Da quel che abbiamo esaminato nel corpus di Dostoevskij e nella cultura russa del suo tempo la rivolta è considerata come elemento negativo in un sistema in cui tutto appare in maniera coerente e armoniosa. Il filosofo Albert Camus nel saggio L’uomo in rivolta (Camus 2010) riprende la topica che era stata trattata ampiamente da Dostoevskij sia ne I demoni che ne I fratelli Karamazov facendo della storia europea una lunga serie di atti di ribellione senza i quali l’essere umano non avrebbe tutte le prerogative che lo rendono tale: viene scandagliata da un punto di vista storico, letterario, artistico e filosofico una condizione difficile dell’uomo in quanto scomoda e dannosa nei confronti di chi si compie – come nel capitolo del saggio dedicato ai regicidi – tanto che il rivoltoso diventa agli occhi della collettività una minaccia da estirpare. Camus vuole dimostrare che la storia per come la conosciamo esplica il bisogno di rivolta come condizione essenziale dell’individuo il quale, se da una parte viene stigmatizzato, dall’altra è anche identificato come portavoce della liberazione e in questo senso egli si pone come corifeo del senso collettivo di giustizia. L’uomo che si ribella agisce per salvaguardare un diritto che gli è stato negato o per rivendicare a sé un valore essenziale per cui è oppresso, poiché come scrive il filosofo, «la rivolta si limita a rifiutare l’umiliazione senza chiederla per altri. Accetta persino il dolore per sé purché la sua integrità venga rispettata» (Camus 2010, 17-27).
In questo senso Ivan Karamazov si pone come antesignano di una tradizione per cui egli è quello che più di tutti si fa carico del peso delle ingiustizie arrecate all’uomo, fino al diniego di sé e al rifiuto della morale. Con la figura di Ivan il concetto di rivolta non è più solamente un disvalore ma rivela l’esigenza di riafferrare un diritto per sé stesso e per gli altri che sono oppressi in maniera uguale o maggiore e rivendica la presa di coscienza di un diritto, l’elevatezza da una condizione di menzogna a una di verità, il desiderio di affrancamento. Difficile giudicare l’integrità morale della ribellione quando a causa della sua sete di giustizia l’uomo appare come sedizioso. Se ragioniamo nell’ottica per cui Ivan vuole ad ogni costo la rivolta per il senso di giustizia dell’umanità, dobbiamo riprendere le parole del Cardinale Grande Inquisitore, ovvero l’invenzione letteraria del ribelle Karamazov:
«Il gran profeta Tuo, in visione e in allegoria, dice di aver veduto tutti i compartecipi della prima resurrezione, e che ce n’erano in ragione dodicimila per ciascuna generazione (Il profeta è ancora una volta Giovanni, spesso chiamato in causa dal Grande Inquisitore. Il numero dodicimila rappresenta il calcolo approssimativo degli eletti, presente nel capitolo 7 dell’Apocalisse. La misura è calcolata secondo il numero di dodici per ciascuna delle dodici tribù dei figli d’Israele, che nel capitolo 14 vengono nominati tutti insieme sotto la cifra di centoquarantaquattromila: nda). Ma se erano tanti, costoro erano pur sempre più che uomini. Essi avevano sopportato la Tua croce, avevano sopportato decine d’anni di affamato e nudo deserto, nutrendosi di locuste e di radici: e sì, certamente, Tu puoi con orgoglio additarci questi figli della libertà, del libero amore, del libero e splendido sacrificio in nome Tuo. Ma tieni a mente che costoro erano in tutto qualche migliaio, ed erano dèi: ma tutti gli altri? E che colpa hanno tutti gli altri, i deboli, se non sono stati capaci di sopportare quello che hanno sopportato i forti? Che colpa ha un’anima debole, se non è in grado di accogliere in sé doni tanto tremendi? O allora dunque Tu sei venuto senz’altro fra gli eletti e per gli eletti? Ma se è così, qui c’è un mistero e non è da noi comprenderlo» (Rozanov 1989, 105).
Ivan Karamazov così come il cardinale, nel suo impeto di giustizia si sente escluso dal progetto di salvezza in maniera radicale perché conforme alla propria indole orgogliosa e tracotante nonché al suo ateismo sfrontato e razionalistico. Secondo l’opinione del giovane intellettuale, il Messia ha dato agli uomini il libero arbitrio, un peso che non sono in grado di sopportare, per cui egli si dispera sin da subito insieme a tutti gli altri che non sopportano l’armonia pagata con la sofferenza di chi non ha colpa. A nome dell’umanità intera viene lanciata un’accusa a Dio, alla quale però non viene trovata risposta.
