Come è noto, si è soliti individuare diverse forme di materialismo. Si parla di materialismo metafisico o cosmologico, per indicare la concezione che sostiene il primato della materia, la sua inderivabilità nonché la sua indipendenza dal soggetto; per esso la materia è la causa di ogni cosa e lo è mediante la forza espressa dagli atomi che la costituiscono. Il materialismo metodologico sostiene, invece, che la nozione di materia è l’unica che sia utilizzabile per la spiegazione scientifica dei fenomeni; con la nozione di materia, inoltre, si intende quella che si compone dei concetti di corpo e di movimento. Si parla di materialismo pratico o morale quando si intende sostenere una visione edonistica dell’esistenza e di materialismo storico e dialettico quando si fa riferimento alla teoria della storia, della realtà sociale e della natura sostenuta da Marx ed Engels. V’è, infine, una forma di materialismo, detto psicofisico, volta a sostenere la stretta dipendenza causale dell’attività della mente dalla materia e cioè dal cervello. La concezione dell’uomo macchina, secondo l’espressione usata da La Mettrie, si colloca in questa prospettiva e approda ad un meccanicismo, che si è andato progressivamente affermando in forza della concezione scientifica del mondo.
Varietà del monismo materialistico
Al meccanicismo e al materialismo, come caratterizzanti la visione dell’uomo macchina, si sono associati il fisicalismo, tendente a sancire il primato della fisica tra le scienze – primato che si basa sul fatto che la materia costituisce la vera realtà –, il determinismo, che consente di derivare stati finali da stati iniziali in forza di leggi, il naturalismo, che fa dell’uomo un qualunque oggetto di natura, e il riduzionismo, che pensa il complesso come riducibile ad elementi semplici di natura materiale.
Volendo indicare gli antecedenti della concezione del monismo materialistico, all’interno della ricerca condotta sulla mente, è possibile riferirsi a Gilbert Ryle e alla prospettiva che egli ha contribuito a delineare in forma molto significativa. Nel suo libro The concept of mind, Ryle indica l’opportunità di prendere una netta distanza da ogni assunzione della mente in senso sostanzialistico e di considerare il mentale su un piano esclusivamente linguistico-categoriale. Non per niente, a Ryle si riferisce espressamente Daniel C. Dennett quando si adopera a mostrare «perché il dualismo è in disgrazia». Così scrive Dennett: «L’idea che la mente sia un’entità così separata dal cervello e composta non da materia ordinaria, ma da qualche altra sostanza speciale, viene usualmente chiamata dualismo. Oggigiorno esso gode, meritatamente, di una cattiva reputazione […]. Fin dall’attacco ormai classico di Gilbert Ryle (1949) a ciò che egli chiamava il ‘dogma cartesiano dello spettro nella macchina’, i dualisti sono sulla difensiva. La posizione dominante, variamente espressa e sostenuta, è il materialismo: esiste solo un tipo di sostanza, e cioè la materia – la sostanza fisica di cui si occupa la fisica, la chimica e la fisiologia – e la mente è in un certo senso niente altro che un fenomeno fisico. In breve, la mente è il cervello» (Dennet, 2009, 45). Come si evince dal passo di Dennett, la concezione che è prevalente tra coloro che si occupano di mente è il monismo materialistico: esiste un’unica sostanza, la materia, e la realtà è materiale, nel senso che possono venire considerati come effettivamente reali solo gli enti che hanno consistenza fisica. Il bersaglio è la concezione dualista, che viene fatta risalire a Cartesio e al suo famoso dualismo di res cogitans e res extensa. Proprio sul pensiero cartesiano si incentrano le critiche di Antonio Damasio, che scrive una famosa opera titolandola, appunto, Descartes’ Error. Tale opera è volta a confutare l’idea che possa darsi una sostanza non materiale. L’obiezione che viene rivolta ai dualisti è sintetizzata molto bene da Dennett: «L’obiezione usuale al dualismo era ben conosciuta dallo stesso Cartesio nel XVII secolo e sembra giusto affermare che né lui né i successivi dualisti siano mai riusciti a superarla convincentemente. Benché siano delle entità o sostanze distinte, la mente e il cervello devono tuttavia interagire […]. Poiché non abbiamo (per ora) la minima idea delle proprietà della sostanza mentale, non possiamo neanche immaginare (per ora) come possa essere influenzata dai processi fisici che provengono in qualche modo dal cervello, quindi ignoriamo per il momento questi segnali ascendenti e concentriamoci su quelli di ritorno, quelli che vanno dalla mente al cervello. Questi, ex hypothesi, non sono fisici […]. Nessuna energia o massa fisica è associata ad essi. Come riescono, allora, ad influenzare il funzionamento delle cellule cerebrali ad esse collegate?» (Dennet 2009, 46-47). La critica al dualismo si è tradotta nell’affermazione di una concezione monista e, poiché solo la materia è parsa offrirsi con indiscutibile certezza, il monismo è diventato materialistico. La prima, fondamentale, conseguenza di tale monismo è la valorizzazione dell’oggetto, che viene promosso ad unica realtà autentica, proprio perché dotato di consistenza fisica, cioè materiale. La valorizzazione dell’oggetto è così forte, che dell’oggetto si afferma la totale indipendenza dal soggetto, in modo tale che è possibile parlare di assolutizzazione dell’oggetto stesso.
