Colpevoli piuttosto che impotenti

L’articolo indaga un aspetto, o meglio un’aporia, del rapporto tra azione umana e responsabilità morale. Se, come voleva Kant, quel rapporto è ristretto alla buona fede e alla volontà consapevole di mettere in atto una certa azione (mettendolo così al riparo dalle vicissitudini della fortuna), allora l’agire umano diventerebbe superficiale e fuori dal mondo, in quanto perderebbe tutto il suo potere di incidere sulla realtà. Meglio allora, sostiene il filosofo inglese Bernard Williams (1929-2003), accettare di poter agire sul mondo anche se l’impatto e le conseguenze morali di quello che facciamo sono fuori dal nostro controllo.

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La rivolta metafisica contro l’ingiustizia del mondo

Da quel che abbiamo esaminato nel corpus di Dostoevskij e nella cultura russa del suo tempo la rivolta è considerata come elemento negativo in un sistema in cui tutto appare in maniera coerente e armoniosa. Il filosofo Albert Camus nel saggio L’uomo in rivolta (Camus 2010) riprende la topica che era stata trattata ampiamente da Dostoevskij sia ne I demoni che ne I fratelli Karamazov facendo della storia europea una lunga serie di atti di ribellione senza i quali l’essere umano non avrebbe tutte le prerogative che lo rendono tale: viene scandagliata da un punto di vista storico, letterario, artistico e filosofico una condizione difficile dell’uomo in quanto scomoda e dannosa nei confronti di chi si compie – come nel capitolo del saggio dedicato ai regicidi – tanto che il rivoltoso diventa agli occhi della collettività una minaccia da estirpare. Camus vuole dimostrare che la storia per come la conosciamo esplica il bisogno di rivolta come condizione essenziale dell’individuo il quale, se da una parte viene stigmatizzato, dall’altra è anche identificato come portavoce della liberazione e in questo senso egli si pone come corifeo del senso collettivo di giustizia. L’uomo che si ribella agisce per salvaguardare un diritto che gli è stato negato o per rivendicare a sé un valore essenziale per cui è oppresso, poiché come scrive il filosofo, «la rivolta si limita a rifiutare l’umiliazione senza chiederla per altri. Accetta persino il dolore per sé purché la sua integrità venga rispettata» (Camus 2010, 17-27). Continue Reading

Verità vs libertà: una lettura

Quelli di verità e libertà sono concetti che la storia del pensiero filosofico ha spesso pensato in termini di reciproca contrapposizione. Il problema del loro rapporto è complicato dal fatto che essi hanno a volte assunto diverse forme: libertà e necessità, cultura e natura, io e Dio e ancora si potrebbe continuare con gli esempi. Dipanare il filo che lega quei concetti, pulire le parole dalle sedimentazioni che il tempo ha aggiunto su di esse, fornire una lettura secondo le prospettive adottate da alcuni pensatori è stato il difficile compito che si è assunto il prof. Costantino Esposito in una lectio magistralis tenuta al dipartimento di studi umanistici dell’università di Macerata il 6 giugno 2013. Docente di storia della filosofia all’Università di Bari, autore di numerosi saggi tra cui uno appena uscito per il Mulino su Heidegger, Esposito ha tentato non solo un excursus storico in quello che è un problema ancora aperto nella filosofia moderna e contemporanea ma ha anche cercato di offrire delle possibili soluzioni di lettura.

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Verità vs libertà: una lettura

Quelli di verità e libertà sono concetti che la storia del pensiero filosofico ha spesso pensato in termini di reciproca contrapposizione. Il problema del loro rapporto è complicato dal fatto che essi hanno a volte assunto diverse forme: libertà e necessità, cultura e natura, io e Dio e ancora si potrebbe continuare con gli esempi. Dipanare il filo che lega quei concetti, pulire le parole dalle sedimentazioni che il tempo ha aggiunto su di esse, fornire una lettura secondo le prospettive adottate da alcuni pensatori è stato il difficile compito che si è assunto il prof. Costantino Esposito in una lectio magistralis tenuta al dipartimento di studi umanistici dell’università di Macerata il 6 giugno scorso. Docente di storia della filosofia all’Università di Bari, autore di numerosi saggi tra cui uno appena uscito per il Mulino su Heidegger, Esposito ha tentato non solo un excursus storico in quello che è un problema ancora aperto nella filosofia moderna e contemporanea ma ha anche cercato di offrire delle possibili soluzioni di lettura.