La condanna di Ivan si estende in maniera definitiva nel momento in cui la problematica tocca non più gli adulti: dopo aver portato nella sua argomentazione casi di cronaca in cui i bambini subiscono ingiustizie da parte degli adulti la questione diventa insostenibile per Aleksej: «immagina di essere tu a edificare il destino umano con lo scopo di rendere felici gli uomini, di concedere loro pace e che per far questo sia necessario e inevitabile far soffrire anche solo una creatura, e sulle sue lacrime erigere quell’edificio. Acconsentiresti a essere l’artefice a queste condizioni?» (Dostoevskij 2015, 342). Alla risposta negativa da parte del fratello la domanda di Ivan è una sola: sarà mai possibile che gli uomini siano felici con la consapevolezza di un paradosso così schiacciante? Persino la risposta per cui esisterebbe un architetto supremo che abbia edificato tutto con il proprio sangue divino non soddisfa la sete di giustizia di Dostoevskij, il quale a maggior ragione assegna a uno dei sui personaggi più estremi il connotato di ribelle e, come diremo noi a questo punto, uomo in rivolta.
Da questa premessa capiremo, come sottolineato sin dall’inizio, che attraverso la teorizzazione di Camus la rivolta assume un carattere metafisico: l’uomo si ribella fino in fondo non più contro un’ingiustizia in particolare bensì contro l’intera creazione. In sintesi, nulla è più riducibile alla natura umana limitata tanto più se la sua condizione di ipotetica inferiorità rispetto a un ordine supremo viene definita come ingiusta e immutabile. Attraverso questa analisi possiamo comprendere che, diversa dalla disobbedienza, la rivolta è innegabilmente più violenta nella sua condizione intrinseca: mentre la prima è momentanea ed esige anch’essa giustizia ma con pacatezza e attesa futura, la seconda è irremovibile e istantanea, universalmente riconosciuta dalla collettività di chi rivendichi un diritto.
Parola per parola, questa descrizione conviene all’insorto metafisico. Egli si erge su di un mondo in frantumi per rivendicarne l’unità, oppone il principio di giustizia che sta in lui al principio d’ingiustizia che vede all’opera nel mondo. Non vuole dunque nient’altro, primitivamente, che risolvere questa contraddizione, instaurare il regno unitario della giustizia, se può, oppure, ove lo si spinga agli estremi, dell’ingiustizia. Intanto, denuncia la contraddizione. Protestando contro la condizione in ciò che essa ha d’incompiuto a causa della morte, e di disperso, a causa del male, la rivolta metafisica è la rivendicazione motivata di un’unità felice, contro la sofferenza di vivere e di morire […]. L’insorto metafisico non è dunque sicuramente ateo, come si potrebbe credere, ma necessariamente blasfemo. Semplicemente, egli bestemmia innanzi tutto in nome dell’ordine, denunciando in Dio il padre della morte e il supremo scandalo (Camus 2010, 31-32).
Camus continua la dissertazione spiegando che l’insorto trascina con sé nella catabasi la forza superiore che lo ha portato fino a quel punto. Se inizialmente l’opposizione metafisica non è atea, necessariamente però è blasfema, ci dice il filosofo. L’uomo si risveglia dal proprio sonno fatto di dogmi e si pone quel tipo di domande sulle questioni ultime per le quali non è possibile trovare un punto di convergenza. Rendendosi conto di non poter risolvere enigmi che non gli sono propri, lancia al Creatore un grido esasperato. Proprio per i motivi che abbiamo elencato Ivan Karamazov rappresenta l’uomo teorizzato da Camus, e possiamo astrarre questo personaggio dal corpus dostoevskiano per farlo dialogare in maniera a sé stante. Questo rapporto è approfondito anche da Sergio Givone secondo cui Ivan inaugura la storia del nichilismo contemporaneo con l’etica del «tutto è permesso» (Givone 2006, 66-68).
Infine, oltre alla ribellione, il nichilismo si spinge fino a estendere la disperazione e la negazione al mondo aprendolo realmente all’azione, alla manipolazione e alla correzione dell’opera del Creatore. Si esprime in questo senso per intero tutta la portata dell’etica di Ivan Karamazov con il suo nichilismo. Givone aggiunge che Ivan compie il male per coerenza, rifiutando «la differenza profonda che il cristianesimo ha introdotto tra la sofferenza e la verità» (Ibidem); proprio qui nasce l’idea di correzione della creazione poiché in tutta la sua razionalità questo personaggio non intravede una soluzione ai problemi ultimi.
Da qui, l’idea di affidare l’esisto della coscienza dell’essere umano a un grande inquisitore che sia capace di gestire il libero arbitrio trovando infine una soluzione tra quest’ultimo e la felicità, ridimensionando così la complessità di un fardello che l’uomo non riesce a sopportare.
L’articolo prende spunto dal testo Dostoevskij: La rivolta storica e metafisica ne I demoni e I fratelli Karamazov, pubblicato nel 2020 da LuoghiInteriori e vincitore del “Premio letterario Città di Castello”.
Riferimenti bibliografici
– Camus, Albert. 2010. L’uomo in rivolta. Milano: Bompiani.
– Givone, Sergio. 2006. Dostoevskij e la filosofia. Bari-Milano: Laterza.
– Dostoevskij, Fëdor Michajlovič. 2015. I fratelli Karamazov. Milano: Feltrinelli.
– Rozanov, Vasilij Vasil’evič. 1989. La leggenda del grande inquisitore. Genova: Marietti.
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