L’apparente autosufficienza dell’oggetto
Il monismo materialistico afferma, dunque, la realtà dell’oggetto, perché l’oggetto sembrerebbe esibire una sua consistenza autonoma e autosufficiente, ossia sembrerebbe porsi come del tutto indipendente dal soggetto. Questa autosufficienza gli sarebbe garantita proprio dal fatto di essere un qualcosa di materiale. Per esprimere in forma paradigmatica questa posizione, che non è certamente nuova, ma è tipica del realismo ingenuo, possiamo usare le parole di John R. Searle: «Bene, osservate ora gli oggetti che vi circondano, sedie, tavoli, case, alberi. Questi oggetti non sono in alcun senso “soggettivi”. Esistono del tutto indipendentemente dall’essere o non essere oggetto d’esperienza di qualcuno» (Searle 2005, 7). In questo passo è contenuta, anche se in forma implicita, una fondamentale identificazione: quella di oggettivo e oggettuale. L’oggetto, insomma, è considerato oggettivo e oggettivo è ciò che esiste indipendentemente dal soggetto. Potremmo dire che l’oggetto sembra essere oggettivo perché si porrebbe fuori dalla relazione al soggetto e per questa ragione esso viene assunto come la realtà autentica, quella realtà che è in sé e per sé. In fondo, la posizione espressa da Searle coincide con quella di Hobbes e cioè con quel realismo materialistico che è l’essenza del monismo materialistico. La concezione del realismo materialistico (o naturalistico), dunque, afferma che l’oggetto c’è, è in sé, a prescindere dal suo venire percepito (o meno). Anche se il soggetto non fosse, comunque l’oggetto sarebbe, prova ne sia il fatto che il mondo è venuto alla luce tanti anni prima della comparsa dell’uomo. Ciò equivale a dire che l’oggetto non può essere reale perché viene percepito, ma, al contrario, si deve postulare che esso viene percepito perché è reale: poiché l’oggetto è reale, dunque è in sé e per sé, esso può venire percepito dal soggetto, il quale, da questo punto di vista, non fa che accogliere l’ente così come questo si dà (si offre).
Si comprende come realismo naturalistico e metafisica precritica esprimano, in effetti, un medesimo punto di vista, quello per il quale l’indipendenza dell’oggetto funge da elemento prioritario e fondante, cioè da assunto indiscusso. L’indipendenza diventa così indice del valore reale dell’oggetto, cioè del suo porsi a prescindere da qualsiasi vincolo ad altro oggetto nonché da qualsiasi vincolo al soggetto. L’oggetto è; è indipendentemente dal vincolo; è indipendente dal soggetto e per questo suo placido “stare”, per questo suo consistere unicamente in sé stesso, l’oggetto è reale: è, anzi, l’autentica realtà, l’unica autentica realtà, alla quale il conoscere deve totalmente subordinarsi. Proprio perché reale, l’oggetto è assoluto (sciolto da vincoli, ab-solutum) e l’assolutezza è sinonimo di realtà, perché è indice dell’indipendenza, dell’oggettività, dell’emergenza oltre la relazione. Se il vincolo ad altro comporta necessariamente la subordinazione, il sottostare, la relatività, di contro l’oggetto non può essere relativo, proprio perché deve valere quale autentico fondamento.Questo è l’assunto dal quale muove la ricerca sulla mente, inclusa la Filosofia della mente. Il punto da chiarire è se, viste le conseguenze concettuali cui l’assunto mette capo, non sia opportuno riflettere su di esso e rimetterlo in discussione. Per fornire un piccolo contributo in questa direzione, cerchiamo di evidenziare alcune delle conseguenze suddette nonché di mettere in luce che cosa propriamente significa considerare l’oggetto come l’unica realtà autentica.