Berlin e la distinzione tra libertà negativa e libertà positiva
Esposito è partito nel suo percorso da un famoso saggio di Isaiah Berlin che ha reso celebre una distinzione classica della filosofia. Da una parte la libertà negativa, o libertà da certi condizionamenti, intesa come libertà da intendersi come non interferenza. Dall’altra la libertà positiva come capacità di scelta. In termini medievali si è parlato, per indicare quella distinzione, rispettivamente di libertas indifferentiae e libertas determinationis.  Qui però, ha subito tenuto a precisare Esposito, le cose diventano più complicate. I medievali intendevano la libertas indifferentiae come la condizione preliminare affinché la libertà potesse scegliere un bene per cui soltanto nella libertas determinationis essa diventava effettivamente libero arbitrio. Entrambe le libertà erano quindi strutturalmente legate.
Nella ripresa che ne fa Isaiah Berlin la libertà negativa diventa invece l’essenza stessa della libertà. In questo modo diventa meno importante la dimensione cognitiva dell’atto libero per cui non conta sapere se io devo scegliere A piuttosto che B. L’atto della libertà sta o cade nella non indifferenza: l’essenza della libertà, dice Berlin, consiste nel diritto di scegliere come vogliamo scegliere senza che questo implichi un determinato mondo di valori. Non è importante sapere se sia vero o meno quello che vogliamo, in quanto l’unica ragione dei nostri atti è il fatto che essi costituiscano dei desideri non coartati. Di contro, ogni libertà positiva è vista da Berlin come il tentativo di giustificare, all’interno di un sistema di valori, una determinata scelta tale da far sbilanciare la ratio della libertà sull’oggetto voluto e non sulla indipendenza del soggetto.  Nella tipizzazione che ne fa Berlin, da una parte si può dire che è libero un atto che non è condizionato (se non dal fatto che esso sia desiderato dal soggetto) e  dove qualsiasi oggetto del desiderio può essere liberamente perseguito: possiamo dire cioè – ha continuato Esposito ripercorrendo la visione di Berlin – che l’atto con cui abbiamo perseguito quel desiderio appartiene all’essenza stessa della libertà (dove si potrebbe dire che l’atto libero non tollera giustificazioni razionali o morali in quanto esse eccedono comunque il carattere libero dell’atto). Dall’altro lato però, si deve anche dire che in presenza di un sistema di valori, che mi dirà come comportarmi e quando il mio atto sarà libero, bisognerà mortificare il puro desiderio senza coercizione.

Kant e la legge morale
A questo punto Esposito ha preso in considerazione la dottrina kantiana per la quale le due libertà, quella negativa e quella positiva, sono nuovamente riunite (anche se con un significato completamente diverso da quella medievale). La libertà è una realizzazione pratica della ragione la quale non può che muoversi seguendo il suo stesso comando: l’uomo morale, a differenza dell’uomo legale, è un uomo la cui moralità deriva dall’autoimposizione che la ragione fa a se stessa senza nessun condizionamento empirico. Ma, al tempo stesso, la libertà non è mai libero arbitrio: l’uomo veramente libero è colui che segue il dovere, cioè la legge della ragione. La libertà è la ratio essendi della legge morale la quale non esisterebbe senza la libertà. In che modo ci accorgiamo di essere liberi? Quando avvertiamo l’imperativo morale: se la libertà è la ratio essendi della legge morale, la legge morale è a sua volta la ratio cognoscendi della libertà. Da una parte troviamo l’idea di una libertà come autodeterminazione e mancanza di impedimenti (che nel caso di Kant comprendono anche gli impulsi interni: non è possibile ad esempio, che un uomo che cerchi la felicità sia un uomo morale); dall’altra parte la libertà non è semplicemente l’autodeterminazione della ragion pratica ma anche obbedienza al dovere.

