al Nulla, suo storico cavallo di battaglia; queste righe vogliono essere invece un modesto tributo a quelle appena ascoltate dal pur meno noto professor Roberto Mancini dell’Università di Macerata, ateneo da cui evidentemente non escono solo inossidabili spinozisti, a noi così cari, ma anche dei pensatori tanto distanti dai nostri “palati” filosofici quanto intellettualmente rigorosi e, tecnicamente, onesti nell’esposizione del proprio pensiero, da meritare credo la nostra attenzione e di sicuro il mio personale interesse. Titolo della settimana di studio e di confronto reciproco condotta da Mancini, tenutasi all’eremo di Fonte Avellana (Ps) dal 19 al 25 agosto 2012, era il seguente: Filosofia e vita. Esperienze della verità vivente: il sogno, la promessa, il dono, il dialogo, la giustizia . Quella che ho ascoltato, purtroppo non integralmente (avendo dovuto per motivi personali anticipare il rientro) è stata una lettura altra (in realtà ben nota…) ma per l’appunto onesta del concetto di Verità. Una Verità multiforme, non confinata negli steccati di un dogma o di un’ideologia ma “vivente”, esperibile, sperimentabile a partire da qualunque approccio, religioso o meno, della propria esistenza. Una Verità che, nell’interpretazione di Mancini, non si esaurisce nello spazio del visibile e soprattutto si presenta con i caratteri indubitabili del dono, e come tale andrebbe riconosciuta ed amata. L’invito, se si vuole la pretesa del corso, era proprio quello di riconoscere alcune forme essenziali di questa esperienza, quali il sogno, la promessa o l’idea sempre rinnovabile di giustizia. Che si chiami Dio o Natura o semplice energia, la Verità ci è davanti e ci si offre, credenti e non, per essere accolta ed arricchita, potenziata, migliorata. Nella convinzione, non retorica, che una vita rinchiusa esclusivamente in un labirinto concettuale, per quanto architettonicamente valido, oppure ostaggio del nichilismo più radicato, non possono che condurre ad esiti disperanti, e quindi sostanzialmente paralizzanti. Mancini non ha avuto timore a sostenere come ad iniettare i frutti perversi di questa malattia dello spirito siano state le due matrici fondanti l’Occidente, così come da noi conosciuto: la filosofia da un lato, esasperando l’atteggiamento razionalista delle origini, il Cristianesimo dall’altro, privilegiando la lettura “sacrificale” a quella liberante e misericordiosa del suo messaggio.
Mancini ci ha proposto la sfida di far passare invece la Verità dal piano logico a quello del consenso, di avere con essa una relazione che ci impegni, una relazione non ortodossa, che superi la tentazione sempre rinascente (e molto democristiana…) della neutralità. Con un’analisi, ripeto, lucida e priva di orpelli accomodanti e catechistici, ha “smontato” le dinamiche antropologiche che hanno finito per imporsi e marcare un vantaggio, a suo avviso solo temporaneamente vincente: l’identità esclusiva, la difesa ossessiva della proprietà, il desiderio (non la volontà…) di potenza e, appunto, la logica del sacrificio, il tutto passando, ad esempio, per una lettura finalmente (almeno per me) chiara e stringente di autori malamente inflazionati come René Girard e Hannah Arendt. Per non dire dei riferimenti, per me anche affettivamente suggestivi, all’uomo planetario di Ernesto Balducci, che con Maurizio abbiamo conosciuto, percorso e assimilato all’alba della nostra genesi intellettuale. E proprio forse come non mi succedeva dai tempi di Balducci, ho per la prima volta (ri)sentito e (ri)conosciuto in Mancini l’eco di un afflato distante ormai anni luce dalla mia sensibilità filosofica, ma credibile, direi quasi fondato, capace di reggersi, senza arroganza o fastidiosi sensi di superiorità, sulle sue sole “gambe”.