Le dimenticanze del realismo ingenuo
Rivolgiamo una domanda a coloro che si fanno portavoce di questo realismo naturalistico, che non può non venire considerato ingenuo: la forma, anzi, più ingenua di realismo. La domanda è la seguente: quando si scopre la realtà dell’oggetto? La risposta non può che essere questa: solo dopo che è stato percepito. Se ne ricava, pertanto, che la sua realtà è una coscienza retrospettiva: inferisco la realtà dell’oggetto in ragione dell’averlo percepito, cosicché, in primo luogo, è la percezione che decreta la realtà e, in secondo luogo, la realtà è un’inferenza. La stessa domanda può venire formulata anche in questo modo: quella realtà, che è indipendente dal soggetto, permane la medesima allorché entra in rapporto con esso? Tale domanda implica due possibili risposte: se si risponde che la realtà permane la stessa, allora si deve ammettere che la relazione al soggetto non produce alcuna trasformazione in essa. In quest’ottica, oggetto-reale e oggetto-percepito risultano un medesimo, con la catastrofica conseguenza, per il realismo materialistico, che l’oggetto reale si risolve e si dissolve nell’oggetto percepito, l’unico di cui il soggetto possa avere esperienza e, dunque, possa parlare. Il realismo, per questa via, si dissolve nell’idealismo di Berkeley: esse est percipi. Se, di contro, si risponde che l’oggetto reale non si risolve nell’oggetto percepito, dal momento che il primo è in sé e per sé (kata physin, in se), laddove il secondo è per noi (pros hemas, quoad nos) – ossia è il prodotto della trasformazione che la dipendenza dal soggetto impone all’oggetto reale –, allora ci si trova nella necessità di dire che dell’oggetto reale nulla si può dire, se non che non coincide con l’oggetto percepito né si risolve in esso: l’oggetto reale è il noumenon di kantiana memoria e, come tale, è il postulato inoggettivabile di ogni oggettivazione. Ebbene, è quanto mai significativo rilevare che proprio Searle, che pure è un fautore del recupero dell’ontologia in prima persona, mantiene un concetto di oggettività che appartiene ad un realismo che non può non venire definito ingenuo. E, per precisare ancora meglio questo punto, che a nostro giudizio è davvero centrale, aggiungiamo un’ulteriore precisazione: non si deve pensare che venga condiviso dai soggetti ciò che in sé è oggettivo, ma si deve pensare che ciò che viene condiviso, magari dalla maggioranza delle persone, viene assunto come se fosse oggettivo, pur essendo, in effetti, non altro che soggettivo, ancorché intersoggettivo. Ciò che viene colto dal soggetto non può venire mai pensato come indipendente da questo coglimento. Assumere l’oggetto come se fosse oggettivo è precluso, dunque, dalla sua stessa natura di oggetto e ciò non può mai venire dimenticato. Se il realismo ingenuo tende a dimenticarlo, è la natura stessa del dato, il quale è tale in quanto è dato ad un soggetto, che impone lo si colga nella sua intrinseca valenza relazionale. Per contrario, l’oggettivo dovrebbe essere in sé consistente e per sé sussistente: solo a questa condizione esso funge da effettivo fondamento dell’edificio del conoscere. L’oggettivo, insomma, configura ciò che viene richiesto, ma l’esigenza di un fondamento autentico è destinata a rimanere insoddisfatta, perché ciò che è veramente in sé (l’assoluto) subisce una radicale trasformazione quando entra in rapporto con il soggetto. Proprio perché l’oggettivo permane un ideale del conoscere, piuttosto che un dato che possa venire oggettivato, la conoscenza si configura come un processo inesauribile. Ciò che di volta in volta viene assunto come oggettivo, allora, è a rigore solo intersoggettivo, inclusi gli “oggetti” della comune esperienza, i quali sono non altro che “prodotti” dell’attività del soggetto, anche se l’attività viene innescata da stimoli fisici che provengono dall’ambiente.
Riferimenti bibliografici
- Damasio, Antonio. 1995. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Milano: Adelphi (trad. it. di F. Macaluso. Ed. orig. 1994. Descartes’ Error. Emotion, Reason, and the Human Brain. New York: Putnam, New York).
- Dennet, Daniel C. 2009. Coscienza. Che cosa è? Roma-Bari: Laterza. 2009 (trad. it. di L. Colasanti. Ed. orig. 1991. Consciousness explained. New York-Boston-London: Little, Brown and Company, 1991).
- Ryle, Gilbert. 2007. Il concetto di mente. Roma-Bari: Laterza (trad.it. di G. Pellegrino. Ed. orig. 1949. The concept of mind. London: Hutchinson).
- Searle, John R. 2005. La mente. Milano: Raffaello Cortina (trad.it. di C. Nizzo. Ed. orig. 2004. Mind. A Brief Introduction. Oxford: Oxford University Press, Oxford 2004).
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su Ritiri Filosofici il 5 aprile 2020.
…articolo molto bello ed interessante…interessante sarebbe anche sapere come si possa evitare di affermare che sia “realismo ingenuo” anche l’affermazione che esista un “assoluto” ” che è veramente in sé (l’assoluto) e subisce una radicale trasformazione quando entra in rapporto con il soggetto”… comunque complimenti ancora e buona domenica.
Marco Panteghini