J.S. Mill e la spontaneità come essenza naturale dell’uomo.
Ma il testo bandiera della libertà, intesa in senso negativo ed espressione della non interferenza, è posto da J. S. Mill. Per il pensatore inglese i fattori della libertà sono almeno tre: la libertà di pensiero e di opinione; la libertà di ricercare il proprio piacere (subendone anche tutte le conseguenze che possono derivare) e la possibilità di perseguire qualsiasi fine, anche se la nostra condotta possa sembrare sciocca o sbagliata; infine la libertà di associazione tra gli individui con la possibilità di perseguire qualsiasi scopo senza danneggiare gli altri. Mill aggiunge però che nessuno è veramente libero: il sistema della consuetudine sociale e del conformismo, fa sì che gli uomini imparino a non desiderare più come vorrebbe la loro stessa natura: anzi, a forza di non seguirla, gli uomini non hanno più una natura da seguire. La capacità dei desideri forti, spontanei, è totalmente forgiata dalla dimensione sociale. L’unico senso della libertà è quello di aderire a ciò che i migliori o i più fanno. Il prezzo da pagare è di non riconoscere più la natura dell’individuo. Il problema è allora chiedersi cosa sia questa natura umana. Essa, dice J.S. Mill, coincide con la pura spontaneità che si costituisce come vera essenza dell’individualità personale. Proprio con la liberazione di tale spontaneità viene recuperata l’autentica natura umana: l’azione dell’uomo è veramente libera quando esprime le sue facoltà in maniera spontanea. La vera opzione consiste dunque proprio in questa alternativa tra la spontaneità e l’ordine etico-culturale. L’aspetto più interessante di Mill – ha notato Esposito – è che il naturalismo starebbe dalla parte della libertà anziché da quello della necessità mentre la società esprimerebbe al contrario il valore morale, l’ordine della cultura contrapposto all’ordine della natura che si risolve invece  nella libertà. Siamo agli antipodi, come si può ben vedere, dalla concezione spinoziana: la libertà si compie come individualismo naturalistico.

Rousseau e la natura umana.
A questo punto – ha proseguito Esposito – si vede come il problema del rapporto tra verità e libertà si gioca proprio sul concetto di natura. Da questo punto di vista è imprescindibile il riferimento a Rossueau. Per il filosofo ginevrino, l’uomo è sempre determinato dal contesto sociale: loo stato di natura, da questo punto di vista, è soltanto un’ipotesi argomentativa per dire che l’uomo, nato libero, è poi ridotto in catene (come afferma l’inizio del Contratto sociale). L’entrata nel mondo consiste esattamente nell’essere condizionati: come è possibile fare esperienza della libertà? Mill avrebbe detto di riattivare la spontaneità, ciò che per Rousseau non è possibile perché la corruzione è pervasiva. La libertà allora è possibile solo se viene rifatta la natura umana, se l’individuo riceve un nuovo essere, venga denaturalizzato e ricostruito ad opera dello Stato. Quando entra nell’ordine sociale nasce l’ostacolo che inevitabilmente chiede una rinuncia, da parte dell’individuo, alla sua spontaneità. Questi ostacoli, dice Rousseau, hanno la meglio e il genere umano perirebbe se non cambiasse il suo modo d’essere. La libertà naturale in tal modo non è più possibile per Rousseau, così come non è possibile una pura spontaneità. Bisogna cambiare il modo di essere dell’individuo umano: ciò avviene soltanto identificando la volontà individuale con la volontà dello Stato. Rousseau – ha ricordato Esposito – parla di miracolo: la possibilità che un uomo possa obbedire realizzando la sua libertà. Ciò può avvenire nelle leggi dello Stato, in cui l’individuo si è dissolto e ha lasciato spazio alla volontà generale. La vera unità, e la vera soggettività, è l’unità comune in cui si inserisce ogni singolo io in cui ogni individuo è parte nel tutto. La denaturalizzazione, cambiare il modo di essere e la natura umana, indicano l’unica possibilità di essere veramente liberi. Secondo una celebre frase del filosofo ginevrino, non si può essere uomo e cittadino allo stesso tempo. Il rapporto verità-libertà in Rousseau viene ridefinito tramite il rapporto libertà-politica.