Insomma, ho fiutato di nuovo un odore e intravisto uno spazio che pensavo davvero morto e sepolto per sempre, inaccessibile, impercorribile: lo spazio e l’odore di un possibile dialogo, considerato nella sua capacità profonda di schiudere davvero le porte a una umanità diversa, plurale, meno intossicata. Il prof. Mancini valeva il prezzo del biglietto.
Io non capisco. Perché la verità con la lettera maiuscola? È una? È nascosta? Perché? E la terra sulla quale scavare cos’è? Ci sarebbero mille tranelli messi dagli stessi uomini che consciamente o meno la allontanano, la nascondono? Quella sarebbe menzogna sopra la Verità, che la ricopre perché solo poche mani sapienti possano, forse, scavando duramente, portarla alla luce? Davvero diabolica questa Verità … a meno che non si voglia incolpare gli uomini violentati, mortali, fragili, pure di questo. Pure di questo. Ma si può possedere dunque questa Verità? Perché se non la si possiede non solo non si può negoziare, ma neanche vivere … Perché avrà pure qualcosa a che fare con la vita, con i gesti, con i passi questa esigente Verità. E la Verità sarebbe il punto forse irraggiungibile di chissà quale lungo, incerto, difficile cammino? Cammino così impervio da essere, dunque, ontologicamente riservato a pochi … questa è la Verità? Se la Verità non è autoevidente non è la Verità …è una verità … Se la Verità mi richiede un tortuoso percorso e magari, stanco, sfinito sballottato dal vento dell’esistere io non la potessi raggiungere di chi sarà la colpa, mia? Mia? Che tu sia maledetta, Verità; se esistessi ti brucerei, così sarei libero.
Pienamente d’accordo con Mauro, sottoscrivo ogni parola.
Ottima l’espressione, molto nietzschana, sul fatto che la verità non si negozia.
Nel dialogo filosofico non c’è (e non deve esserci!) una retorica sofista, ma una retorica da archeologo, che pulisce dalle incrostazioni il reperto.
La prosa tersa di Nanni è un piacere che merita di essere frequentato più spesso. Mi colpisce l’idea di una verità da costruire sul consenso. Come dice Saverio sopra, credo che usando questa espressione tu abbia inteso riferirti ad una pedagogia della verità, che porti tutti noi -perenni apprendisti- ad avvicinarci consapevolmente alle mille sfaccettature del vero. Dunque non consenso come accettazione condizionata e negoziale del vero (il vero non credo possa essere, in principio, negoziabile) ma consenso come graduale riconoscimento ed accettazione della verità. Spero di essere riuscito a spiegarmi.
Caro Nanni,
oltre ai miei – soliti – complimenti per la tua prosa (sempre poco sfruttata!) vorrei proporre un quesito di riflessione rispetto a ciò che hai scritto riguardo all’esperienza, gratificante, della settimana a Fonte Avellana.
Tu scrivi, a metà del pezzo: “Che si chiami Dio o Natura o semplice energia, la Verità ci è davanti e ci si offre, credenti e non, per essere accolta ed arricchita, potenziata, migliorata.”
Sul piano logico: migliorare ciò che è perfetto (la Verità in quanto verità non può essere che perfetta, e quindi non perfettibile) sembra un discorso molto aporetico.
Sul piano “pratico”, della praxìs, invece potrei aver inteso ciò che volevi dire: fare esperienza della verità, ovvero conoscere il mondo, le leggi che lo governano, sentirsi “toti se inserens mundo” – come dice Seneca -, cioè parte inserita nella totalità del mondo e partecipe di questo cosmo; è la condizione senza la quale non si può modificare l’atteggiamento della propria vita.
Perché qui voglio andare a finire. La Filosofia, e quindi il percorso verso la Verità, passa attraverso la vita ed il suo modo di essere. Siamo, e ci rivendichiamo antichi, proprio per questo.
“Arricchire, potenziare, migliorare” la verità – nel senso appena proposto – allora deve essere un’attività di profondo (come ben sai, e dimostri nel testo) dialogo, di smascheramento dei vizi e delle storpiature della realtà.
La verità va scoperta.
Una volta che la verità è già stata messa sul tavolo il dialogo non può aver inizio.