Un tentativo di conciliazione.
Esposito, al termine del suo percorso, ha provato ad indicare alcune strade di conciliazione tra il piano della verità e quello della libertà. Tra le prospettive discusse, particolare interesse è stata quella di Hannah Arendt la quale, a partire dal problema della contingenza, pone un’asimmetria tra la nascita e la morte: mentre la seconda può essere scelta, la prima ci è soltanto data. Il problema della libertà cioè non si risolve se non si arriva all’accettazione dell’essere nati: in questo modo si riconosce il fatto che si è dati e si pone l’inizio e la misura stessa della libertà. Una libertà che non è assoluta in quanto non crea. A livello ultimo infatti, noi non costruiamo noi stessi in quanto il fatto di esserci non lo decidiamo noi: possiamo autoeliminarci, ma non possiamo istituirci. Possiamo costruirci, ma rimane un residuo. La libertà ha a che fare con il dato irriducibile del nostro esser nati: solo così si può avere un punto che non può essere deciso dall’arbitrio dell’essere umano. Se non si scioglie questo “grumo”, il problema della libertà rimarrà sempre e il rapporto con la verità non potrà mai essere istituito. Se la libertà rimane alternativa al dato (all’essere e quindi al vero), alla fine la libertà si autoannullerebbe in quanto si risolverebbe soltanto nell’emozione o nel feeling. La radice ultima della libertà – ha concluso Esposito – è invece proprio l’accettare di esserci: ed in questo gesto si compie la ricongiunzione con la verità.

Vita come dono o … come debito?
Questa conclusione, per la verità soltanto accennata da parte di Esposito, si lega (così come pensa molta parte della filosofia contemporanea) a quella che è stata definita l’etica del dono: l’idea cioè che la nostra vita, in quanto evento non deciso da noi, vada accettata con gratitudine e senso di riconoscimento.
Il problema però, secondo noi di RF, è che tale visione reintroduce un senso del tutto mitico dell’esistenza e della vita. Perché allora non considerare la vita come debito? Ciò sarebbe in accordo non solo con la sapienza di molte religioni e filosofie (basterebbe a questo proposito citare soltanto la grande sapienza di Anassimandro) ma anche con la stessa esperienza comune la cui bilancia dimostra semmai che il piatto del debito è più pesante di quello del dono.  Ma questi sono discorsi piuttosto religiosi che filosofici così come ogni  volontà di dare un senso poietico all’esistenza.
Al contrario, per noi sarebbe opportuno non tanto stabilire delle opzioni, ovvero la volontà di imporre determinati sensi all’esistenza, quanto piuttosto di generare (ci si passi il termine) una posizione di rigorosa incontrovertibilità filosofica. Per fare ciò, anche questo sia detto in senso provvisorio, non crediamo sia possibile partire dalla “gettatezza” umana e dal factum brutum dell’esserci. Magari avremo modo di riparlarne.

 

 

Esiste ancora il libero arbitrio?

“Esiste ancora il libero arbitrio?” è il titolo di un seminario che si è svolto a Vercelli sabato scorso 28 maggio 2011. Organizzato dall’assessorato alla cultura della città, il programma ha visto la presenza di nomi noti della filosofia e della ricerca neurologica: il sottotitolo dell’iniziativa infatti indicava il ruolo del cervello tra libertà e determinismo. La domanda portante tuttavia, se esiste ancora il libero arbitrio appunto, è sembrata subito una domanda retorica: chi crede più al libero arbitrio se si vuole veramente pensare qualcosa? Parafrasando Schopenhauer: o si pensa o si crede..al libero arbitrio! Questo è stato detto sottovoce, in maniera gentile, riconoscendo che la nostra cultura è profondamente permeata dal bisogno di credere alla libertà; un bisogno che forse è anche una necessità per preservare concetti, come quello di premio e punizione, che sono al fondamento delle società umane. Se si ammettesse il determinismo che ne sarebbe della responsabilità umana e in che modo sarebbe regolata la società?

Divulgativo, ma essenziale nei contenuti e come al solito ironico, l’intervento di Maurizio Ferraris. Il suo contributo si è incentrato sull’idea leibniziana di automa spirituale. Che significa? Che l’uomo è come le macchine ma una macchina talmente complicata da sembrare libera: il fatto cioè di non conoscere, per motivi pratici, la determinazione del tutto, ci fornisce l’illusione della libertà. Da ciò la conclusione kantiana: la libertà ha carattere noumenico, cioè inconoscibile (quel modo gentile per un filosofo per dire che la libertà non esiste); tuttavia dobbiamo presupporla, e quindi ipotizzarla, perché è meglio ritenerci liberi che determinati.
In realtà, come ha controbattuto Armando Massarenti citando Diderot, è al contrario proprio dalla penetrazione della necessità che si acquista il senso della libertà e si accresce la civiltà. Nonostante il suo sia stato l’intervento più breve, questo sasso (profondamente spinoziano) gettato nello stagno ci suggerisce che la vera libertà nasce dalla contemplazione della necessità di tutte le cose.

Io riassumerei la domanda che è emersa tra i due interventi in questo modo: appurato che il libero arbitrio è una finzione, si tratta di una finzione utile da doversi perpetuare oppure è preferibile demolirla definitivamente? È giusto, cioè, lasciare al volgo la credenza sul libero arbitrio e allo stesso tempo negarla nella comunità dei filosofi?

I due sopra citati sono stati gli inteventi più filosofici dei quattro che ho ascoltato. Quello di Franca D’agostini si è incentrato sul rapporto tra filosofia e neuroscienze. Da parte di queste ultime è di moda oggi fare della filosofia un bersaglio polemico, criticandone il suo stesso modo d’essere. Il problema è che le neuroscienze, meglio dire gli scienziati che parlano in loro nome, non si rendono conto che le teorie di fondo grazie alle quali essi elaborano i loro studi e le loro conclusioni sono profondamente filosofiche. Cosa fanno questi scienziati in altre parole? Da una parte elaborano delle teorie grazie a concetti come coscienza, Io, intenzione, libertà ecc. che non solo sono filosofici ma fanno riferimento ad una certa filosofia che è quella essenzialmente cartesiana.
Poi, dichiarando come ormai superati i concetti di soggetto, Io, coscienza, mandano all’aria non solo la filosofia cartesiana ma tutta la filosofia. In definitiva tali “scienziati” (e già vi potete immaginare chi siano) finiscono per costruirsi dei fantocci di paglia a cui danno fuoco credendo di avere fatto opera per la quale debbano essere ricompensati. La loro audacia è pari alla loro stupidità (questo ovviamente è un mio commento). Questi cosiddetti scienziati elaborano poi delle teorie, spesso a partire da risultati di laboratorio, che spacciano e mettono in circolazione con gli altisonanti nomi anglosassoni con le quali sono nate (blind sight, split brains, ecc.), che in realtà celano dei contenuti risaputi se non addirittura banali. Basti pensare all’esperimento di tale Libet che mostra la differenza tra consapevolezza e azione: il cervello cioè si mette in moto prima che l’Io ne sia consapevole per cui la spiegazione delle nostre azioni viene fatta sempre a posteriori. Embè, dico io? Schopenhauer non diceva la stessa cosa duecento anni fa? C’era bisogno di fare uno stupido esperimento con il dito per capire che il volere umano è una costruzione a posteriori? O, ancora, la grande “trovata” secondo la quale il cervello inventa delle spiegazioni confabulatorie per cui la storia che ci raccontiamo è sempre molto diversa dalla realtà (l’ipotesi dello split brains). Insomma meglio chiudere con un no comment.
Non mi sono fermato per assistere nel pomeriggio alla risposta dei neuroscienziati presenti (De Caro, Oliveiro, Lavazza) ma in definitiva non mi interessava più di tanto conoscere ulteriori teorie sul perché o il percome il cervello dica delle cose che la filosofia ha da tempo non solo reso note ma ampiamente superato. Ho avuto il tempo per fermarmi però al buffet offerto dall’organizzazione (ottimo e ben fornito) e per maturare alcune riflessioni sul modo in cui si debbano organizzare gli eventi culturali. L’assessore, che ha guidato i lavori per tutto il periodo, si è dimostrato più che all’altezza, anche se a volte mi è sembrato facesse eccessiva mostra delle sue conoscenze filosofiche. Ma per questo, cioè per il modo di organizzare in futuro magari anche a Nocera eventuali incontri di questo tipo, lascio il giudizio al neo assessore Luciano il quale credo potrà fornirci degli argomenti più meditati.